Sua Maestà la folla
«Io so che per voi i popoli non contano niente perché la corte è armata, ma vi supplico di permettermi di dirvi che li si dovrebbe tenere in gran conto, tutte le volte che si riconoscono come un tutto. Allora ce ne stanno: incominciano anche loro a considerare niente i vostri eserciti e il guaio è che la loro forza consiste nella loro immaginazione; e in verità si può dire che, a differenza di tutte le altre forme di potere, essi possono, quando sono arrivati ad un certo punto, tutto ciò che credono di potere.»
Cardinale di Retz
In quel tempo, St. George’s Field è un vasto spazio di verde a sud del Tamigi, limitato a sud dal viale della Malinconia e ad est dalla via Sporca. è il luogo d’incontro dei giovani pezzenti e degli apprendisti che ci vengono a giocare a palla quando l’erba è rasa e all’amore quando è alta.
Alle dieci del mattino, venerdì 2 giugno 1780, il caldo è già intenso e la sete immensa. Fra la folla sfatta che converge verso il luogo del raduno, sono numerosi coloro i quali si concedono una o due soste al fresco delle taverne, al riparo dal sole rovente e dalle nuvole di polvere. Poi ne escono, ridendo e cantando, in gioiose e turbolente bande che hanno all’apparenza ben poco di puritano.
Eppure il grosso della schiera è composto da piccoli bottegai e da «onesti meccanici» che hanno il loro libro degli inni in tasca. Costoro fan mostra della dignità risoluta del fanatismo tranquillo. è arrivato alfine il giorno di dimostrare la loro forza e la loro fermezza, di far piegare questi signori imparruccati che cospirano senza tregua per ristabilire il dispotismo. Il cuore immenso della folla sovrana intona dei canti che mandano Babilonia la Zozza alle pattumiere dell’inferno.
Verso le undici, il presidente dell’Associazione protestante, lord George Gordon, si lancia in un discorso che è costretto a tagliare, interrotto dal rumoreggiare del pubblico impaziente ed eccitato, che lo applaude di cuore ma gli fa capire a gran voce che non è l’ora della chiacchiera: chi raduna una folla la sommuove sempre. Egli si reca quindi in carrozza al Parlamento, dove i suoi sostenitori devono raggiungerlo più tardi nel corso della giornata, per rimettergli la petizione che esige l’abolizione della legge «pro papazzo».
In quel mentre, un sarto si affaccenda a cucire insieme i diversi rotoli di pergamena dove sono scritti i nomi dei firmatari. Quando ha finito, la petizione è arrotolata come un tappeto. Il suo peso è tale che dovrà essere portata da diverse spalle, e a rotazione, dalla lunga processione che è al seguito.
Dopo qualche manovra in buon ordine sul campo, le quattro divisioni si mettono in moto al suono delle cornamuse: gli Scozzesi aprono la marcia. Coccarde blu sono distribuite dall’associazione a tutti quelli che non ne sono ancora muniti. Una massa di più di cinquantamila scontenti imbocca le vie di una città che, all’epoca, non conta che settecentomila abitanti.
Passato il Tamigi, il corteo si ingrossa di elementi ancora meno docili venuti dai quartieri più miserevoli della riva nord del fiume. Nei pressi del Parlamento, confluisce con altri gruppi di petizionisti, senza dubbio meno portati alle processioni e agli inni, che, già di per sé, formano una massa già impressionante. Le due folle si salutano vicendevolmente con un formidabile ruggito. L’ambiente si fa più elettrico: gli sguardi, all’improvviso, cominciano a brillare...
La gente dei vicoli si mischia a quella delle officine. Furfanti e ladruncoli, scippatori e ubriaconi sono della partita. Londra la Meticcia è sulla strada: in special modo i negri, scappati dalla schiavitù antillese o americana, che all’epoca erano circa il sette per cento della popolazione della città, sono venuti in massa e fanno circolare assieme alle brocche di rum e di bumbo, delle pipe fumanti acri profumi. I predicatori illuminati e i perditempo intransigenti pullulano. Lo sguardo febbricitante e il colorito pallido, i tribuni, i vaticinatori e i profeti di un giorno si sporgono dai loro palchi improvvisati per esortare con frenesia i brav’uomini alla stravaganza e alla vendetta, proclamando urbi et orbi che è meglio «morire sulla strada piuttosto che dover sopportare un governo papista».
