UN NUOVO VOLTO DELLA LOTTA DI CLASSE.
Sui detenuti tedeschi le S.S. non si fanno illusioni: li considerano la peggior teppaglia che sia dato incontrare. Ma - diamine! - per certi versi, non fosse che per nascita, sono nonostante tutto membri della razza eletta. Possono bestemmiare il loro stesso sangue, e tuttavia appartengono al popolo dei Signori, anche in quell'aldilà che sono i campi di concentramento. Per questo i vertici della burocrazia sono reclutati esclusivamente fra i tedeschi. Nessun altro può aspirare a quei posti. La stragrande maggioranza dell'aristocrazia è composta da tedeschi. Ma quando i campi si sono aperti all'intera Europa, è stato inevitabile ammettere nella burocrazia degli stranieri. I polacchi sono arrivati fino al grado di Blockltester e di Kapo. Più in alto inizia il livello inaccessibile. Cechi e lussemburghesi hanno occupato posizioni forti nella polizia e negli uffici. Molto raramente, e solo dove erano in netta maggioranza, i francesi hanno svolto funzioni di Kapo e talvolta vicecapo-Block. Tutti gli altri, compresi i russi, non si sono mai spinti più in alto del ruolo di Vorarbeiter.
Gli ultimi due anni furono segnati da una guerra senza esclusione di colpi, in seno alla burocrazia, tra polacchi e tedeschi.
Nello stesso periodo si assisté anche a una certa ascesa dei russi verso il potere. Ma l'antagonismo fondamentale all'interno dell'aristocrazia concentrazionaria - antagonismo dilaniante fin verso il 1943 e un po' meno violento ma pur sempre vivace in seguito - si espresse nella lotta senza quartiere dei detenuti politici tedeschi contro i comuni. La sua storia è disseminata di cadaveri.
I Rossi erano essenzialmente comunisti, dato lo scarsissimo numero di socialdemocratici nell'universo concentrazionario. Nei campi i primi anni furono incomparabilmente più spaventosi di quelli da noi conosciuti. Per i militanti tedeschi, dunque, la lotta per il potere era letteralmente una questione di vita o di morte. Lo straordinario estendersi dei campi determinato dalla guerra giocò doppiamente in loro favore. Innanzitutto costrinse le S.S., data la carenza di personale dirigente, ad ammetterli alle funzioni più elevate all'interno delle cittadelle concentrazionarie, a fianco dei criminali. In secondo luogo, la diversificazione dei compiti consentì loro di occupare certi posti senza compromettersi irrimediabilmente. Il 1942 e l'inizio del '43 videro il trionfo quasi completo dei detenuti politici sui «comuni».
Se riuscirono a sfruttare efficacemente le circostanze, però, fu grazie al fatto che avevano costituito una fazione salda e omogenea. Attraversarono crisi interne durissime, causate da un lato dalle distinzioni imposte a un certo punto dalle S.S., in base alle quali i politici (e i terroristi) vennero espulsi e ricacciati tra le file dei Verdi, e dall'altro dalla terribile pressione esercitata dalle brutali condizioni di vita dei campi. Alcuni elementi, chi prima chi dopo, cedettero alla corruzione, altri abbandonarono la lotta. Le S.S. offrirono sempre ai detenuti politici la possibilità di uscire in cambio di un'abiura. Si trattava, del resto, di liberazioni fallaci. Tornato alla vita civile, l'ex detenuto rimaneva sotto la costante sorveglianza della Gestapo, e molto spesso, dopo un periodo più o meno lungo, tornava al campo, logorato nel fisico e nel morale. Solo ai loro pari che hanno attraversato le stesse prove è lecito giudicarli.
