“PRISONER’S TALKIN’ BLUES”
Non è possibile separare il destino riservato ai detenuti nelle mura dalle condizioni più in generale riservate di questi tempi alla massa dei poveri nella società. È questo ciò che ha dimostrato l’ondata di sommosse del maggio ’85, portata avanti soprattutto da imputati in attesa di giudizio e sviluppatasi unicamente nei carceri giudiziari – i penali non si sono mossi, ma tra i detenuti in attesa di giudizio ce ne sono sicuramente parecchi che saranno condannati a “lunghe pene” e andranno a finire laggiù. La maggior parte degli insorti faceva parte di questa categoria di imputati, i quali saranno alla fine condannati perlomeno a quanto hanno già scontato prima della sentenza: si tratta dei “piccoli delinquenti” che abbiamo maggiore occasione di incontrare all’esterno. La rivolta che rimbomba dentro le mura è la prosecuzione di una rivolta che rimbomba fuori, nei quartieri di periferia, e una conseguenza della sua repressione.
Nella Francia del 1985, non sono rimasti che i galeotti ad avere ancora un cuore e uno spirito ribelli.
Coloro che all’esterno sfuggono ancora al generale annientamento, si riconoscono per forza di cose nella ribellione dei detenuti: per i suoi contenuti, non possono che attribuirle un significato universale. Una cosa è certa, ovvero che la rivolta contro le carceri divampa ormai anche all’esterno.
Questa ondata di rivolta era diretta allo stesso modo contro la prigione e contro la giustizia. Fino a quel momento, i detenuti attaccavano l’istituzione penitenziaria, ora attaccano anche l’istituzione giudiziaria. Prima si rivoltavano contro l’esecuzione della pena, adesso si rivoltano pure contro il giudizio della società. Fino ad allora protestavano contro il modo in cui erano trattati dentro le mura, oggi protestano anche contro il modo in cui sono trattati da una società il cui interesse generale è rappresentato dalla giustizia. L’insubordinazione dei prigionieri viene considerata dai sostenitori dello Stato tanto più pericolosa quanto più minaccia di far saltare tutto il sistema del diritto, che costituisce la chiave di volta dell’apparato statale e la valvola di sicurezza della società borghese. Ecco perché era logico che la loro rivolta trovasse un’eco fuori.
Il nostro scopo non è esattamente quello di sostenere fuori le rivendicazioni formulate dentro e che mirerebbero al miglioramento di qualche dettaglio del regime carcerario. Non è che storciamo il naso di fronte a tali rivendicazioni, perché sappiamo come vanno le cose in carcere. Cerchiamo soprattutto di combattere l’idea stessa della prigionia. Vogliamo arrivare alla distruzione di queste istituzioni maledette. Possiamo perciò incoraggiare e raccogliere ogni forma di rivendicazione che contenga quest’unica richiesta vitale: «aria!».
Facendo parte di quelle persone che rischiano la prigione, ne rifiutiamo totalmente la fatalità.
Per noi, poveri che aspirano alla ricchezza pratica, è difficile trovare le parole per esprimere in modo chiaro la nostra ribellione e le nostre aspirazioni – le parole cioè per comprendersi l’un l’altro. La strategia del nemico è duplice; fare in modo che i poveri si distolgano dalle questioni di prima necessità e vadano a battersi contro i mulini a vento, e in tal modo impedire loro di incontrarsi e di scoprire tensioni comuni.
La maggior parte delle spiegazioni che è consentito ascoltare sulla rivolta dei prigionieri sono false semplicemente perché parlano il linguaggio dello Stato, il diritto. La funzione di questo chiacchiericcio è che i poveri, in questo caso prigionieri, non riescano più nemmeno a trovare le parole necessarie per esprimere la propria insoddisfazione e la propria ribellione: che non riescano a dialogare, sapendo solo esprimersi nella lingua dei loro padroni. Lo scopo dei sostenitori dello Stato e dei difensori della società attuale è che i poveri non sappiano più parlare, se non per rivolgersi ai loro padroni. Chiunque parli il linguaggio del diritto parla allo Stato e soltanto allo Stato, unicamente in base alla sua ragione. Questa menzogna, che non risale a ieri, ha lo scopo di civilizzare una volta di più l’insubordinazione dei poveri.
