1. Pesava poco più di 40 chili, un fragile scheletro con una vistosa benda nera che gli copriva un occhio e un sorriso spalancato sulla bocca senza denti; appena scampato all'orrore dei lager nazisti, David Rousset appare a Simone De Beauvoir come un prodigio di vitalità, attraversato dalla «stessa volontà di vivere che illuminava i suoi libri». Rousset parla, scrive, mangia; ingrassa rapidamente e scompostamente, pubblica tre libri in tre anni ("Les jours de notre mort" è del 1947, "Le pitre ne rit pas" del 1948), si tuffa nella militanza politica dando vita con Sartre, Camus, Breton e altri al Rassemblement démocratique révolutionnaire. Grida, attira l'attenzione su di sé, avvia un dialogo serrato con Sartre sui rapporti tra comunismo ed esistenzialismo (i loro "entretiens" saranno pubblicati da «Les Temps Modernes»), poi ci litiga clamorosamente; viaggia in Europa, in America, si batte dapprima per una politica di equidistanza tra i due «blocchi», ma, alla fine, si innamora della «civiltà sindacalista» degli Stati Uniti spingendosi lungo i sentieri di un «americanismo» ossessivo e totalizzante.
Qualcosa di inquietante e di miracoloso affiora in questo dispendioso tumulto di energie fisiche e intellettuali; i suoi amici ne sono colpiti, i suoi avversari ne sono urtati, ma tutti ne intuiscono le ragioni profonde. Entrato nella Resistenza militando in un gruppo trotzkista, Rousset era stato arrestato dalla Gestapo il 12 ottobre 1943, torturato e deportato in Germania, a Neuengamme, poi alle miniere di sale di Helmstedt e a Buchenwald. Liberato dagli americani nell'aprile del 1945, fu rimpatriato a Parigi malato di tifo e con una grave congestione polmonare. Guarito dal tifo, scoprì di soffrire di amnesie: si interrogava sulla sua permanenza nei campi senza ricevere risposte, la sua memoria era muta, cancellata. Si ritirò in convalescenza a Saint-Jean-de-Mont, in Vandea, e di colpo la crosta dell'oblio e della rimozione andò in frantumi: fu come l'eruzione di un vulcano spento; espulsa la lava disseccata, un tumulto magmatico di ricordi, immagini, volti, episodi prese ad affiorare. «Io riprendevo quasi un chilo al giorno e, contemporaneamente, la mia memoria ritornava», avrebbe raccontato in seguito: fisicamente attraversato dalla febbre del ricordo, in Rousset dilagò l'ansia di farsi. testimone del secolo, di parlare alla storia, di imporre al futuro il terribile peso del «dovere di non dimenticare»: l'esperienza unica e irripetibile della vita nel lager doveva diventare subito una memoria che si fa racconto, una narrazione in cui bruciare pensieri ed emozioni.
"L'univers concentrationnaire" è così già pronto nell'agosto del 1945, a pochi mesi dalla liberazione dal campo di prigionia. E' stato scritto di getto (Rousset lo dettò a sua moglie in tre settimane), anzitutto per se stesso, per trovare un canale nei cui argini costringere il profluvio di sensazioni che si affacciavano alle soglie di una coscienza ancora ottenebrata dalla sofferenza, premevano disordinatamente per uscire alla luce della consapevolezza critica, abbandonando le tenebre del dolore e della rimozione: ricordi troppo intensi per essere elaborati e metabolizzati soltanto con il dialogo interiore e la riflessione intima. Questa esigenza di controllare e di rendere percepibile l'orrore prese ad alimentare, straordinariamente, un percorso analitico e conoscitivo freddo e rigoroso, l'unico in grado di disciplinare il tumulto caotico di un vissuto carico di angoscia e di paura; ne scaturì un libro-racconto dal ritmo incalzante e avvincente ma anche lucido e pacato come un saggio sociologico che supera e trascende la testimonianza personale.