Ma un piccolo nucleo rimase saldo. Molti, che avevano rifiutato il mercimonio proposto dalle S.S., si comportarono con grande brutalità e parteciparono a numerosi traffici compromettenti. Per capire bisogna conoscere l'atmosfera dei campi. Sino alla fine, però, vi furono tra loro uomini che mantennero integra la propria dignità. E devo dire che è straordinario. Ho già parlato di Erich, il capo del Block 48 a Buchenwald. Suo padre, sua madre, suo fratello, tutti erano caduti vittime del nazismo. Il padre, l'aveva visto impiccare. Per più di dodici mesi ho vissuto giorno dopo giorno accanto a Emil Knder, il Kapo. Non l'ho mai visto alzare le mani. Neppure per un istante venne meno alle sue convinzioni rivoluzionarie. Rimase il responsabile di Amburgo, così com'era stato durante l'insurrezione. Eppure visse per anni tutta l'ignominia dei campi. Ho conosciuto intimamente Walter, e so che nei momenti peggiori, nei crolli più angosciosi, fu sempre sensibile, e quanto, al richiamo delle istanze rivoluzionarie. Kurt, che tirò avanti all'ombra di Emil e che ogni sera, nell'angoscia di un sistema nervoso distrutto, invocava a lungo la moglie, non picchiò mai nessuno. Ernst, che dicevano spagnolo a causa del profilo e del colorito olivastro, sapeva rendersi simpatico ai detenuti per il sorriso spontaneo e per l'apparenza di una vita normale e sana che portava con sé, nonostante tanti e tanti anni d'inferno. Ho maturato nei confronti di questi uomini - nonostante le debolezze e le tare che potevano portarsi appresso, e forse grazie a esse, che li restituivano alla loro umana miseria - un affetto nutrito della scoperta, al di là di ogni indegnità, dell'uomo orrendo e magnifico, valido per se stesso al di fuori di qualsiasi convinzione e convenzione. Emil, Walter, che lezione straordinaria la vostra vita, e che insegnamento di autentica forza attraverso tante sconfitte.
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La fazione comunista operante nel campo estendeva i propri contatti a tutte le cittadelle concentrazionarie. I continui trasferimenti favorivano i raccordi e lo scambio di informazioni, naturalmente nell'arco di parecchi mesi. I comunisti tedeschi avevano imparato a lavorare su tempi lunghi, senza impazienza. Questa collaborazione a distanza costituiva una forza nella lotta contro i Verdi. Se un funzionario criminale veniva destituito dopo uno scandalo fatto emergere dalla fazione dei politici a Neuengamme e inviato a Buchenwald, uno dei detenuti del convoglio informava minutamente sul suo conto i politici di questo campo, in modo che potessero prendere, nei confronti del nuovo venuto, le misure necessarie, isolandolo e in certi casi uccidendolo. I Verdi lo sapevano. Una delle armi più decisive contro di loro fu appunto una sorta di controterrore esercitato entro ogni possibile limite dell'universo concentrazionario. I «comuni» erano violentemente divisi, dilaniati dalla voracità. I politici sfruttarono tali divisioni accettando compromessi con un gruppo per schiacciarne un altro, e servendosi, per lavorare ai fianchi le S.S., della complicità di criminali, che godevano, almeno agli inizi, di più facile accesso. Ma la grande macchina da guerra fu lo sfruttamento di tutte le tare dei «comuni», totalmente incapaci di autocontrollo. Era sufficiente, usando del loro punto debole, renderli impotenti a mantenere l'ordine o a ottenere il rendimento necessario nel lavoro per farli destituire dalle S.S. La contropartita positiva consisteva nel mostrarsi a propria volta buoni organizzatori. Grazie alla loro rete di alleanze, all'omogeneità e al temperamento meglio formato, i politici disponevano di grandi vantaggi. Avevano imparato le tecniche del lavoro manuale. Sapevano parlare con i civili. Spesso, dunque, i rapporti degli ispettori erano favorevoli.
Un ostacolo su questa strada era costituito dal problema del sabotaggio. Affrontammo la questione molto spesso con Emil Knder. Non solo in astratto, ma su tutto l'arco dell'esperienza del Kommando Drei, dall'aprile del '44 all'agosto dello stesso anno. Ciò significava prendere in considerazione i rapporti con i russi, la disciplina nel lavoro, le relazioni con i civili e i militari. Il Kapo era responsabile del rendimento. Un minimo dunque doveva essere realizzato, pena gravi sanzioni che potevano arrivare sino alla forca. E l'altro problema era appunto quello di sopravvivere. Non si trattava semplicemente di una questione personale, ma della necessità di preservare quadri destinati a svolgere un ruolo importante all'indomani della guerra (2). Occorreva dunque fissare un minimo, variabile a seconda delle condizioni del momento, e ottenere che anche gli ispettori e i Posten si mantenessero entro tale ambito. Il tutto richiedeva grande tatto e grande finezza politica.