Il Parlamento ormai è completamente isolato da una marea umana che non cessa di montare. La parola d’ordine è bloccare ogni membro della Camera dei lord in procinto di andare in seduta, su cui gravasse il minimo sospetto di connivenza con il partito di Satana - e la nobiltà lo era quasi tutta agli occhi dei poveri -, ed a imporgli di portare la coccarda blu.
Queste indicazioni vengono applicate con molto zelo, come non tardano a farne dolorosa esperienza i primi lord che si presentano verso le due del pomeriggio. Lord Bathurst, vecchio rudere ma personaggio importante dello Stato, viene tirato fuori senza tanti complimenti dalla sua vettura e debitamente malmenato. Viene colpito in volto, coperto di fango e trattato da «vecchia vacca» e, ingiuria suprema, da «papa». Il duca di Northumberland, il cui segretario è vestito di nero, è qualificato come «gesuita» e sanzionato senza meno; un borsaiolo ne approfitta per «fargli» l’orologio. Il calesse di lord Stormont viene completamente distrutto. Insomma, chiunque porti una parrucca o viaggi in carrozza subisce la stessa sorte, ma il popolo, meno sanguinario dei suoi padroni, lascia salva la vita a tutti i suoi nemici: alcuni si rifugiano in Parlamento, altri, più numerosi, optano per una svelta ritirata; la maggior parte se la cava con qualche coccarda violacea, in mancanza di coccarde blu.
I membri della Camera dei comuni se la cavano, in generale, un po’ meno peggio. Molti di quelli che appartengono al partito whig, bravi borghesi e calvinisti convinti, hanno, è vero, preso la precauzione di fare scrivere con il gesso sulle loro carrozze lo slogan del giorno: «basta con la puppa del papato», quando la maggior parte di loro, chi più chi meno discepoli dei Lumi, ha appena votato la legge di tolleranza. Gli altri non sono d’altronde che toccati di striscio e sono soprattutto l’oggetto di minacce o di scherni. Il modernista Edmund Burke, futuro denigratore della Rivoluzione francese, è coperto d’ingiurie «scandalose ed oscene». Solo due deputati, particolarmente detestati dalla plebe, vengono ben bene mazzolati e per poco non si fanno sfondare il culo.
Il calesse del Primo ministro, lord North, si apre rabbiosamente un varco tra la ressa per tentare di raggiungere le guardie a cavallo che proteggono il Parlamento. Negli immediati dintorni del palazzo è costretto a rallentare. Dagli al suo equipaggio! Un uomo si sporge sul mozzo della ruota, arriva a strappare il cappello dell’uomo di Stato e se ne fugge portandosi via il suo prezioso trofeo. Più tardi nella giornata, lo farà in piccoli pezzi che venderà ai curiosi uno scellino al pezzo.
Numerosi petizionisti, tra i più sobri o timorosi, scelgono allora, visto come van le cose, di tornare a casa. I brav’uomini che restano o prendono il loro posto sono perlopiù ben decisi a venire alle mani. Un cancelliere da strapazzo, in udienza, li ha descritti come molto simili alla «più bassa gentaglia». Ai loro occhi la festa non fa che cominciare.
All’interno del Parlamento regna il panico. La Camera alta si decide a fare appello alla forza pubblica, ma i pochi lord presenti non riescono a raccattare che un solo magistrato, il quale non dispone anche lui che di una magra truppa di sei sbirri. Ai Comuni, i deputati hanno lasciato perdere l’ordine del giorno - una proposta di imposizione fiscale sull’amido e sul commercio della polvere per le parrucche. Essi devono sgolarsi per farsi intendere, poiché l’atrio è invaso da una calca cenciosa che fa un gran baccano. Forte di un sì bell’appoggio lord Gordon presenta la sua petizione, che afferma essere stata sottoscritta da «centoventimila sudditi protestanti di Sua Maestà [...] che sono decisi a muoversi per i loro diritti e contro gli effetti perniciosi di una religione nemica di ogni libertà e di ogni purezza morale, partorita dalla frode e dalla superstizione, generatrice di assurdità, di persecuzione e della più diabolica crudeltà».