Il fatto è che non si può governare un paese capitalista moderno con la pura forza, mettendo blindati ad ogni angolo della strada. Lo stesso avviene per il mantenimento dell’ordine nel le prigioni. Uno Stato moderno è costretto a garantire tutte le libertà formali necessarie al buon andamento degli affari. Due importanti paesi capitalisti, l’Argentina e il Brasile, l’hanno riconosciuto lo scorso anno (anche la borghesia del Sud Africa è sul punto di accorgersene). Un paese capitalista non può prosperare facendo fuoco sui poveri non appena si agitano: deve, per farli partecipare col loro lavoro alla ricchezza della società, far loro parlare unicamente il suo linguaggio e riempire le loro teste con concetti universali e astratti propri della società borghese. Bisogna che essi si identifichino con l’interesse generale della società, ed è proprio questa l’impresa storica della borghesia: essere riuscita a fare ciò.
Per ogni Stato moderno l’imperativo è civilizzare quei selvaggi di poveri, compresi quelli che ha isolato dalla società nelle sue carceri. La battaglia delle idee infuria quindi su questo fronte. I sostenitori dello Stato sanno che avranno ragione della rivolta dei detenuti non tanto grazie alla mera forza, cui sono costretti a ricorrere in un primo tempo coi rischi che comporta, bensì con lo pseudo-dialogo, con la menzogna. Per questo noi dobbiamo far diventare questioni sociali le pretese questioni di diritto, facendo fallire l’operazione attualmente tentata dai più moderni sostenitori dello Stato.
Come diceva recentemente un ex-detenuto a proposito degli amministratori penitenziari, «cercano sempre di farti partecipare alla tua punizione: questo è il dialogo, non ce ne sono altri possibili». Esiste perfino una figura specializzata in materia, l’operatore sociale. Ciò che viene chiamato «lavoro sociale» trova la propria origine nelle pratiche della Chiesa. È nato storicamente dallo scambio delle elemosine con le penitenze. I lavoratori sociali sono preti laici che predicano per lo Stato. Tutto il pensiero che attualmente domina il sistema giudiziario e penitenziario va in questo senso. Sognano addirittura di ridare lustro alla condizione di secondino, conferendogli la qualifica di educatore. Una volta la penitenza inflitta al prigioniero era senza tante perifrasi, assai dura fisicamente (basta leggere gli spaventosi racconti fatti dai sopravvissuti al bagno penale); adesso si pretende che sia innanzitutto morale e anche, per così dire, spirituale, pur conservando le basi del sistema carcerario e la violenza che comporta (si muore molto nelle prigioni francesi). Il sistema repressivo si fa carico di un contenuto morale, si fornisce perfino giustificazioni. Il suo scopo è inoltre quello di riempire le teste e di impedire che la rivolta, ormai cronica nelle prigioni, riesca a trovare le proprie parole.
Gli attuali responsabili della repressione cercano di provocare e di alimentare un infinito pseudo-dialogo sui molteplici miglioramenti che potrebbero essere introdotti nel regime di detenzione, il tutto per giustificarlo. È un modo indiretto di convincere i detenuti della fondatezza della punizione. Lo Stato è convinto di avere più possibilità di riuscirci combinando lo pseudo-dialogo con la repressione, la cui sola violenza fisica non basta più.
Rifiutando il concetto stesso di pena, i delinquenti imprigionati cominciano ad accettare apertamente ciò che sono nella società. I detenuti sono consapevoli che un codice penale appartiene al suo tempo e allo stato corrispondente alla società in vigore; lo stesso accade per la procedura penale.