Riportata una vittoria parziale, con le posizioni-chiave saldamente in mano, i comunisti tedeschi estesero il loro potere occulto su quasi tutte le cittadelle concentrazionarie. Si trattava, per quella fazione, di una vastissima e importante piattaforma di resistenza. Se capitava che uno di loro venisse destituito dalle S.S. e addetto a un lavoro pesante, non ci si opponeva apertamente. Le decisioni però venivano sabotate a tutti i livelli. Un compagno Kapo lo prendeva nel suo Kommando e lo imboscava. Dopo un po' di tempo, trovava un nuovo posto. E questo era un bene per tutti i detenuti. Anche i politici corrotti che picchiavano duramente non erano dei selvaggi forsennati come i criminali. Ne derivò un sensibile miglioramento delle condizioni di vita dei campi. I comunisti stranieri avevano notevoli possibilità di sopravvivere. I tedeschi fecero sempre mostra di un'autentica solidarietà internazionale. Una volta identificati i compagni, i funzionari si davano da fare perché non venissero trasferiti e perché fossero assegnati a un lavoro relativamente buono. Al Block, il Blockltester era messo al corrente, e li lasciava tranquilli o, a volte, accordava loro qualche vantaggio. Con gli arrivi massicci del secondo semestre del '44, naturalmente, queste regole non poterono essere applicate a tutti, ma i responsabili stranieri continuarono a ricevere aiuto.
A Buchenwald il comitato centrale segreto della fazione comunista comprendeva tedeschi, cechi, un russo e un francese. Il suo potere era notevole.
I comunisti tedeschi conservavano intatta la mentalità del 1933. In particolare, continuavano a nutrire un odio feroce per la socialdemocrazia. I loro rapporti con i socialdemocratici internati dipendevano dall'apprezzamento personale, e in genere erano buoni. Che io sappia, però, nessun socialdemocratico entrò mai a far parte della loro fazione. Detestavano poi i preti, e diffidavano dei militari di professione. Ho già detto che Erich, nonostante i pericoli, non si oppose alle nostre conferenze sull'Unione Sovietica. Un giorno, però, fece una scenata assolutamente tipica. Il dottor Crouzet, un gollista di Marsiglia, aveva proposto che la sera, al rientro dall'appello, i francesi osservassero un minuto di silenzio, in piedi, rivolti verso la patria. Accadde una sola volta. Il giorno dopo Erich proruppe in una furibonda invettiva. «I francesi sono sciovinisti!» esclamò. «Io sono un internazionalista, e mi trovo al campo in quanto tale. Non intendo tollerare manifestazioni scioviniste nel mio Block.» Proibì quindi nel modo più assoluto qualsiasi iniziativa del genere.
Alcuni comunisti tedeschi avevano deciso di istituire, dopo la liberazione, un tribunale incaricato di giudicare i compagni internati in base al comportamento tenuto da ciascuno nei campi. Un altro progetto prevedeva la convocazione di un congresso di tutti i comunisti, tedeschi e non, reduci dai lager. Scopo di tale assise sarebbe stato trarre la morale di quell'esperienza e affrontare i problemi della politica internazionale all'indomani della seconda guerra mondiale.
Conservavano una grandissima fiducia nelle possibilità rivoluzionarie dell'Europa, e in genere ne collegavano lo sviluppo all'espansione militare ed economica dell'Urss. Si astenevano dal pronunciarsi circa lo scioglimento del Komintern, e in senso lato su tutti i problemi più recenti. A partire dal 1944 cominciarono a preoccuparsi delle condizioni che si sarebbero create con lo spirare del conflitto. Temevano fortemente che le S.S., prima di quella data, li eliminassero tutti quanti. E non si trattava di una paura infondata. Non sono certo al corrente di tutti i loro piani in proposito, ma i termini della questione erano sostanzialmente due: scampare alle S.S. e garantirsi contro la massa dei «comuni» di tutte le nazionalità che nei campi costituivano la stragrande maggioranza.