2. Rousset scrive mosso dal desiderio di capire e anche di far capire agli altri, alla gente «normale». Nell'esame dettagliato e minuzioso dell'universo concentrazionario e nella sua descrizione distaccata è come se egli, a poco a poco, riuscisse a trasfigurarsi da testimone a osservatore sociale così da fuoriuscire da quella esperienza, guardarla dall'esterno e, per quanto irreale e incomunicabile possa apparire (Arendt), renderla comunicabile e raccontabile. Dal campo di prigionia si è portata dentro una sua mappa mentale; ora la ripercorre nei suoi ricordi per offrirla al lettore come un insostituibile strumento di conoscenza.
E' anzitutto una mappa geografica, quasi che leggere la topografia del campo e attraversarne i singoli «luoghi» (le cucine, l'infermeria, il crematorio, i magazzini, le baracche, gli alloggiamenti delle S.S., il bordello) fosse una sorta di percorso propedeutico alla comprensione dell'essenza intima del lager. Poi, come uno studioso che ha avuto la ventura di precipitare dentro le viscere più riposte del proprio oggetto di studio, Rousset ci offre, dall'interno, una descrizione minuziosa e dettagliata della struttura del campo, articolata in tre settori: una sorta di amministrazione municipale che sovrintende alla gestione diretta di tutte le complesse attività confluite nel lager; un vero e proprio «ministero degli Interni» (con le tre sezioni differenti «Schreibstube», «Politische Abteilung» e la polizia), che in un regime «normale» potrebbe intendersi come preposto all'insieme di questioni che si ricomprendono nell'«ordine pubblico»; e un ministero del lavoro, a sua volta diviso in due sezioni, l'«Arbeitseinsatz», che elabora i piani della produzione, e l'«Arbeitsstatistik» che ripartisce il lavoro e lo assegna alle singole sezioni del campo.
Questi uffici e queste strutture che si dipanano lungo i percorsi lenti e tortuosi, incomprensibili e grotteschi, della macchina burocratica («E ancora uffici sempre più ingombri di funzionari, detenuti impeccabili e affaccendati, dai volti grigi e seri, usciti da un universo kafkiano, che educatamente domandano il nome e l'indirizzo della persona da avvisare della vostra morte...»), sono lo scenario, una sorta di grottesco palcoscenico su cui si alternano i protagonisti e le comparse della vita del campo. Come in una impeccabile regia teatrale, Rousset alza il sipario e ci mostra anzitutto la massa dei deportati, terrificante metafora di una umanità totalmente massificata, condannata a un moto perpetuo innaturale e fine a se stesso, un immane groviglio, un branco di pesci che cambia forma e profilo senza mai perdere la sua compattezza, in cui, appunto, «gli uomini... rifluiscono e si scontrano, si urtano, si slanciano, cadono... impediti dalla paura, perseguitati dalla sete, coi gesti allucinati e rigidi di meccanismi inceppati».