La coscienza riformista si esprime sempre sotto forma di giustificazione. Viceversa, il comportamento dei rivoltosi appariva ingiustificabile (come le distruzioni compiute a Fleury il 5 maggio), proprio come l’unica sua ragione dichiarata («aria»), che non è negoziabile con lo Stato. Quando i detenuti arrivano a contestare il giudizio di cui sono stati oggetto, il carcere cessa d’essere subìto come una fatalità (*). Gli educatori di sinistra che cercano di giustificare i delinquenti, di trovare qualche scusa per i loro delitti, ci fanno solo sghignazzare. Si è già costretti a giustificarsi in qualità di accusati davanti al giudice (del resto, capita che a volersi spiegare troppo si finisca col perdersi, cosa che accade anche quando si viene fermati dalla polizia). E magari bisogna pure giustificarsi in quanto detenuti! I rivoltosi sanno che non hanno motivi confessabili dal punto di vista di chi li giudica. Di fronte allo Stato, il silenzio è veramente l’arma dei poveri.
In carcere c’è ogni genere di individuo. Ma i detenuti sono soprattutto delinquenti che la società ha deciso di isolare. Il termine delinquenza non deve prestarsi a confusioni. Il suo utilizzo cronico è frutto di un’epoca, per definire un insieme di comportamenti che hanno in comune l’effimero sgretolamento dei freni sociali e il disprezzo della legge, oltre che della proprietà altrui. Con questo termine, la società civile identifica il giovane che il sabato sera va a ballare per azzuffarsi, la casalinga che ruba al supermercato, il ragazzo che si improvvisa rapinatore, l’operaio che sottrae materiale alla sua fabbrica, o più direttamente chi non vede altro mezzo per sopravvivere che rubare: ovvero tutti quei poveri che a diversi livelli essa non può più integrare completamente. È un’epoca in cui il lavoro e la legge non sono più sacri agli occhi di molti poveri.
«Delinquere, 1429, dal latino delinquere, sottrarsi (al proprio dovere), de linquere, tralasciare. Delinquente, XIV dal part. pres. delinquens. Delinquenza, XX». (Larousse Étymologique).
Se l’individuo ha dei diritti è perché ha dei doveri. Se è venuto meno a questi, non può reclamare seriamente l’esercizio dei propri diritti nella società e di fronte allo Stato. Salvo che in vista di un ravvedimento da parte sua, di pagare il proprio debito (in particolar modo lavorando per pochi soldi durante l’espiazione della propria pena) e di dare prova della propria volontà di reinserimento (per avere la condizionale o la semilibertà, l’individuo è giudicato una seconda volta, questa volta in base alla sua effettiva volontà di reinserimento). Se decide di lavorare per reinserirsi, può sperare di essere dispensato da una parte della disgrazia che colpisce il detenuto, conservando qualche diritto effettivo. Lo Stato ha capito molto in fretta, fin dai primi tumulti del ’71 e del ’74, che non bisognava isolare del tutto dalla società civile l’individuo imprigionato. All’occorrenza, costringe il condannato a guadagnare il diritto di rientrarvi nuovamente. Questa non è la cosa meno ignobile!
Ad ogni modo, la società civile ha già le sue entrate nelle carceri: i detenuti spesso lavorano. Ma vi entra in base alle particolari modalità riservate a individui socialmente indegni.
Siccome i detenuti sono al di fuori dei meccanismi di integrazione alla società, il tasso di sfruttamento del loro lavoro può permettersi di essere particolarmente elevato, e il loro salario particolarmente ridotto.
Ogni genere di persona pretende di interessarsi all’insubordinazione dei detenuti. Molti, i riformisti, reclamano che la società riconosca ai prigionieri l’esercizio dei diritti. Ma cosa sono questi diritti? I diritti della difesa? Ma non si applicano che all’oggetto da giudicare, non all’esecuzione della sentenza: la prigione è un universo chiuso in cui non può esserci posto per il «dibattito contraddittorio». I diritti dell’uomo e del cittadino?
I diritti dell’uomo sono le prerogative e le garanzie riconosciute all’individuo atomizzato della società borghese, in cui c’è posto soltanto per due generi di individui: quelli che guadagnano denaro e quelli che lavorano. Come potremmo, noi che non arricchiamo la società bensì le costiamo denaro, pensare di beneficiare di queste prerogative e garanzie? In virtù di quale attività sociale di cui potremmo onorarci?
I diritti del cittadino? Il cittadino è l’individuo politico, cioè un individuo astratto. Il detenuto non è un cittadino.
