Il lager faceva giustizia definitiva del complesso del «tradimento». E' singolare - e deve essere detto - come il problema della fede mancata, dell'abbandono dell'alleato, non sia stato oggetto, neppure nei primi momenti dopo l'armistizio, né di preoccupazione né di dibattito tra i soldati italiani. Non ho mai avvertito in alcuno, nel lungo periodo della prigionia, né rimorso né ansia né vergogna per il rovesciamento di posizione dell'8 settembre. Al contrario, furono portati alla luce tutti i fatti, grandi e piccoli, della prepotenza spiccata e dell'insolente disprezzo dei tedeschi nei nostri confronti; la brutale e assoluta difesa dei loro interessi, il perseguimento accanito dei loro fini senza minimamente curarsi dell'alleato.
Il tema della «fedeltà» restò una esercitazione rettorica dei repubblichini e l'occasione di qualche sciocco insulto da parte dei nazisti. Comunque l'esperienza del campo di concentramento sciolse ogni possibile dubbio: «traditori» ci si avvide che per i nazisti erano i popoli dell'Europa intera e che nei nostri confronti veniva presa né più né meno la vendetta ch'essi esercitavano contro il resto del mondo. E' vero che esisteva una scala nell'intensità della persecuzione, ma anche i gradi iniziali dell'oppressione erano già posti a un livello non più umano, tanto che poteva essere solo un gusto sadico ricercare le differenze, a volte profonde, che distinguevano in quel mondo di «nemici» la posizione degli slavi da quella dei balcanici o dalla nostra. Senza dubbio nella scientifica costruzione dei nazisti anche il grammo di pane in più o in meno voleva rispondere a una catalogazione minuta e ferrea, ma per chi subiva non esisteva altro che un unico implacabile mostro: lande sabbiose e reticolati; fame e puzzo di rape; baracche di legno e insetti; lavoro e freddo; urla bestiali e morte.
Il lager faceva capire che il «nuovo ordine» hitleriano, l'Europa dei nazisti, non sarebbe stata gran che diversa da quella realizzata su scala ridotta nei campi di concentramento, nei territori soggetti, nella stessa Germania: una sterminata massa di «sottouomini» posta sotto la ferula del Popolo Eletto. A poco a poco diveniva chiaro anche per gli italiani, conoscendo gli «altri» e in essi avvertendo le medesime elementari aspirazioni alla libertà e alla pace e il medesimo gusto di vivere, che l'Europa vera era proprio quella tenuta in catene, che la storia degli uomini gravitava attorno a ben altri «assi» che non quello del nazifascismo. Il ribrezzo del lager concepito come sistema e la condanna conseguente dell'intero edificio di cui la schiavitù, il lavoro forzato, lo sfruttamento fino alla morte, l'eliminazione dei deboli e degli inutili non erano che i logici estremi corollari, fecero coinvolgere nel disgusto e nella riprovazione anche il fascismo che si comprendeva non essere ormai altro che una appendice servile e disprezzata del nazismo.
Nei campi di concentramento, nel lavoro obbligatorio, ufficiali e soldati italiani incontrarono, dopo anni di isolamento, gli altri popoli d'Europa, e dall'incontro trassero stimolo e luce per comprendere meglio l'abiezione della dittatura reazionaria degli Hitler e dei Mussolini e conforto e forza per resistere al nemico nel solco della generale resistenza.