In quel mucchio precipitano e scompaiono ruoli, gerarchie, professioni retaggio della vita normale: la strategia della sopravvivenza impone la sua legge e i suoi valori, la vecchiaia non è più fonte di rispetto ma di derisione, i mestieri esercitati in precedenza contano solo per le attitudini a sopravvivere che sono stati in grado di sviluppare; i detenuti interiorizzano lo sguardo delle S.S. e dei loro aguzzini, guardandosi reciprocamente come all'interno di un unico agglomerato gelatinoso in cui sono appena distinguibili i singoli raggruppamenti nazionali: i polacchi («gioiosamente e fortemente antisemiti fin quasi al punto di organizzare veri e propri pogrom nei campi: in una parola, incredibilmente incolti e sciovinisti»), i russi («di una robustezza fisica eccezionale»), i greci («vocianti all'eccesso, infingardi nel lavoro ma coraggiosi sotto la frusta»), gli olandesi («robuste strutture di operai e contadini lenti e cupi»), i danesi («spilungoni che muoiono con straordinaria facilità»), i francesi che non sanno lavarsi, «catins», deviati sessuali. Le appartenenze nazionali ridotte a stereotipi, la conoscenza dell'altro appiattita sui luoghi comuni: il lager si nega, così, all'immagine del crogiuolo; razze e nazionalità non si fondono all'interno di una nuova comunità costruita sul dolore e la sofferenza ma restano come barriere, compartimenti stagni, muri di diffidenza e di rancore. Polacchi contro russi, polacchi contro ebrei, e poi ancora comunisti contro socialdemocratici, gollisti contro comunisti e, soprattutto, prigionieri comuni contro prigionieri politici e alla fine tutti insieme contro gli «inassimilabili», contro i pederasti, gli zingari, i «marginali». La lotta tra i «politici» e i «comuni», in particolare, ha qualcosa di sordido: spietata e crudele, la sua posta in gioco è il potere nel campo (quello che viene delegato dalle S.S.) e la vita degli avversari. Quando Rousset arriva a Neuengamme, la contesa si è già esaurita con la vittoria dei comunisti tedeschi, il più antico nucleo di popolamento dei campi; grottesca e quasi ridicola in quel contesto, una nuova distinzione viene allora avanzata e si prende a discriminare i comunisti non in quanto tali ma in quanto seguaci o meno dell'ortodossia staliniana: da un lato i francesi tutti schierati per l'Union sacrée patriottica e nazionale, dall'altro i tedeschi, quasi tutti arrestati quando ancora dominava la linea «classe contro classe».
I detenuti, all'interno della comunità del lager, avrebbero potuto trovare una nuova identità collettiva e un'altra forma di consapevolezza per confrontarsi con l'orrore di quella loro esperienza esistenziale; ma la struttura del campo blocca quel percorso già ai suoi esordi, in un progetto che gli aguzzini hanno elaborato con lucida intenzionalità: «La presenza dei criminali, l'assortimento coatto di nazionalità che stronca ogni possibilità di comprensione, la calcolata mescolanza di classi sociali e di generazioni, la fame, la paura costante inchiodata nel cervello, le botte - altrettanti fattori che nel loro oggettivo sviluppo bastano... a provocare quel totale disgregarsi dell'individuo che è l'espressione somma dell'espiazione». Il campo ha come obiettivo esclusivo quello di distruggere e annullare la personalità dei prigionieri; pure, in quella massa di corpi, si annidano profili individuali indimenticabili, soprattutto quelli dei vecchi comunisti e Rousset li chiama sulla scena, forzandoli a un protagonismo che rompe l'anonimato e il grigiore della loro esistenza collettiva: la sera, nella Stube, per qualche brevissimo istante, l'insensato andirivieni del popolo del campo si ferma, la frenetica attività fatta di nulla si arresta e in quel tempo sospeso, strappato al lavoro forzato e alla tortura permanente, gli uomini ritornano se stessi per raccontare di affetti lontani, di militanze politiche furiosamente vissute, di passioni mai dimenticate.
3. Nel campo si lavora e, visto dall'esterno, la sua struttura può sembrare quella di un gigantesco opificio. Oggi, quell'immagine rimbalza nel dibattito storiografico sull'universo concentrazionario alimentando un'interpretazione che vede il lager come il disvelamento ultimo e definitivo dei meccanismi profondi del gigantismo industriale del Novecento: l'utilizzo massiccio del lavoro dei detenuti, degli «schiavi di stato», per lo sviluppo economico e militare della Germania e la crescente interdipendenza produttiva tra il mondo dei prigionieri e quello dei liberi cittadini sembrano avallare questa tesi che sottolinea il valore fortemente emblematico della scritta sovrastante gli ingressi ai campi («Il lavoro rende liberi»). Certamente si trattava di grandi concentrazioni produttive, in cui era coinvolta in modo rilevante tutta la grande industria tedesca. Uno dei lager più antichi (sorse addirittura prima della guerra, nel 1938), quello di Mauthausen, fu ad esempio organizzato per l'escavazione di una cava di granito delle vicinanze. Nel corso della guerra vi passarono più di 150 mila prigionieri. E dalla cava di Mauthausen, tra il 1938 e il 1943, uscirono cubi di granito, orli di marciapiedi, massi per fondamenta. Le strade e i palazzi della Germania nazista furono lastricate e costruiti con gli stenti e le sofferenze dei deportati. E tuttavia, come ha ricordato anche Bettelheim, gli schiavi erano un investimento, mentre nello stato di Hitler gli schiavi persero anche il valore d'investimento.