Da un lato c’è il membro effettivo della società civile, borghese, l’individuo isolato e limitato che questa considera l’essenza stessa dell’uomo, e dall’altro c’è la persona morale, il cittadino. È importante distinguere, metodologicamente, tra la persona morale (l’imputato, il condannato) e l’individuo reale, che è detenuto. Qui, il membro della società è l’individuo che è venuto meno ai propri doveri verso le regole che essa si è democraticamente fissata; la persona morale è l’imputato, cui si fa l’onore di riconoscere un diritto alla difesa. L’accusato è un cittadino.
In quanto giudicato e condannato, non gli resta che subire la sua sorte, in prigione. Non può allora avvalersi di alcun diritto, poiché non contribuisce alla ricchezza della società con un lavoro (se non con quello che gli tocca compiere, costretto dalla miseria e dal regolamento). Lo Stato è logico quando rifiuta di ammettere l’eventualità di sindacati dei prigionieri. Non offre che una strada al detenuto: percorrere la sua via crucis, sopportare, accettare la sua pena, la sofferenza e l’umiliazione, in silenzio – ed emendarsi completamente col lavoro carcerario. Laiche in teoria, religiose in pratica, la giustizia e l’istituzione penitenziaria sono fatte ad immagine e somiglianza della classe borghese. Il reinserimento è dato da quella via crucis da percorrere silenziosamente, nel corso della quale il detenuto non deve aver niente da dire, né alzare la voce, né lamentarsi, ancor meno protestare. Questo ideale cristiano è ancora interiorizzato da molte persone in carcere.
La cosa peggiore che si deve subire in galera è proprio questo sentimento di completa dipendenza dalle regole, dirette evidentemente a domare l’individuo. La prigione ha una sembianza di «ri-educazione», al tempo stesso scuola e caserma (molto evidente ad esempio in Inghilterra, e ancor più nei campi tristemente famosi di alcuni paesi stalinisti). L’arbitrio dei secondini non è che una espressione dell’autorità del regolamento. In tal senso lo Stato tenta di recuperare totalmente alcuni individui su cui, a un certo punto, il controllo della società civile non è servito a sufficienza: perciò ha bisogno di imporre loro delle regole con la forza. In questo la prigione evoca la caserma, dove si finisce di piegare l’individuo alle regole primarie della società, obbedienza e disciplina. La condizione di soldato e quella di detenuto hanno questo in comune: si tratta di individui il cui destino dipende interamente dallo Stato. Al punto di dover subire senza lamentarsi i soprusi della gerarchia. Malgrado tutti i vantaggi e le concessioni che l’Amministrazione Penitenziaria potrebbe concedere – ed è risaputo che è piuttosto avara in materia – ci sarà sempre questa ribellione spontanea del detenuto di fronte al regolamento.
Quanto all’imputato in attesa di giudizio, non è ancora stato oggetto del giudizio morale: viene tenuto a piena e completa disposizione dello Stato, in un luogo sicuro. Non si ripeterà mai abbastanza fino a che punto la condizione di imputato in attesa di giudizio sia simile a quella di ostaggio. D’altronde si può rimarcare che l’Inghilterra, che faceva sbavare i riformisti francesi con il suo «habeas corpus», ha introdotto la detenzione provvisoria nella sua procedura penale nel 1980, vale a dire quando la guerra sociale aveva fatto qualche passo in avanti.
Si può notare di sfuggita che la prigione, checché pretendano gli umanitari di sinistra, resterà sempre un luogo di assoluta indegnità, come provano le recenti disposizioni ministeriali che mirano ad evitarla al piccolo delinquente, a colui che non si è completamente escluso dalla società, avendo per ora commesso reati di scarsa rilevanza ed essendo capace di reintegrarsi nel sistema sociale grazie al proprio lavoro. Spetta comunque a lui darne prova, realizzando X ore di un lavoro «di interesse generale».
Lo Stato potrà sempre accordare qualche miglioramento di dettaglio nella vita quotidiana del detenuto, ma non potrà mai accordargli la minima dignità. La disciplina carceraria avrà sempre l’ultima parola. La richiesta di accordare al detenuto gli stessi diritti dell’imputato (come quello di farsi assistere dal proprio avvocato davanti al tribunale interno del carcere) non ha alcuna possibilità di essere accolta, in quanto il detenuto non è una persona morale come lo è l’imputato. Il detenuto è un individuo reale, indegno della società.
