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PREMESSA.


Se l'organizzazione e la stesura di questo libro sono mie, la sua elaborazione è frutto del lavoro collettivo di un gruppo di militanti di Lotta Continua che, a partire dalla primavera del 1971, si sono posti il problema del carcere come oggetto d'intervento politico, e naturalmente di molti detenuti coi quali siamo entrati in contatto. Questo fatto contribuisce a spiegare la struttura e il carattere del lavoro.
Lo scopo non era tanto quello di fornire una descrizione analitica di ogni aspetto dell'istituzione carceraria in Italia e della "vita" che vi si conduce: uno scopo già raggiunto in altre opere, come ad esempio "Il carcere in Italia" di Aldo Ricci e Giulio Salierno. Tuttavia il lettore potrà trovare anche qui una documentazione interessante, e spesso drammatica, di "vita" carceraria, ma si tratterà di un risultato secondario e non dello scopo principale del libro, che vuol essere un rendiconto e un bilancio di un preciso intervento politico.
Quando cominciammo a occuparci delle carceri, lo facemmo soprattutto per due ragioni. In primo luogo, perché il problema delle carceri, pur essendo da tempo esplosivo, è uno dei più trascurati a tutti i livelli. Secondariamente, perché tale argomento forniva l'occasione di sviluppare un'analisi della funzione di alcuni strati sociali, in particolare quelli abitualmente indicati come "sottoproletariato", nel processo rivoluzionario. Sapevamo, e avemmo poi modo di constatarlo in maniera più diretta, che all'interno delle carceri si stava svolgendo un processo di presa di coscienza, di maturazione politica, che portava molti carcerati a rendersi conto delle ragioni profonde della propria condizione e a cercare una via d'uscita che non fosse un "arrangiarsi" individualistico o una protesta disperata. Comprendemmo poco per volta che è assurdo parlare di scuola nelle carceri e di rieducazione del detenuto (1) senza parlare di scuola quadri rivoluzionari, di rieducazione alla lotta di classe e al socialismo. È questo il cammino che vorremmo far ripercorrere ai lettori del libro. Un libro del quale, come ho già detto, posso considerarmi l'autrice solo per quanto riguarda la struttura e l'organizzazione della materia. Per tutto il resto, ne condivido la paternità non solo e non tanto con gli altri militanti "esterni" coi quali ho lavorato, ma anche e soprattutto con le molte "avanguardie interne" che vi hanno contribuito. Le testimonianze dei carcerati occupano non a caso, anche quantitativamente, la maggior parte del volume, e le stesse conclusioni politiche scaturiscono direttamente da loro.
Qualche considerazione sulla struttura del libro. Si divide in tre parti, intitolate rispettivamente "Andare in prigione", "Vivere in prigione", "Uscire di prigione". La prima affronta questo problema: "chi" va in carcere, "come" e "perché" ci va. Si cerca qui di mostrare come la cosiddetta delinquenza non sia altro che una forma di reazione e di sopravvivenza di larga parte del proletariato, e come purtroppo questo faccia il gioco della borghesia che ne trae la giustificazione dell'esistenza del suo apparato repressivo, il cui vero scopo è quello di reprimere la lotta del proletariato più immediatamente politica. Infatti la proprietà privata non è minata dal furto (al contrario, nasce dal furto), ma dalla lotta di classe. La seconda parte, "Vivere in prigione", intende fornire alcune testimonianze sul livello di degradazione della personalità cui mira in ogni suo aspetto l'istituzione carceraria. Il titolo della terza parte, "Uscire di prigione", allude evidentemente alla liberazione dei carcerati. Ma è una liberazione che non consiste in un impossibile reinserimento nella "vita normale", bensì nella conquista di una coscienza politica rivoluzionaria.
Trattandosi di un lavoro politico, e non di un saggio o di un'inchiesta, questo libro porta il segno del particolare momento storico in cui è stato ideato e realizzato. Non mi soffermerò su questo perché si tratta di cose note al lettore. Ma è certo che senza la ripresa delle lotte operaie e studentesche, senza l'autunno caldo e la strage di stato, senza la crisi economica e il sempre più massiccio emergere di avanguardie rivoluzionarie organizzate, anche il problema del carcere come scuola di rivoluzione si sarebbe posto in maniera assai diversa. O, forse, non si sarebbe neppure posto.