In questo senso la testimonianza di Rousset anticipa con assoluta lucidità gli sviluppi più recenti della storiografia sui lager; il lavoro, nel campo, era assolutamente fine a se stesso e ignorava sia i ritmi che gli obiettivi tradizionali di qualunque processo produttivo. C'era una consapevolezza diffusa di questa realtà, che riguardava anzitutto i detenuti («Scegliere una pietra di bell'aspetto e che pesi il meno possibile, e tornare al campo così, in fila, a consumare le ore che non passano mai»), ma che coinvolgeva tutte le altre componenti del campo, avvolte nelle spirali di un attivismo frenetico, più da formicaio calpestato che da fabbrica moderna: «La giornata, dura e lenta, fatta d'attesa colma d'ansia e di fame. Badili, picconi, carrelli, il sale spesso in bocca, negli occhi, i blocchi da sollevare, le rotaie da installare, il cemento da impastare, trasportare, stendere, le apparecchiature da trascinare, e S.S., Kapos, Vorarbeiter, Meister, sentinelle che picchiano, picchiano fino alla stanchezza appagante».
Agli aguzzini non importa che i detenuti lavorino, vogliono solo che soffrano: «Quando cadono le catene del lavoro essi forgiano i ceppi delle corvé inutili, delle infinite molestie, delle torture gratuite». Essi sono anzitutto uomini prigionieri, e solo in subordine sono dei lavoratori. Un puro accidente storico ha costretto il campo ad assumere anche il profilo dell'impresa di lavori pubblici; l'estensione della guerra su scala mondiale esigendo un impiego totale di tutto e di tutti ha determinato il suo assetto produttivo. Bisognava ottenere il massimo rendimento possibile con la spesa minore, intensificando lo sfruttamento degli abitanti dei territori conquistati fino a mettere in pericolo la loro stessa sopravvivenza fisica. Nel corso della guerra, dai paesi occupati dai nazisti furono così prelevati in totale 125 miliardi di marchi, ai quali erano da aggiungere le materie prime, i rifornimenti alimentari e i lavoratori costretti con la forza ad andare a lavorare nelle fabbriche tedesche. Nel 1942 giunsero in Germania ben cinque milioni di lavoratori stranieri, dei quali solo un milione e mezzo era costituito da prigionieri di guerra, mentre il resto era un vero e proprio «esercito del lavoro servile», importato dall'est (un milione) e dal resto dell'Europa (2 milioni e 400 mila). Erano cifre destinate a crescere; nel settembre 1944 i lavoratori stranieri furono sette milioni e mezzo (2 milioni di prigionieri di guerra), 8 milioni e 100 mila nel dicembre dello stesso anno.
Ma la centralità del lavoro si sovrappose semplicemente alla struttura intima del campo senza scalfirla. Quando «non c'era più niente da fare, si distruggeva il già fatto e si ricominciava da capo»; questa crudele insensatezza restituitaci da Rousset ci introduce nell'unico sbocco produttivo che rende plausibile e «razionale» l'intera organizzazione dell'universo concentrazionario, la morte.
