Ma ora, a distanza di tempo, quell'episodio più non duole, solo ammonisce e insegna. I ricordi, per me, e per tanti altri credo, si sono liberati dall'immediatezza del cieco e casuale accadere per collocarsi e acquistare senso in un processo logico, in uno sviluppo storico anziché in una cronaca confusa e orripilante. Ma proprio in questo loro divenire segni esemplari di una vicenda comune hanno acquistato maggiore vivezza e peso e importanza: non più i fatti della «mia» vita, che pur contano, mi sono presenti alla memoria, ma gli atti e i pensieri che ebbero un generale valore umano e politico e che confluendo e saldandosi dettero forza e sostanza alla resistenza.
Qui sta la risposta alla troppo facile obiezione di chi non riesce a scorgere l'unità e gli obiettivi della nostra lotta e può essere indotto a ritenere che il cammino da noi indicato sia stato in realtà percorso da una qualche esigua minoranza. Senza dubbio ognuno ha avuto la «sua» resistenza e la vicenda che noi abbiamo narrato riproduce nelle linee essenziali l'attività e la lotta dei gruppi più maturi e avanzati fra i 600 mila internati italiani e indica i problemi generali che vennero dibattuti, le idee che si affermarono, il travaglio della ricerca, i periodi diversi della resistenza e il suo punto di arrivo. Ma proprio in questo consiste la verità e la validità della lotta, la sua storia concreta e attuale. Il resto, lo stato d'animo, i pensieri, le ragioni del singolo, i casi della coscienza e della vita degli individui, possono certo precisare, arricchire, correggere il quadro di un'esperienza che fu complessa e intricata, ma non mutare il dato di fatto fondamentale: assieme, con tenacia, affrontando rischi mortali e pagando duramente, centinaia di migliaia di soldati e di ufficiali italiani hanno lottato per venti mesi contro tedeschi e fascisti, contro la lusinga e la minaccia per affermare il loro diritto a essere uomini liberi e cittadini di una libera Nazione.
Di fronte a questa che è l'«essenza della lotta», impallidiscono e cadono le debolezze, gli egoismi, le meschinità che pur vennero alla luce - e non poteva essere altrimenti - nella dura vita dei lager. La nostra attenzione non si è fermata sulle macchie umane, sulle pazzie e sulle miserie che ebbero tanta parte nell'universo dei campi di concentramento. Né ci è parso di dover insistere nell'attivo del bilancio sulle conquiste che ebbero un valore soprattutto individuale e umano: la volontà accanita di vivere e il senso struggente della bellezza della vita e il desiderio del lavoro, della casa, della gioia. Le difficoltà e la lotta produssero in generale un sentimento ostinato di forza: dopo quella prova che cosa avrebbe potuto spaventarci? Ci sentivamo in grado di affrontare serenamente qualsiasi battaglia nel futuro perché anche come uomini sapevamo di aver vinto i nemici più insidiosi: lo scoramento, la viltà, la rassegnazione fatalistica.
Ma - ci siamo sentiti chiedere talvolta - se la fame fosse stata ancora più grande e più forti le persecuzioni, se gli internati si fossero trovati nelle condizioni dei «politici» di Mauthausen o di Auschwitz, non avrebbero finito per aderire, per accettare il compromesso del lavoro obbligatorio? Si tratta in verità di un problema non serio e non solo perché si sa che la storia non può rispondere a domande di tal genere se non con indicazioni che ad altro non possono servire che a svelare l'animo attuale di chi si arrischia a formularle, ma anche perché l'avanzare tale interrogativo vuole essere un modo «innocente» per gettare l'ombra e il sospetto del dubbio sul valore della resistenza degli internati.
E' vero. Noi abbiamo avuto una sorte diversa da quella dei prigionieri dei campi di sterminio, dei lager politici, anche se occorre dire che non vi fu una differenza nella sostanza ma solo nel grado di intensità della persecuzione. Fortuna fu per noi l'essere restati in campi omogenei, tutti di italiani, tutti di militari, venendo in tal modo a mancare quel miscuglio, quella confusione di perseguitati politici e di delinquenti comuni, quella confluenza delle varie nazionalità che permise altrove ai tedeschi di dividere e di opporre gli uni agli altri e scatenò fra i prigionieri la lotta terribile per la conquista dei posti di direzione, per avere in mano le posizioni-chiave (i nazisti affidavano agli internati l'intera struttura organizzativa dei lager) necessarie alla sopravvivenza del singolo e del gruppo. Il processo di distruzione completa della personalità umana - che era l'obiettivo e la legge del lager e che nei suoi caratteri tipici possiamo ritrovare in una serie imponente di testimonianze - non giunse per noi alle fasi terribili dei campi della morte. E si può dire oggi pertanto che la nostra non fu una lotta per sopravvivere, ma una battaglia politica, tanto che potemmo fare nei campi ciò che agli stessi politici non fu consentito che in misura infinitamente minore: un dibattito, una ricerca di natura politica. Molti di noi tuttavia non ebbero allora coscienza dei margini che alla nostra esistenza i nazisti avevano dato, molti credettero davvero di avere toccato il punto estremo della persecuzione e della miseria e per questo l'interrogativo sul nostro atteggiamento di fronte a un più grave rischio ha un valore del tutto relativo. Gli ufficiali italiani che rifiutarono fino all'ultimo ogni forma di collaborazione con il Reich tedesco e la repubblica di Salò avevano, nella grande maggioranza, la convinzione di battersi fra la vita e la morte. Ma anche collocato nella prospettiva generale, più tardi divenuta chiara, l'episodio nostro nulla perde del suo significato. Posti di fronte a quel concreto e preciso dilemma l'importante è vedere come gli internati militari abbiano scelto, quale decisione, attraverso la lotta, abbiano saputo prendere. Se altre fossero state le condizioni, se diversa fosse stata, in sostanza, la questione, che cosa sarebbe accaduto? Oziosa domanda. Così come ozioso ci appare chiedere quanti di quei resistenti della prigionia avrebbero scelto, se la sorte ne avesse loro offerto l'occasione, la via del combattimento aperto, quanti se si fossero trovati in Italia l'8 settembre sarebbero diventati partigiani.
