Non vi è dubbio che nei lager gli ostacoli e le difficoltà incontrate nella formazione di una coscienza unitaria e nazionale furono ben più gravi che in Italia. Limiti obiettivi e invalicabili, innanzi tutto: la dispersione degli internati in una serie infinita di campi di concentramento e di luoghi di lavoro, una vera e propria diaspora degli italiani nell'intero territorio europeo soggetto ai tedeschi; il distacco dei soldati dagli ufficiali e la divisione tra gli ufficiali superiori e quelli inferiori, perché ritenevano che gli ufficiali avessero suscitato e alimentato fra i soldati lo spirito della ribellione antitedesca e della lotta dopo l'8 settembre. La dispersione e la divisione rendevano impossibile un collegamento qualsiasi e facevano di ogni lager un mondo irrimediabilmente chiuso. Solo i trasferimenti, quasi sempre decisi per ragioni militari, permettevano un contatto e un incontro tra gruppi diversi e da essi fu possibile rendersi conto come, nonostante l'immensità delle distanze e l'inesorabilità del filo spinato, l'esperienza compiuta nei diversi campi avesse seguito un processo quasi identico. Ciò non toglie che la resistenza in Germania si frantumò in una serie numerosa di episodi, di battaglie, senza che fosse possibile - come pur tra notevoli difficoltà accadde al movimento partigiano - una direzione, una guida, una autorità unitaria. Non era d'altra parte possibile la costituzione e il riconoscimento di un qualche centro, di un qualche comitato che potesse coordinare e indirizzare a un fine comune le iniziative e gli sforzi diversi. Nei singoli lager, del resto, non sempre i comandi italiani coincidevano con la parte politicamente più attiva e avanzata.
Gli stessi mezzi di studio e di propaganda, pur non indifferenti, come abbiamo già osservato, dato l'ambiente e i tempi, erano pur sempre inadeguati all'importanza del compito. Occorreva molto spesso far leva sulla propria memoria, sui ricordi personali, su vecchie e lontane letture. Credo di aver scritto in quei tempi sui più incredibili pezzi di carta in una calligrafia tanto minuta che oggi non riesco più a decifrare. Mancavano gli strumenti elementari per una qualsiasi scuola, mancava spesso un locale dove potersi riunire e si sa, per i racconti a cui ha dato spunto, quale tormento fosse la vita collettiva nelle baracche. Nei campi dove si riuscì ad avere una sala destinata ad attività ricreative e culturali, ciò avvenne dopo una lunga e ostinata azione nei confronti dei tedeschi, che pur non proibendo in modo assoluto riunioni e dibattiti, non intendevano certo agevolarli.
Ma le difficoltà maggiori furono altre. C'era la fame e l'esaurirsi progressivo delle forze, e ciò spiega perché il dibattito culturale e l'agitazione politica dopo l'inverno 1943 ebbero lo sviluppo massimo nella primavera del 1944, si attenuarono nel secondo durissimo inverno e si esaurirono quasi negli ultimi spaventosi mesi di prigionia. Di fronte alla fame, alla debolezza del corpo, al rischio delle malattie, faceva presa quella che ho chiamato igiene del tenere il fiato sospeso, del mandare in vacanza la propria coscienza e la propria volontà. «Salvare la pelle», che era certo uno scopo essenziale, apparve a molti possibile solo adagiandosi in uno stato vegetativo che non richiedesse uno sforzo qualsiasi, una qualsiasi decisione o impegno. Si diceva: lasciarsi vivere, risparmiare ogni energia, ogni grammo della propria forza vitale. Ed era in realtà la peggior forma di attendismo non solo politico, ma morale: un impedimento e un nemico, nei lager come in Italia, della resistenza.
Ma l'incentivo alla passività dipendeva, inoltre, dal carattere stesso della prigionia che doveva necessariamente circoscrivere il compito della resistenza nel dibattito e nella lotta delle idee non potendo essa esplicarsi liberamente nell'azione. La guerra partigiana aveva il suo primo e naturale compito nella lotta armata e questa non poteva non suscitare problemi di indirizzo, di organizzazione, di direzione che implicavano fatalmente un'opera di chiarificazione e di battaglia politica, uno sviluppo unitario. Per noi il limite del filo spinato chiudeva la resistenza nella ricerca e nell'approfondimento, che potevano talvolta apparire astratti e superflui, delle sue ragioni politiche e nell'educazione civile e morale, che correva sempre il rischio di suscitare il fastidio e di degenerare nella petulanza e nella sufficienza moralistica e pedagogica. Ci mancava la valvola di sicurezza e la risorsa dell'azione, riassumendosi per noi tutti i gesti possibili nel dir "no" e nell'attendere, nel dire "no" e nella difesa della nostra integrità fisica. Non potevamo contare sulla ricchezza tematica della lotta dispiegata, sugli insegnamenti scaturiti dall'azione, sulla verifica delle nostre idee nei fatti sicché, se abbiamo osservato che la prigionia offrì una più calma e agevole possibilità di analisi storica e politica, occorre riconoscere che l'isolamento dalla realtà viva e il difetto di una concreta quotidiana prova limitò e rese meno solido e più lento il processo di maturazione e di conquista di una fede unitaria.