4. A Mauthausen morirono 102 mila e 795 prigionieri su 197 mila e 464, a Neuengamme 55 mila su 106 mila, 50 mila su 125 mila a Bergen-Belsen, 261 mila su 405 mila ad Auschwitz; complessivamente la mortalità dei condannati fu di 1 su 3. Un rendimento altissimo, certamente superiore alle «rese» ottenute dagli impianti produttivi normali. Dietro queste cifre si nasconde quella che Rousset chiama la filosofia delle S.S.; i campi sono fatti per espiare e per morire non per lavorare e produrre: «il nemico», scrive Rousset, «altro non è che la potenza del Male intellettualmente e fisicamente espressa... E del Male è espressione statica l'esistenza fattuale di certi popoli, di certe razze: gli ebrei, i polacchi, i russi... Solo l'espiazione può essere appagante, pacificante. E dell'espiazione i campi di concentramento sono la macchina straordinaria e complessa». Perché infliggere al detenuto una fine così lenta e così orribile, perché quel surplus di ferocia rispetto a dare semplicemente e rapidamente la morte? Si tratta di una lentezza calcolata perché «il loro degrado fisico e morale, realizzato per gradi, li renda infine consapevoli di essere non già uomini, ma dannati, espressioni del Male».
E' questa morte al rallentatore a trasformare in un incubo l'esistenza nel campo. La morte è una componente fissa del paesaggio, accompagnata dal grottesco e dall'orrore: «A Neuengamme si impiccava in cortile, e ogni volta i detenuti, riuniti, erano costretti a cantare per tutta la durata della cerimonia». Ma, soprattutto, la morte entra nella vita, oltrepassa la soglia di demarcazione, si impadronisce di quei corpi sospesi tra la distruzione e la conservazione: «Incredibili scheletri, gli occhi vuoti, camminano come ciechi su fetide lordure. Appoggiati a una trave, la testa che ricade sul petto, restano immobili, muti, per una, due ore. Dopo qualche tempo il corpo si affloscia. Il cadavere vivo è diventato un cadavere morto». La vita morta è l'ossimoro che identifica la struttura ultima del disegno che ispira l'universo concentrazionario. Il «musulmano» ne è l'esemplificazione fisica: l'orrore del campo ne ha spento la coscienza e la personalità; non è ancora morto, ma «non vive più». La sua «nuda vita» prosegue solo in funzione della legge che regola il campo di concentramento. Il suo corpo biologico coincide totalmente con il suo corpo politico. «Il totalitarismo», ha scritto la Arendt, «ha per scopo ultimo la dominazione totale dell'uomo. I campi di concentramento sono laboratori per la sperimentazione del dominio totale, perché, la natura umana essendo quella che è, questo obiettivo non può essere raggiunto che nelle condizioni estreme di un inferno costruito dall'uomo.» Ora, con Agamben, l'accento cade sul processo inverso: «proprio la radicale trasformazione della politica in spazio della nuda vita (cioè, in un campo), ha legittimato e reso necessario il dominio totale».
Il lager, da metafora del sistema produttivo del Novecento, con Rousset assume così (per la prima volta) i contorni del luogo storico in cui affiorano nitidamente i caratteri della statualità così come sono inscritti nel paradigma della modernità: nell'età moderna la politica si trasforma in biopolitica, il corpo dell'individuo diventa la posta in gioco delle strategie politiche (Foucault). La biopolitica è la struttura profonda dello stato moderno ed è il lager a rivelarlo senza infingimenti: «il grande vantaggio qui è che le maschere cadono necessariamente», avrebbe scritto Rousset in "Le pitre ne rit pas". I prigionieri rinchiusi nei lager furono trattati anche come cavie umane nella ricerca medica corrente, esplicitando fino in fondo il loro essere reietti, esclusi «dalla comunità politica, privi di tutti i diritti e tuttavia ancora biologicamente vivi, in una zona-limite tra la vita e la morte, fra l'interno e l'esterno» (Dagognet). Nell'orizzonte biopolitico che caratterizza la modernità, il medico e lo scienziato si muovono in quella zona-limite solo ed esclusivamente come appendici della sovranità dello stato. Nel 1940 prese avvio l'Euthanasie Program fŸr unheilbaren Kranken che portò all'eliminazione di 60 mila persone, malati mentali incurabili. Questa forma di esercizio del potere sovrano rivelò l'essenza del nazionalsocialismo, la fusione tra politica, "Politik" (la lotta contro i nemici interni ed esterni dello stato) e polizia, "Polizei" (la cura e la crescita dei cittadini): «la polizia diventa politica e la cura della vita coincide con la lotta contro il nemico» (Agamben).