Il problema vero è evidentemente un altro: nelle condizioni determinate dal crollo dello Stato italiano e dell'esercito in seguito all'armistizio era dovere dei soldati italiani resistere ai tedeschi e ai fascisti affrontando la prigionia oppure no? E se il dovere era quello del rifiuto di ogni adesione, di ogni collaborazione, di ogni compromesso, sono riusciti i soldati italiani a combattere e a vincere quella battaglia, che era quella e la sola a cui la vicenda storica del Paese li aveva chiamati? La risposta non può essere dubbia ed è l'unica che conti. Da essa si può misurare come la resistenza nei campi di concentramento della Germania abbia dato un contributo diretto alla lotta di Liberazione, tanto da poter essere considerata legittimamente un episodio di essa. E il senso ultimo della nostra battaglia può a ragione identificarsi, oggi, nell'opera paziente di ricostruzione di una coscienza civile e politica unitaria, di una ricomposizione del tessuto nazionale violentemente lacerato dalla politica e dalla guerra fascista. In tal modo si unì all'obiettivo patriottico quello politico di un rinnovamento democratico del nostro Paese e sotto tale profilo la resistenza degli internati italiani - così come il generale movimento di liberazione - si differenziò da quella di altri popoli.
La prigionia attraverso il dibattito e la lotta agevolò il formarsi di una coscienza democratica in centinaia di migliaia di uomini, di giovani che il fascismo aveva cresciuto nella serra soffocante del conformismo e dell'ignoranza.
Quando alla liberazione la radio diffuse i nuovi nomi della vita politica italiana, l'enorme maggioranza degli internati ignorava del tutto la loro esistenza, anche quando si trattava di uomini che avevano compiuto grandi prove nel passato, nell'arena politica nazionale e internazionale. Ma se poteva arrecare sorpresa il nome di Togliatti, di De Gasperi, di Nenni, di Parri, gli internati avevano ormai consapevolezza e conoscenza delle idee, dei programmi; dei partiti che quegli uomini rappresentavano, avevano una base per orientarsi e per comprendere la situazione del nostro Paese, le forze politiche e sociali che in esso si muovevano, per decidere - già da quel momento - quale avrebbe dovuto essere il loro posto. L'Italia che noi trovammo al nostro ritorno respirava in sostanza nell'atmosfera che noi avevamo immaginata e tanto diversa da quella - cupa, desolata, senza speranza - in cui avevamo lasciato la Germania sconfitta. In campo erano i medesimi motivi, gli ideali, le speranze che avevano alimentato la nostra lotta. Il dramma del reduce non si svolse pertanto sul terreno politico, ma su quello del lavoro, delle relazioni umane e famigliari, intorno al problema del vivere, del posto da riprendere o da conquistare in una società profondamente scossa, in un Paese gravemente colpito dalla guerra. Né vi fu contrapposizione tra reduci e partigiani, al più qualche gelosia, qualche concorrenza sempre sotto il profilo non politico ma sociale, del lavoro e dell'esistenza. E questo grande risultato fu il frutto dell'opera di chiarificazione e di educazione ideologica e politica che venne svolgendosi in condizioni tanto diverse in Italia durante la lotta partigiana e in Germania durante la resistenza nei lager. Esso costituisce inoltre una ulteriore dimostrazione, al di là delle particolari e limitate sordità settarie di singoli, della sostanziale identità dei due episodi della battaglia antitedesca e antifascista in cui furono impegnate le forze migliori del nostro Paese.
Questo nostro breve profilo della resistenza nei lager vuol essere, più che storia, stimolo ed esortazione a una degna e compiuta indagine storica e non sarà stato inutile solo se avrà la forza di rinnovare in altri il ricordo e il bisogno di dire, l'interesse e l'impegno di una più profonda ricerca. Nello stesso tempo abbiamo inteso compiere un atto di omaggio e di riconoscenza verso tutti coloro che nei campi hanno avuto il coraggio e l'iniziativa della lotta, verso quanti ci sono stati maestri di vita civile e politica; e un gesto, modesto ma necessario, di ossequio verso la memoria dei compagni che abbiamo lasciato nei tanti cimiteri simili a quello di Wietzendorf.
Ai morti e ai vivi sono dedicate dunque queste pagine: a quelli che hanno conosciuto a fondo il volto odioso del nazismo e del militarismo tedesco e a chi non ha vissuto quell'esperienza, ai giovani soprattutto perché sappiano quale somma di sacrifici, quale prezzo di sangue è costata la libertà e l'indipendenza della nostra Repubblica, la difficile pace dell'Italia e del mondo.
[1955]