CARISSIMA IRENE (2).

- Lettera di Sante Notarnicola.

Volterra, 9 marzo 1971

Cara Irene,
la tua lettera è giunta con un certo ritardo, colpa del bollo che non hai "leccato" bene, infatti è giunta "tassata", e per poterla ritirare dalla posta, qui, esiste tutto un rito burocratico da rispettare. Sono lieto di fare la tua conoscenza, spero di esserti utile anche se purtroppo i miei limiti culturali non sono i più adatti per esprimere a una laureata i problemi di cui ti interessi.
Innanzitutto devo premettere che la posta, tanto in partenza che in arrivo, viene sottoposta ad una rigida censura che spesso crea notevoli disagi.
Dalla tua lettera vedo che rivolgi particolare interesse al problema delle scuole in carcere. Entrare direttamente in argomento senza prima parlare delle condizioni ambientali è difficile, e spiegarlo occorrerebbero montagne di libri che in definitiva non darebbero mai una immagine esatta di quello che è effettivamente il carcere. Il carcere si può definire lo specchio della società che lo contiene e i carcerati la sua immagine. Il carcere è anche la negazione più assoluta delle esigenze e delle necessità fisiologiche e caratteriali dell'individuo, che col tempo finiscono anche col comprometterne il suo equilibrio psichico. Come vedi parlare di scuola in un ambiente in cui manca quell'equilibrio di valori che sono indispensabili alla formazione e alla realizzazione dell'uomo stesso, è semplicemente ridicolo; ma malgrado ciò il ministero stanzia un mare di soldi per la scuola nei carceri ed effettivamente le scuole ci sono e quel che è peggio sono anche abbastanza frequentate. Vediamo che tipo di scuola. Come sai, ogni detenuto, quando viene posto in libertà deve pagare una quota: "mantenimento carcere" di circa 550 lire per ogni giorno passato in ozio e circa 250 per ogni giorno passato lavorando. Questo, naturalmente, spinge una gran parte di detenuti a lavorare ad una paga che varia dalle 10 alle 12.000 lire mensili, questo anche per incrementare il vitto che lo stato ci anticipa. Quindi essendoci una maggioranza di detenuti che lavorano, le scuole non possono essere che scuole serali. Hai presente che razza di bordello sono le scuole serali fuori? Ecco, qui molto peggio. L'insegnamento didattico non esiste proprio. A scuola si va per dialogare, per parlare di prossime amnistie, per informarsi sui pregi di questa o quella macchina, per sedare discussioni che portano alle immancabili scommesse e via di questo passo. Poi si hanno dei gruppetti intellettualoidi: "i contestatori" che hanno di solito una classe propria e insegnanti particolarmente disposti e qui si discutono problemi di ordine generale, dove chi urla di più si prende la ragione.
In tutto questo caos qualcuno ogni tanto riesce ad assumere una posizione politica coerente e valida ed evidenziare l'incapacità dell'ordinamento politico statale, e allora questo viene emarginato tra i "politici", sì, perché i "politici" vengono emarginati.
Inutile dirti che tra la popolazione regna l'anarchia - quella individuale, quindi negativa - in genere si formano vari "clan": quello dei siciliani, dei calabresi, dei sardi, eccetera a volte per colpa di questi gruppi la vita diventa ancora più difficile. Però esiste un gruppo positivo, ed è quello politicizzato, soltanto qui esiste solidarietà, studio, dibattito; ci si scambia libri e giornali, e soprattutto si discute e si presta attenzione a ciò che succede "al di là del muro". Questi sono tutti compagni. E sono i migliori, per molti motivi; per aver dato un senso alla loro vita - molti sono ergastolani - hanno studiato quando trovare un libro di Marx e Lenin era davvero un'impresa; altri non sapevano neppure leggere, e da soli o con pochissimo aiuto hanno imparato e si sono formati. Forse un giorno ti parlerò di qualcuno di questi, potrebbe essere interessante per te. Ma ciò che voglio ancora sottolineare è che tutto questo l'han fatto senza o con pochissimo aiuto. Naturalmente, a volte, siamo un po' incerti, confusi, ma non criticateci, anche voi a volte siete tutt'altro che chiari!
Questa è la prima panoramica che appare da una indagine molto sommaria della scuola nelle carceri.
Come vedi questa prospettiva è molto pessimistica e mostra aspetti analoghi alla scuola di fuori. Cercare una riforma in simili condizioni è mera utopia. Solo incuneando punte politicamente avanzate si possono spaccare le istituzioni statali, dando così vita ad un processo rivoluzionario alla cui guida saranno le masse proletarie.
Come ti dicevo questa è una veduta molto superficiale del carcere, ma la prossima volta te ne mostrerò un'altra più approfondita, più vera, che mostri quanto effettivamente c'è di buono e di rivoluzionario nel fondo di ognuno di noi. Tu comunque formulami domande più precise, parlami un po' di te e del tuo specifico orientamento politico in modo che io possa meglio orientarmi sulle prospettive e sugli aspetti che maggiormente ti interessano.
Ciao, Irene, tanti auguri per i tuoi studi.
Sante Notarnicola