Rousset intuisce questa realtà e ce la racconta; ignora il rapporto tra nuda vita e biopolitica, attraversa inconsapevolmente la razionalità estrema della statualità del campo («in quanto i suoi abitanti sono stati spogliati di ogni statuto politico e ridotti integralmente a nuda vita, il campo è anche il più assoluto spazio biopolitico che sia stato mai realizzato, in cui il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senz'alcuna mediazione» - Agamben), ma si scopre a usare la nudità come grande paradigma conoscitivo per decifrarne l'essenza più intima: «uomini senza principi, smunti e abbrutiti; uomini portatori di fedi distrutte, di dignità smantellate, tutto un popolo nudo, interiormente nudo, spogliato di ogni cultura, di ogni civiltà, armato di badili e zappe, picconi e martelli...» E' una nudità metaforica, ma anche drammaticamente concreta; quei corpi sono denudati psicologicamente ma anche fisicamente dentro un unico contenitore granguignolesco: «La massa gelatinosa è percorsa da sussulti, scalpiccii, grida, pugni silenziosi, imprecazioni in russo, in tedesco, in polacco, in francese. I corpi nudi sferzati dal freddo sprofondano tra altri corpi nudi». Tra gli sgangherati lazzi delle S.S. i detenuti sono obbligati a correre in tondo, nudi; a lavorare, nudi; a entrare e uscire dalle baracche di corsa, nudi; ad assistere alle impiccagioni dei propri compagni, nudi. La nudità cancella il pudore e con il pudore si disintegra ogni dimensione diversa da quella puramente biologica: nella regressione biologica e animalesca delle proprie vittime i carnefici trovano la conferma della legittimità della propria ferocia.
5. A chi appartiene questa lucida ferocia? Ai tedeschi come popolo, al nazionalsocialismo come ideologia, o al Novecento come ultima ed estenuata rappresentazione cronologica della statualità moderna? In Rousset non affiora mai l'idea che a programmare e gestire un sistema produttivo e uno stato fondati sulla morte i tedeschi fossero più adatti di altri e, tantomeno, c'è l'identificazione dell'antisemitismo come elemento centrale della loro cultura (Goldhagen). Certo, egli guarda da vicino le motivazioni degli esecutori materiali dello sterminio, ne delinea la filosofia, illumina la loro cieca e ottusa convinzione di compiere un dovere legittimo e condiviso; ma tutto questo non viene ricollegato a nessun tipo di predisposizione genetica. Se il lager può essere assunto come immagine-chiave per decifrare la società tedesca sotto il nazismo, ciò deriva direttamente e senza mediazioni dalla rovinosa sconfitta politica subita dalla sinistra.