Ora, il dibattito nella strada ha già, prendendo un’altra piega, cambiato la posta in gioco. Come ha notato l’osservatore già citato, quelli che sono restati «non hanno, non è da dubitarne, non solo mai sentito alcun argomento in favore o contro la tolleranza, ma sono del tutto ignoranti sui motivi della petizione». E lord Gordon, di cui la folla canta il nome e che presenta tutti i segni di una «stravagante agitazione», fa la navetta tra la Camera e l’atrio per informare i suoi «aderenti» dello svolgimento del dibattito e per denunciare a loro, nome per nome, i deputati che non sono «niente amici della petizione». Egli s’inganna al punto di credere se non proprio di tenere il potere, di avere quantomeno la sua ora di gloria, nel momento in cui non esercita più molta influenza sulla folla e i suoi pari non vedono in lui che un inutile irresponsabile. Diversi deputati, fra i quali il suo cugino germano, minacciano, mano alla spada, di infilzarlo se persiste ad arringare la canaglia o se questa fa irruzione nella Camera.
Il tumulto continua a proseguire per sei ore prima che i politicanti accettino finalmente di mettere ai voti la proposta di abolizione della legge papista. Sui centonovantotto deputati dei Comuni presenti, non se ne trovano che sei che votano con lord Gordon. Quando la notizia di questa schiacciante disfatta parlamentare è portata a conoscenza della folla, gli esagerati e coloro ai quali prudono le mani raddoppiano d’ardore nell’eccitare la sua furia: non è forse quel giorno sovrana la strada, proprio quando i deputati non hanno a rispondere della loro scelta davanti ai contribuenti agiati che li hanno eletti? L’effervescenza è tale che i deputati pensano di fare una sortita, spada in pugno, per sottrarsi al popolaccio che li ammonisce a viva voce.
Prima di arrivare a così azzardati estremismi, si decide di fare appello alla Guardia. Poco prima delle nove, un modesto distaccamento di fanteria e di cavalleria, agli ordini del giudice Addington, viene spedito nei dintorni del Parlamento assediato. La truppa si fa largo tra la ressa e il baccano con la spada sguainata. Arrivati sullo spiazzo, i soldati si bloccano, attendendo gli ordini e non mostrando attitudini granché bellicose. Ben presto rischiano di essere travolti dalle comari che li sommergono di dileggi e di proiettili d’ogni genere. Li si spettina ridendo, gli si danno gentilmente dei pizzicotti sul deretano.
Indignato, il giudice Addington dà allora l’ordine alla truppa di caricare. Il tentativo di carica che segue genera il completo disorientamento: priva di slancio, la cavalleria si mette in moto fiaccamente, contribuendo al pigia pigia; la folla, ebbra e compatta, viene giù dappertutto come un castello di carte, cosa che scatena non il panico ma l’ilarità generale; i corpi si accasciano dolcemente gli uni sugli altri - l’emozione popolare rischia di trasformarsi in pubblica ammucchiata. Se gli uomini d’ordine ne rabbrividiscono, gli uomini della truppa sono sempre più tentati di fraternizzare con i gaudenti, i quali hanno gin e donne e sembrano padroni di tutto eccetto che della loro esaltazione.
La buffa incongruità della situazione, il passaggio senza mezzi termini dalla tragedia alla commedia, l’effetto contagioso del buon umore, le carezze scambiate abbondantemente nella mischia: tutto concorre a estendere e a prolungare gli scoppi di risa. Ma se l’euforia è disarmante, si sa, lo è per tutti... e il giudice Addington approfitta abilmente di questo cambiamento di umore per rigirare la situazione in favore dell’ordine. Scoppia a ridere con la folla, che una buona pinta di risate ha addolcito e che lo autorizza a parlamentare. A condizione che questi signori e signore gli diano la loro parola d’onore di disperdersi, lui promette di far ritirare i suoi pretoriani. E senza attendere di aver ricevuto, in una maniera quale che sia, un così strano impegno da parte di una così variegata moltitudine, ordina la ritirata delle guardie, evitando così che vengano fatte a pezzi. Peggio, il grosso della folla si disperde per davvero, non lasciando che qualche assembramento sparso sullo spiazzo del Parlamento e nelle immediate vicinanze. I deputati ora potranno tornarsene tranquillamente ad onorare le loro obbligazioni vesperali.