I riformisti pretendono che venga accordata al detenuto la dignità sociale, in altri termini i diritti dell’uomo. Ma in cosa consiste questa dignità? È quella che la democrazia borghese riconosce al lavoratore. Certo, i detenuti sono talvolta lavoratori, e pagati malissimo. È l’Amministrazione Penitenziaria a incaricarsi di vendere la loro forza lavoro a diversi imprenditori e a guadagnarci denaro: dopo tutto il detenuto è a suo carico, e costa caro. Se si concedesse al detenuto un salario normale, allora la maggior parte di questo gli sarebbe trattenuta per le sue spese di mantenimento, prelevate dall’Amministrazione Penitenziaria per le spese giudiziarie, per le multe e per l’indennizzo che dovrebbe inoltre dare alle vittime dei suoi delitti!
In quale misura i poveri hanno qualche diritto, civile e politico, nella società civile? Nella misura dell’obbligo. La società civile definisce il complesso del «sistema dei bisogni e dei lavori». I poveri vi partecipano solo perché fanno guadagnare soldi ad altri, a cui sono costretti a concedere, per forza di cose, lo sfruttamento del proprio lavoro. Il vero bisogno che il sistema sociale produce e riproduce per tutti è il bisogno di denaro. I poveri lo vivono esclusivamente sotto forma di mancanza, in seguito di necessità. Solo i borghesi hanno un rapporto positivo con questa essenza della società. Quello dei poveri è il lavoro. Certo, la democrazia borghese proclama che ciascuno è libero di guadagnare, riconoscendo a chiunque il diritto di fare affari. Ogni individuo può quindi farsi strada nel mondo, ma esiste un solo mondo, quello degli affari. E la moderna società borghese, quella che vediamo in Europa, negli USA, o in Giappone permette a molti poveri di illudersi di guadagnare. La costrizione che viene esercitata sul lavoratore salariato e la necessità che definisce tutti i suoi bisogni entro lo stesso limite vengono così trasfigurate nel linguaggio della società. Il regno più selvaggio della necessità viene trasformato magicamente nel suo contrario, ed è così che esistono lavoratori motivati, consumatori soddisfatti o rimborsati, elettori responsabili e anche galeotti che pagano il loro debito alla società...
La necessità del denaro regna attraverso una moltitudine di rapporti giuridici che si perpetuano evidentemente attraverso la costrizione. E ogni forma di insoddisfazione, esprimendosi, costituisce una violazione di questi rapporti, alla quale la società risponde attraverso la costrizione più estrema, la prigione. Chi non lavora mai è un maledetto.
All’isolamento che già definisce l’individuo atomizzato della società civile si aggiunge allora l’isolamento carcerario. Il delinquente imprigionato è fatto oggetto così di una autentica maledizione sociale, che si esprime fin nella relativa indifferenza testimoniata nei confronti delle rivolte. Se almeno tutti quelli che hanno già avuto a che fare con la galera e quelli che vi hanno dei parenti giungessero a sostenere le rivolte attaccando gli sbirri alle spalle (come qualcuno ha tentato di fare a Rouen e a Montpellier nel maggio del 1985)... Tutte queste persone non hanno coscienza di costituire un pericolo sociale, e a volte basterebbe che lo comprendessero per diventarlo veramente. Lo Stato tratta i delinquenti in massa come un pericolo sociale, ma li demolisce ad uno ad uno. Il diritto conosce solo l’individuo singolo, che cristallizza come un’astrazione di fronte alla società. Tuttavia è proprio in ragione di ciò che egli è concretamente nella società, che un povero viene giudicato.
Ma se il delinquente viene giudicato in quanto individuo isolato, i prigionieri si rivoltano in quanto soggetto collettivo. Una volta dentro le mura, in realtà poco importa il motivo per cui si è finiti laggiù: si è là tutti insieme, nella stessa merda e trattati allo stesso modo. È contro un comune destino che i detenuti si ribellano.