I conti fu necessario farli anche con le più svariate espressioni dello scetticismo, del logorante vivere alla giornata, affidandosi alle notizie degli avvenimenti che giungevano sempre artificiosamente gonfiati. C'era chi si tappava le orecchie deciso a non commuoversi di nulla fino al momento finale e c'era chi le orecchie le teneva aperte a ogni soffio di speranza, anche il più grossolanamente falso e deludente. Accanto ai patiti delle ricette dei piatti più fantasiosi e succulenti si ponevano i maniaci delle carte geografiche, delle notizie mirabolanti, e poi gli artisti geniali del commercio, della borsa nera, dell'arte di arrangiarsi, gli assorti negli infiniti tipi di lucida follia che il lager infaticabilmente creava. Dalla resistenza etica e politica fu necessario distinguere quelle espressioni lacrimose e qualunquistiche, tipo le favolette di Natale dei Guareschi che nel «sacrificio» della prigionia incubavano i lazzi di «Candido» e difendersi da chi si preoccupava di mettere assieme un capitale di benemerenze e di tormenti da offrire al ritorno al miglior offerente.
La prigionia e la resistenza in essa ebbero certo gravi limiti e ombre. La ferocia dell'oppressione e il peso della sofferenza misero a nudo le virtù e i difetti di ognuno e il guasto di lunghi anni di servitù e di diseducazione politica del nostro Paese. Ma proprio per questo tanto più grandi e degni ci appaiono i risultati di quella esperienza che fu per tutti di capitale importanza e per moltissimi giovani, è amaro dirlo, la prima viva e illuminante scuola della loro vita.
Il significato di «liberazione» che ebbe in generale la prigionia, acquistò tanto maggior rilievo nei campi degli ufficiali in quanto la maggioranza era costituita dai rappresentanti di quella media borghesia intellettuale che più largamente aveva piegato la testa di fronte all'ideologia fascista. Professionisti, tecnici, insegnanti, tutti coloro che il possesso di un titolo di studio, un diploma o una laurea, aveva portato a essere i quadri dirigenti dell'esercito, erano piombati con l'armistizio dell'8 settembre in una crisi che obbligava non solo a riconsiderare le cause e i motivi della vicenda bellica che li aveva travolti, ma pure la posizione che nel passato avevano assunto nella vita nazionale e i rapporti che durante la dittatura avevano stabilito con altri gruppi e classi sociali. Il dibattito sul fascismo mise in luce le responsabilità tipiche degli strati colti della piccola e media borghesia italiana e il fatto che dietro una formale condizione di prestigio essi erano stati, al pari delle grandi masse popolari, le vittime di un regime di privilegio sociale e di oppressione. Gli ufficiali si resero conto di essere stati ben più del soldato, contadino o operaio, gli strumenti e il sostegno del fascismo, proprio perché avevano creduto a quell'ideologia confusa che col corporativismo avrebbe dovuto risolvere i contrasti sociali assicurando nella scala gerarchica un posto di direzione e di favore ai medi ceti intellettuali; proprio perché essi avevano raccolto i richiami all'ordine sociale, alla grandezza della Patria, ai destini imperiali dietro i quali il fascismo aveva mascherato la sua politica conservatrice e aggressiva. Il crollo del regime e dello Stato doveva inevitabilmente condurre a una revisione di valori e di posizioni. E se l'analisi non poté spingersi fino al punto di dare consapevolezza piena e diffusa della natura di classe del fenomeno fascista e dell'alleanza fra le grandi forze capitaliste e la piccola e media borghesia, è certo che nella prigionia apparvero almeno evidenti le conseguenze catastrofiche, oltre che per il Paese, per i gruppi sociali e per i singoli che avevano scelto la connivenza con i fautori della reazione sociale e politica.