* * *
In tutte le relazioni degli avvenimenti di questa giornata, dimora un buco che va, pressappoco, dalle nove della sera a mezzanotte, ora alla quale si registrano nuovi disordini. Possiamo scommettere che gli scontenti, restati padroni della strada, sono andati a fortificare la loro determinazione attorno uno o due boccali fino alla chiusura delle taverne. In un ambiente su di giri, sfrigolante di grandezze e miserie della giornata, non hanno potuto trarne che un bilancio in pari: successo della dimostrazione di forza, sconfitta e tradimento al Parlamento.
è allora che si poté elaborare, per le ore e i giorni a venire, quei piani d’azione improvvisati ed eterogenei che forgiano le insurrezioni senza capi. Lord Gordon è andato a fare le ninne; gli attivisti legalisti dell’Associazione protestante, sconcertati dalla loro cocente sconfitta alla Camera, si preoccupano della poca influenza sull’umore dei pezzenti. Attorno ai perditempo da taverna si formano dei capannelli che intendono passare oltre tutte le consegne della calma.
Brandendo i vessilli antipapisti che hanno colorato la processione, bande di esagerati, sempre più numerose, dilagano dai quartieri popolari al lume delle torce che portano i meno buoni al combattimento. Gli altri sono armati di asce e spranghe, di martelli e di mazze, di bocciarde e di accette. Una folla imponente di bighelloni un po’ rincutiti li segue dappertutto.
Il primo scontro tra l’idea e la materia avrà luogo all’ambasciata di Sardegna. La sua cappella cattolica è una modesta costruzione che nondimeno risulta agli occhi dei nemici del dispotismo un’ombra fastidiosa al pensiero. Un colpo di mazza ad una vetrata dà il via alla distruzione.
In pochi minuti il tempio dell’Anticristo è devastato. Costosi soprammobili dell’idolatria vengono in un attimo risucchiati negli oscuri meandri di un’economia parallela. Un fuoco di gioia viene acceso sulla strada, alimentato dai mobili della cappella. Gli insorti, fastidiati dalla circostanza che un centinaio di guardie a piedi siano state inviate sul posto, finiscono per incendiare la cappella stessa, gettando nel fuoco una pala d’altare «di gran valore». Senza essere incendiata, la cappella dell’ambasciata di Baviera subisce una sorte simile, ma il bottino si rivela più consistente: l’ambasciatore è un vecchio sporcaccione che approfitta delle facilitazioni diplomatiche per darsi ad un grosso contrabbando e il posto nasconde una vera caverna da Alì Babà - cosa che incita gli insorti a saccheggiare, intanto per gradire, la sua residenza.
Altri numerosi fuochi di gioia vengono accesi nelle strade, ma si fa tardi e la sommossa si attenua. Tredici presunti incendiari della cappella sarda sono arrestati. Tra loro, neanche un «capopopolo»: la maggior parte di essi, e i giudici non mancheranno di lamentarsene con i loro sbirri, sono dei semplici bighelloni accorsi al così raro spettacolo di una chiesa in fiamme. Certi si dichiarano addirittura di religione cattolica! Tutti sono operai o piccoli artigiani, ad eccezione di un ufficiale dell’esercito russo andato in giro per divertirsi - poi finito sotto il tavolo completamente ubriaco.
Gli ultimi rivoltosi si riuniscono e si convincono ad andare a tirare le orecchie ad un certo vescovo anglicano, ritenuto favorevole al papismo: voce di popolo l’accusa di dire segretamente la messa cannibale nelle cappelle delle ambasciate. L’ecclesiastico sospetto ha nel frattempo preso la precauzione di dormire fuori, quella sera, e i rivoltosi che percorrono avanti e indietro la sua via non trovano nessuno sul quale sfogare la loro rabbia. I più accaniti finiscono per disperdersi verso le due del mattino. Ma i roghi immensi che hanno acceso per la città continuano a consumarsi tutta la notte, come un avvertimento alle tenebre.