Quali che siano i particolari motivi delle rivolte, non si esauriranno in qualche riforma o miglioramento di dettaglio, perché in carcere bisogna sempre reclamare per la minima cosa che all’esterno si risolve da sé. E in un universo così desolante, la minima cosa riveste un’importanza enorme e può fornire l’occasione di una rivolta: le occasioni non mancheranno mai. Capita che l’Amministrazione Penitenziaria riesca a imporre la calma per un momento, in seguito ad una repressione integrata con qualche miglioria; ma non è destinata a durare a lungo.
Soltanto dall’interno delle carceri poteva provenire questa critica sociale del diritto, poiché, sebbene la giustizia condanni gli individui ad uno ad uno, essendo un suo affare privato la sorte di ciascuno, poi li rinchiude tutti insieme. Ed è là che si creano le condizioni di una rivolta diretta in particolare contro l’autorità dell’Amministrazione Penitenziaria e contro le condizioni di reclusione, e più in generale contro un sistema sociale che si fonda sulla prigione. È da là, e in relazione a questa ribellione collettiva, che fuori può emergere un movimento che non solo si riconosca in questa protesta umana, ma ne estenda gli sviluppi: qualcosa che non sia in opposizione unilaterale con le conseguenze, ma in aperto conflitto con le pre-supposizioni dello Stato stesso.
I lavoratori in lotta possono battersi per esigere aumenti salariali. I detenuti in rivolta possono allo stesso modo, attraverso la loro azione, riuscire ad ottenere riduzioni di pena. I prigionieri non lottano per una riforma generale della condizione carceraria, così come i lavoratori in sciopero non si preoccupano di una riforma del lavoro: lasciano questo genere di preoccupazioni ai burocrati sindacali. La sola cosa che i detenuti in rivolta possono ragionevolmente esigere nei limiti del sistema esistente, è un po’ d’aria. In ogni modo, le riforme vengono fatte e sempre per sedare il fuoco che cova. Ciò che è stato ottenuto per migliorare il regime detentivo, lo è sempre stato a conclusione di una prova di forza con lo Stato. I detenuti sanno anche per esperienza che questi vantaggi strappati sotto la minaccia del peggio si trasformano molto in fretta, tornata la calma, in una ulteriore infamia.
L’insubordinazione dei prigionieri riveste sempre un carattere di minaccia universale, giacché si tratta di individui che sono stati rinchiusi in nome dell’interesse generale della società. È questo che ogni volta la trasforma in un importante avvenimento politico: ogni ondata di ribellioni determina qualche progetto di riforma delle leggi e dei codici.
La sinistra, che aveva promesso di modificare il complesso del regime carcerario, non si è nemmeno arrischiata a tentarlo. Giunta al potere, ha capito subito che in quel caso avrebbe giocato col fuoco. Non c’è miglioramento possibile al regime di detenzione, se non quello di concedere aria ai reclusi. La sinistra sa bene che la minima apertura rischierebbe di provocare disordini senza fine. Con la prigione qualsiasi tipo di governo è sicuro di avere solo scocciature. Da qualsiasi parte la si prenda, si finisce con lo sporcarsi le mani.
La nozione di interesse generale è al centro di tutto il sistema di diritto contro cui si battono i rivoltosi. Lo Stato e i suoi sostenitori si richiamano continuamente ad essa, in contrasto con lo stato di guerra latente che imperversa nella società reale. Riescono a spingere le persone ad identificarsi con questo preteso interesse generale nella misura in cui, nella Francia del 1985, ogni linea di demarcazione tra i poveri e la società civile sembra cancellata; e dove la delinquenza fa spesso le sue vittime fra gli stessi poveri. Da un lato, i luoghi in cui circolano in abbondanza il denaro e le merci si trasformano sempre più in fortezze imprendibili, dall’altro le condizioni cui deve assoggettarsi chi lavora si fanno sempre più intollerabili. Ne derivano condizioni nettamente più aspre per quei poveri che non lavorano, accentuando l’isolamento di ciascuno nella sua ricerca di denaro (e la diffusione dell’eroina tra i giovani aggrava ancor più questo processo). Lo Stato e la borghesia erigono un sistema di difesa militare della proprietà privata, della circolazione del denaro e delle merci, scatenando nel contempo la guerra di tutti contro tutti, il conflitto più feroce dell’interesse solitario. L’autorità dello Stato ritrova così il proprio fondamento nella confusa ostilità che regna sulla società nel suo insieme.