A Helmstedt Emil si era dato molto da fare per lavorarsi i militari che ci sorvegliavano. Uno dei Feldwebel era un ex comunista, un altro un democratico. Si addivenne a un accordo. Finché loro fossero rimasti là, garantirono, i soldati non avrebbero sparato sugli internati, neanche se le S.S. avessero dato l'ordine di farlo. Nell'eventualità di una sospensione delle ostilità quando le truppe alleate fossero state ancora lontane, i soldati dovevano impadronirsi del campo, uccidere le S.S. e armare il gruppo dei comunisti tedeschi e un nucleo di stranieri del quale, per Emil, io sarei stato responsabile.
Ma i militari partirono, e furono le terribili settimane di Wbbelin.
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La fine dei detenuti politici non fu priva di significato in quella Germania della disfatta. Le ultime settimane a Wbbelin furono molto torbide. In quell'accampamento erano stati riuniti numerosi convogli, e gli uomini non si conoscevano o si conoscevano poco. La fame faceva strage. Tra le cucine e il Revier vi era una distanza di circa duecento metri, e occorreva una decina di uomini armati per proteggere i bidoni di minestra destinati ai malati. Ogni giorno, sulla spianata che circondava le baracche, si verificavano scene di violenza. Subito dopo la distribuzione del rancio si formavano gruppi di una decina di uomini che assalivano i più deboli o gli isolati per rubare la loro razione. Vi furono tre casi di antropofagia, e si dovette montare la guardia all'obitorio. Non vi era ombra di medicinali, e gli internati morivano come mosche. Ben presto portarli via divenne difficile, e un odore di putredine cominciò a levarsi da quei carnai. Ogni notte erano scene di follia nel Block dei «convalescenti», dove venivano ammassati i deboli e gli agonizzanti e dove altri si rintanavano per sfuggire alle corvé. Tutte le notti qualcuno veniva ucciso, e le urla non cessavano fino all'alba. Ogni tanto i Kapos intervenivano a colpi di manganello.
I polacchi organizzarono un abbozzo di complotto contro i comunisti tedeschi e i russi. Vi erano coinvolti alcuni francesi. I comunisti tedeschi temevano anche le S.S., e probabilmente prepararono un piano di difesa, perché alla vigilia della liberazione Emil venne a dirmi che se quella notte o la successiva avessi sentito fischiare avrei dovuto raggiungere il più rapidamente possibile il loro Block. Non accadde nulla. Al mattino le S.S. cominciarono a dar segno di prepararsi ad abbandonare il campo, che continuò però a essere sorvegliato dalle sentinelle. In quelle ore queste uccisero una trentina di uomini che avevano tentato la fuga. Verso le dieci arrivò l'ordine di partenza per tutti i tedeschi. Nel primo pomeriggio si formarono alcuni gruppi in prossimità della porta, ma intanto correva voce che si trattasse di volontari. Emil venne a dirci addio. Insistei perché rimanesse, ma sorrise e scosse la testa. Il Kapo del Revier, anch'egli un comunista tedesco, si rifiutò di partire, ma io capii, osservando l'atteggiamento di Emil nei suoi confronti, che così facendo contravveniva non già a un ordine delle S.S., ma a una decisione della fazione. Verso le tredici si videro le S.S., al di là del filo spinato, dare dei fucili ai Kapos, politici compresi. Alle quattordici e trenta la maggior parte delle S.S. e delle sentinelle se n'era andata, ma rimanevano parecchi Kapos, ed erano armati. Dovevano essere circa le tre quando un grido possente si levò nel campo: «Gli americani».
Sulla strada era passato il primo automezzo. Le ultime sentinelle e i Kapos erano scomparsi. A terra erano rimasti alcuni fucili. I russi e i polacchi si precipitarono sui vagoni e nelle baracche delle S.S., dove c'erano le riserve di viveri.