La sua testimonianza sull'universo concentrazionario, scritta mentre fumavano ancora gli orrendi camini di Auschwitz, ci restituisce nella Shoah uno sterminio solo quantitativamente diverso, un segmento statisticamente mostruoso all'interno però di un unico percorso ideologico, scandito in termini esclusivi dal nazionalsocialismo. Gli ebrei sono nominati "sempre" insieme ai polacchi e ai russi e nelle sue pagine la persecuzione razziale accomuna slavi ed ebrei in un unico destino di morte. Oggi, quelle sue osservazioni «a caldo» delineano nuovi scenari storiografici e il lager viene inserito in un "continuum" logico che comprende dapprima la vittoria del nazismo e il suo progetto di rifondazione politica e razziale dello stato, poi l'espansionismo e la guerra: «la guerra che il regime nazista combatte a est - l'operazione Barbarossa ma anche il prologo anticipatorio dell'invasione della Polonia - costituisce un punto di rottura della storia europea, per il suo carattere di guerra razziale e di sterminio volta alla distruzione dei paesi nemici e alla instaurazione di una dominazione coloniale» (Gozzini). Nel suo racconto Rousset ci offre precisamente una descrizione «dall'interno» di questo itinerario, raccontandoci la storia del mutamento di funzioni del lager, da struttura dello stato tedesco finalizzata alla frantumazione dell'opposizione politica e della criminalità comune a «contenitore-eliminatore delle popolazioni ebraiche e dei prigionieri di guerra».
Non è quindi l'antisemitismo, secondo Rousset, il tratto distintivo della filosofia delle S.S. Furono circa un milione le persone coinvolte direttamente nell'esecuzione materiale dell'Olocausto e nella gestione dei lager nazisti in tutta Europa; tutte, a suo avviso, partorite dall'incandescente crogiuolo della lotta politica nella Germania weimariana. Contro le spiegazioni etnocentriche della «predisposizione» dei tedeschi, Rousset rimette in campo quindi l'esclusiva centralità della politica, lasciando intravedere dietro l'abominio dell'universo concentrazionario la pace umiliante di Versailles e la crisi della repubblica di Weimar. Per capire la Shoah occorre quindi guardare dentro il nazismo, non dentro i tedeschi. Anche in Francia e in Russia l'antisemitismo era un sentimento diffuso; ma furono le vittorie di Dreyfus e di Lenin, sembra volerci dire Rousset, a evitare che quel sentimento sfociasse nell'annientamento e nell'eliminazione.
Ed è proprio alla portata analitica e conoscitiva della coppia oppositiva «vincitori e vinti» che Rousset affida la sua «spiegazione» dell'universo concentrazionario. La vittoria del nazismo ha avuto un effetto devastante, il terrore che ne è seguito ha bruciato tutti i livelli di consapevolezza, ha colpito il cuore e le menti degli uomini, ha sgretolato ogni forma di appartenenza sociale e collettiva, anche quelle apparentemente granitiche della classe operaia. «Sotto l'influenza della sconfitta i centri inibitori del proletariato si sono ipertrofizzati. Gli operai divengono cauti, diffidenti ed esitanti. Anche se l'eruzione vulcanica della reazione è cessata, la lava indurita dello stato fascista ricorda anche troppo minacciosamente quello che si è subito»; Rousset (che era diventato trotzkista nel 1931, dopo aver letto "La clef de la situation en Allemagne") sembra lasciarsi guidare proprio da questa classica citazione di Trotzky: l'incubo della repressione, egli scrive, aveva distrutto moralmente e fisicamente i vecchi partiti: «sopravvenne poi una paura generalizzata di parlare, alla fine tutti cessarono anche di pensare. Non venne solamente annientata l'opposizione: le stesse classi sociali furono smembrate nei loro elementi costitutivi. Il proletariato tedesco perdette la nozione del proprio ruolo e la coscienza di poter prendere un'iniziativa... Se reagì lo fece soltanto con la diserzione e con una sorta di sciopero a singhiozzo generalizzato, frutto sostanzialmente di stanchezza e di rinuncia. Tutti mollarono le redini. I campi di concentramento lasciarono la Germania svuotata di qualsiasi sostanza».