Lo studio e la discussione sulla storia del nostro Paese e l'insegnamento tratto dall'esperienza vissuta posero anche nei campi il problema di un profondo rinnovamento della nostra società e delle forze cui tale compito avrebbe dovuto essere affidato. Che non fosse possibile adattarsi, al termine della prigionia, a una pura e semplice restaurazione della situazione esistente in Italia prima del fascismo divenne un luogo comune. Si diffuse la persuasione che era necessario compiere un passo avanti: più libertà e più giustizia, si diceva, rinnovamento della vita civile e politica del nostro Paese, riconoscimento di un compito e di una funzione alle classi popolari. Ma in quella rinascita della Nazione quale avrebbe dovuto essere il posto nostro, la posizione degli strati e dei gruppi sociali dei quali noi eravamo espressione? Era inevitabile, nell'isolamento e nella dispersione che caratterizzò la resistenza nei campi di concentramento, che assumessero particolare rilievo le posizioni e i concetti tipici del radicalismo piccolo-borghese; le concezioni dell'autonomia e indipendenza sociale e politica dei gruppi della piccola e media borghesia di cui molti di quegli ufficiali pensavano di poter essere le forze dirigenti. Di qui il favore verso le idee e le posizioni che con un termine divenuto più tardi di moda si potrebbero definire terzaforziste, verso i tentativi di conciliazione tra i principi liberali e quelli socialisti, nei quali si esprimeva in sostanza il desiderio e l'ambizione dei gruppi intellettuali piccolo-borghesi di presentarsi come forza dirigente nazionale. Le «ragioni» dei soldati che avevano avuto un peso indubbio all'8 settembre e che erano state una delle spinte del processo di riflessione e di revisione compiuto dagli ufficiali, mantenevano certo la loro validità ma apparivano a molti ancora come una sorta di "cahier de doléances" di cui bisognava tener conto realizzando un regime di maggiore apertura democratica e sociale, in cui si potessero neutralizzare o almeno placare i fermenti rivoluzionari delle masse. Ma anche in questi propositi che oscillavano perennemente dalla prudenza del moderatismo alle illusioni del radicalismo non mancava il seme della novità e del progresso e l'occasione almeno per altri gruppi di formulare e di discutere in polemica concetti e programmi più avanzati.
Nel medesimo ordine di idee si inquadra la revisione e la conseguente condanna dell'atteggiamento passivo, opportunistico, di non impegno nella migliore delle ipotesi, degli uomini di cultura di fronte al fascismo e il ripudio delle concezioni che sul fondamento di una netta distinzione tra cultura e politica, tra arte e politica, tra pensiero e azione avevano consentito e giustificato l'abdicazione e il tradimento dei «chierici», degli intellettuali di fronte alla negazione dei supremi valori della libertà, della verità, del progresso che il fascismo aveva compiuto. Si polemizzò a lungo, nei campi, tra i gruppi più avanzati, contro le vecchie teorie dualistiche che pur trovavano fautori e teorizzatori novelli, contro le tradizionali formazioni tipologiche degli uomini d'azione da una parte, tecnici e politici, e degli uomini di cultura dall'altra, pensatori, filosofi, artisti.
Il fascismo aveva avvilito la cultura a serva di una folle politica, e uno degli argini eretto a difesa era pur stato, nel ventennio, l'affermazione di tutti quei princìpi che in qualche modo potessero tutelare la libertà e l'indipendenza dell'artista, dello storico, del filosofo. Ma era tuttavia evidente che bisognava ormai diroccare le torri d'avorio di tutte le specie e affermare l'impegno preciso degli uomini di cultura al rinnovamento e al progresso della società. Anche per questo ebbe valore nei lager la polemica contro l'arte pura, l'ermetismo, le espressioni letterarie e astratte, contro il carattere formalmente «umanistico» degli studi nel nostro Paese, contro la «disinteressata» speculazione filosofica: tutte le forme cioè di distacco della cultura e dei suoi rappresentanti dalla società reale, nell'interesse in definitiva delle classi dominanti.
L'attività culturale nei campi di concentramento trovò senza dubbio una delle sue fonti e delle sue forze nell'idealismo crociano e nella sua scuola, ma segnò pure un altro passo avanti nell'approfondimento del processo critico che nei confronti dello storicismo crociano, della «religione della libertà», della opposizione idealistica al fascismo era venuto svolgendosi in Italia negli anni precedenti la guerra.
I limiti di quella concezione - che pure era stata per molti di quegli ufficiali antifascisti all'origine della loro ribellione - si avvertivano sempre più di fronte a fenomeni come il nazismo, a fatti come la guerra, a esigenze come la resistenza europea, a problemi come quelli della costruzione di una società nuova in Italia per i quali essa non riusciva a offrire un sufficiente orientamento. Senza dubbio vi fu chi scoprì Croce nei lager e la sua concezione del mondo e della storia, ma vi fu pure chi si rese conto dell'insufficienza della sua teoria generale e sul terreno filosofico e su quello politico. Vi fu chi scoprì Marx e chi credette di aver trovato la ricetta per «superare» il marxismo. La salvezza apparve a molti nell'azionismo, ad altri nel cattolicesimo liberale. Ma un fatto importa mettere in luce: buona parte degli ufficiali si rese conto che la società italiana aveva bisogno di un rinnovamento radicale, che a fondamento del nuovo edificio non potevano che esserci i valori della libertà, della democrazia, del progresso sociale; che quelle classi popolari da cui erano usciti i soldati con i quali avevano vissuto la tragedia della guerra e della prigionia dovevano trovare un loro posto nella vita nazionale; che a loro, come rappresentanti del mondo della cultura, della tecnica, delle professioni liberali, della scuola, dell'apparato dello Stato, incombeva l'obbligo di un impegno, di uno sforzo, di una lotta per la rinascita del Paese; che il fascismo aveva umiliato nella servitù ai gruppi privilegiati del grande capitale gli strati della piccola e media borghesia e che nel futuro questi avrebbero dovuto rivendicare indipendenza e autonomia e rivedere le proprie alleanze politiche e sociali.