Ciò contribuiva a superare l'ansia e l'angoscia dell'isolamento, della battaglia vana e disperata che talvolta colpì i soldati italiani nei primi mesi della prigionia quando l'Italia sembrava essere divenuta una terra remota e deserta sotto il tallone degli eserciti stranieri contrapposti. Gli italiani erano vivi invece, si battevano, e noi non eravamo soli. Diveniva più facile in tal modo individuare il «nemico». Diveniva possibile rialzare il capo di fronte agli altri europei, di fronte agli stessi tedeschi. Lo scherno che talvolta restava nella finta meraviglia di qualche francese o di qualche inglese: «Italiani? e cosa fate nel campo di concentramento?» poteva essere ormai rintuzzato senza tante parole. Gli internati avevano bisogno acuto, per resistere, prima ancora che di pane, di dignità, di fierezza, di orgoglio. I primi fatti, le prime notizie della lotta partigiana ebbero nel lager l'effetto di una formidabile iniezione di sicurezza e di coraggio. Esse giovarono pure ad attenuare il diffuso atteggiamento di critica e quasi di ostilità nei confronti del governo del Sud, che durò a lungo e che nemmeno al termine della prigionia si può dire fosse interamente superato. Quando i tedeschi e i fascisti definivano badogliani gli internati, questi non reagivano né si sentivano offesi perché comprendevano che sotto quell'insegna si volevano ricondurre tutti gli avversari del Reich e di Salò. Ma in realtà, anche se il governo del Sud non poteva comunque essere che il nostro governo, restava nella massa dei soldati e degli ufficiali uno stato d'animo di rancore, di sospetto, di disistima, perché alla direzione di esso stavano gli uomini e i gruppi ai quali si attribuiva la responsabilità non dell'armistizio ma del modo in cui esso era stato preparato e realizzato. Le vicende dolorose che i soldati italiani avevano vissuto dopo l'8 settembre, i fatti che li avevano travolti nella sconfitta di fronte ai tedeschi e nella prigionia portavano allora nell'opinione comune un solo nome: Badoglio.
A questa certo superficiale e informe attribuzione di responsabilità venne aggiungendosi, dopo i primi mesi di prigionia, la sensazione cupa e deprimente di essere rimasti isolati. Al governo del Sud si faceva carico - e in ciò non mancava certo la suggestione della propaganda fascista - di essere insensibile e indifferente di fronte alla tragedia degli internati, di non avere tentato nulla per far giungere loro una parola di conforto e di incitamento. Non tanto, si diceva, un aiuto materiale, quanto un riconoscimento di natura politica e morale. Il silenzio del governo al quale ci protestavamo fedeli - la difficoltà di stabilire un legame e un contatto non ci sembrava giustificazione sufficiente - creava la persuasione dolorosa e angosciante che non ci si volesse rendere conto della nostra lotta, che in Italia davvero si potesse pensare che noi avevamo scelto la via più comoda e che la nostra resistenza non fosse valutata come un contributo all'azione generale contro i tedeschi, ma quasi un problema di natura «personale» che avremmo dovuto risolvere per conto nostro. Se a tutti gli internati il governo di Salò appariva come un nemico irriducibile, a molti il governo del Sud restava estraneo, lontano dalle nostre ragioni e dalle nostre speranze. Non la sua azione che per lungo tempo ignorammo, ma la lotta dei partigiani ridiede a poco a poco la convinzione dell'esistenza di una Patria, nella quale avremmo potuto un giorno ritrovarci, e insieme la fiducia nell'utilità e nella necessità di quel nostro oscuro impegno. Via via che le notizie, avaramente filtrate attraverso le maglie della censura, ci portavano l'eco della battaglia in corso e l'ampiezza dei sacrifici e i nomi dei morti, noi ci reinserivamo nella realtà del nostro Paese, riconquistando forza e fede nel futuro.