«La classe operaia tedesca è stata sgretolata da Hitler nelle sue risorse più profonde», avrebbe confermato a Sartre due anni dopo. Muta e sconfitta la classe operaia, come vincitori oscenamente appagati dal successo si affermarono i «ceti medi», un soggetto sociale tuttavia incapace di godersi i frutti della vittoria, destinato a essere travolto dagli stessi spettri evocati per inseguire il sogno di un impossibile protagonismo collettivo. Il nazismo presentò un conto alla fine uguale per tutti, per i vincitori e per i vinti e i ceti medi coniugarono il momento del loro apparente trionfo con lo spettacolo miserando di una identità collettiva mostrata senza più mediazioni culturali e occultamenti: «L'odio insensato che governa e comanda la totalità di tali azioni», scrive Rousset, «è fatto dello spettro di tutti i rancori, di tutte le meschine ambizioni fallite, di tutte le invidie, di tutte le angosce generati dall'incredibile disgregazione della classe media tedesca nel periodo tra le due guerre. Pretendere di individuarvi gli atavismi di una razza non è altro se non riecheggiare la mentalità delle S.S... Crollata ogni fede, perduto e ossessivamente rimpianto ogni agio, ribaltati i più stabili orizzonti intellettuali, altro non resta che una straordinaria nudità fatta di rabbia impotente, di astio criminoso affamato di vendetta e di rivincita».
Alla nudità delle vittime si affianca, alla fine, quella oscena dei carnefici. E' una prossimità ambigua e inquietante (Carasso). Come diceva Bataille nel 1947, recensendolo, il libro di Rousset, è «come una scoperta della terra (e beninteso del fango) da cui l'umanità si eleva». Ma questo abisso non è senza tempo e appartiene tutto intero alla contemporaneità. L'universo concentrazionario mette a nudo l'essenza del Novecento, rendendolo «il più infame e il più assassino dei secoli»; non per questo l'umanità dovrà «cacciarlo» dalla sua storia, anzi.
Penso a quel terribile «Nessuno vi crederà» che le S.S. gridavano ai prigionieri dei lager per privarli anche di quell'«appello alla storia» che era la loro unica speranza di vendetta. Nell'orrore concentrazionario si facevano sparire tracce e documenti, si sopprimevano testimoni, si cancellavano le stesse strutture materiali dei lager: gli archivi sepolti nel ghetto di Varsavia, i documenti e i diari sotterrati nei «campi» (spesso proprio davanti agli ingressi delle camere a gas e dei forni crematori), erano - in questo senso - i segni di una feroce determinazione a far sapere, di una disperata partita contro l'oblio e l'indifferenza del mondo (A. Bravo, D. Jalla). Facendosi interpreti di quella tragica battaglia, quello che Rousset, Primo Levi, Antelme ci hanno trasmesso è proprio il «dovere di non dimenticare».
Giovanni De Luna
Bibliografia delle opere citate nel testo:
F. Carasso, "L'homme en question. Lectures de Primo Levi, David Rousset et Robert Antelme", in «Esprit», n. 211, maggio 1995, p.p. 17-30.
A. Bravo, D. Dalla, "La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti", Milano, Franco Angeli, 1986.
E. Copfermann, "David Rousset. Une vie dans le siècle", Paris, Plon, 1991.
G. Gozzini, "Carnefici volontari e tedeschi comuni", in «Passato e Presente», n. 42, settembre/dicembre 1997.
D. J. Goldhagen, "Volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'olocausto", Milano, Mondadori, 1996.
S. De Beauvoir, "La forza delle cose", Torino, Einaudi, 1966 (1963).
H. Arendt, "Essays in understanding: 1930-1954", Harcourt Brace, New York, 1994.
-, "Le origini del totalitarismo", Milano, Edizioni di Comunità, 1967.
F. Dagognet, "La ma”trise du vivant", Paris, Hachette, 1988.
G. Agamben, "Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita", Torino, Einaudi, 1995.
M. Foucault, "La volontà di sapere", Milano, Feltrinelli, 1978.
G. Bataille, "Oeuvres complètes", t. 2, Paris, Gallimard, 1988.
K. D. Bracher, "La dittatura tedesca: origini, strutture, conseguenze del nazionalsocialismo", Bologna, Il Mulino, 1973.