La rivolta dei prigionieri appare allora come una possibilità di superare questo stato di fatto. La protesta contro la giustizia e il carcere cristallizza l’interesse. generale di tutti i poveri
assoggettati dalla necessità e che devono sopportare, sotto diverse forme, la repressione esercitata nel nome dell’interesse generale della società.
La solidarietà con le rivolte non fa appello al sentimento, non più di quanto si rivolga a una pretesa opinione pubblica. Abbiamo voluto semplicemente parlare ai reclusi. E il fatto che la loro ribellione sia stata abbastanza forte da trovare fuori una tale risposta non è il minore dei suoi meriti.
Yves Delhoysie
(*) Così è sempre più frequente assistere in tribunale a comportamenti di aperta ribellione da parte di imputati che rifiutano la pretesa dei magistrati e dei giurati di giudicarli. Ricordiamo che nel 1984 due accusati per rapina, in due vicende distinte, all’inizio della stessa udienza in Assise a Parigi avevano successivamente rifiutato d’essere giudicati dal ripugnante presidente Giresse – lo stesso che aveva assolto, nella precedente udienza, il non meno ripugnante poliziotto Evra, assassino di due giovani automobilisti. Il rifiuto degli imputati aveva causato una specie di crisi di procedura alla Corte d’Assise della Senna. Più recentemente, a Nizza, i fratelli Ghellam hanno creato un bello scompiglio: «Due fratelli accusati di aver compiuto una rapina con sequestro, che dovevano comparire lunedì e martedì davanti alla Corte di Assise delle Alpi Marittime, hanno ricusato i propri avvocati fin dall’apertura dell’udienza, costringendo la corte a rinviare il processo a nuova data. Michel Ghellam, 26 anni, e suo fratello Roland, 37 anni, sospettati di aver compiuto una rapina a mano armata il 9 ottobre 1980 alle poste centrali di Antibes hanno violentemente criticato alla rinfusa la giustizia “dei ricchi’; i loro stessi avvocati “che hanno bisogno di questa putrida giustizia per vivere ma non la denunciano “, i giornalisti “sempre agli ordini”, e i poliziotti incaricati di sorvegliarli “che aspettano solo un gesto da parte loro per abbatterli come conigli”». (Libération del 24.9.85). «Al termine di una lunga sospensione dell’udienza, la corte ha deciso di designare due avvocati d’ufficio e di rinviare il dibattimento al 7 ottobre». Dopo di che, tre settimane più tardi, hanno rifiutato di assistere al processo. Evidentemente non ci si può permettere un simile atteggiamento, a meno che non si venga giudicati per un reato molto grave, o molto piccolo: se non si ha da perdere più nulla, oppure molto poco.
In un’altra occasione, nella primavera del 1985, un gruppo di punk lionesi è riuscito a ridicolizzare la giustizia: mentre uno di loro veniva giudicato per furto di coperte in un wagon-lit, i suoi amici hanno distribuito in aula un volantino intitolato «Nessuna pietà per i ladri di coperte, tagliamogli le mani!»... E al presidente che gli aveva proposto un TIG [vedi nota 4 del prossimo capitolo], l’accusato ha opposto il più netto rifiuto (alla fine è stato condannato a 15 giorni col beneficio della condizionale): è la prima volta per quanto ci è dato sapere che qualcuno ha avuto la dignità di rifiutare un TIG. Forse questo gruppo di punk è lo stesso che ha avuto la felice idea di mettere in musica il manifesto «Du fric ou on vous tue» [«Della grana o vi ammazziamo»] (vedi Os Cangaceiros n. 1), a Lione.
Ricordiamo anche il movimento delle richieste di massa di libertà provvisoria, che era nato a Lione lo scorso anno e che aveva fatto sprofondare i magistrati nell’imbarazzo e nel panico, il quale è risorto nel settembre 1985 nella prigione delle Baumettes a Marsiglia.