- Lettera di G. S (3).

Trento, 19 dicembre 1970

Carissima Irene,
eccomi di nuovo a te per portare avanti la nostra discussione sul carcere e sulla sua funzione sociale.
Che cosa sono le carceri?
La maggioranza delle persone hanno solo una idea vaga in proposito e, comunque, molto lontana dalla realtà.
Alcuni credono che il carcere sia un luogo di espiazione e di redenzione, una specie di purgatorio per uomini vivi ove i detenuti ritrovano la loro anima che, purificata dal peccato, può così tornare beata al suo Dio-sociale.
Altri, invece, concepiscono il carcere come un inferno - senza ritorno - nel quale i "delinquenti" devono necessariamente stare rinchiusi perché hanno perduto il diritto a vivere tra le persone per bene.
Le due concezioni sono frutto di ignoranza e pregiudizio, un pregiudizio di comodo, spesso inconscio o razionalizzato, che tende a creare i "diversi" e gli "esclusi" per gratificare se stessi e sentirsi dei puri, e per giustificare una situazione aberrante la cui soluzione richiederebbe impegno, coraggio, denaro e il riconoscimento di una problematica socioeconomica che metterebbe in discussione l'intero sistema. Ma nessuno è disposto ad accettare passivamente di essere messo alla sbarra, tanto meno lo stato.
Il carcere non è un problema a sé; avulso dal contesto sociale, ma ne è invece una cellula viva, forse la parte di esso in cui certe disfunzioni si estremizzano più che altrove, perché in essa possono essere più facilmente coperte e giustificate attraverso l'isolamento, i moralismi e la falsa coscienza del bene che deve combattere e distruggere il male.
Basta analizzare le condizioni di vita degli operai - che pure sono uomini liberi e in possesso di tutti i diritti sociali - in una qualunque fabbrica, per rendersi conto di quali e quante violenze e anacronismi sono costretti a subire i detenuti, che per legge vengono privati della maggior parte dei diritti legati alla persona, finanche della libertà di pensiero. Ovunque un uomo è stato costretto a chinare la testa di fronte a un altro uomo non può esserci giustizia né tanto meno umanità. Nella fabbrica l'obbligo è imposto attraverso molteplici forme di ricatto, ma pure esiste il margine - anche se esiguo purtroppo - alla libertà personale che permette di perseguire certi diritti. Nel carcere l'obbligo è imposto con la violenza psicologica e con la coercizione, che spesso raggiunge forme di repressione fisica che sfociano nel sadismo e nella depersonalizzazione più disumanizzante per il detenuto. Salierno ha ragione quando afferma che il carcere è l'università del crimine, perché la violenza genera violenza e il più delle volte il processo è irreversibile.
Il carcere è un'istituzione totale che ha come sua caratteristica peculiare la coercizione e l'eliminazione dell'individuo da ogni aspetto della vita sociale; anche per quanto riguarda la sfera degli affetti. La nostra è una società consumistica. Bisogna produrre per avere diritto al consumo. Chi non produce - il malato di mente, il vecchio, il detenuto - viene messo da parte e buttato via, o messo in carcere, il che equivale ad un'eliminazione di fatto dalla società.
Il carcere è semplicemente un aspetto politico della nostra società. Ogni anno almeno 250 mila italiani vi soggiornano per brevi e lunghi periodi di tempo. Il cittadino ha il diritto e il dovere di conoscere qual è la vera funzione e il funzionamento di questo istituto, è costretto a viverci dentro come recluso, per poche ore, per mesi o per tutta una vita. Come tutte le istituzioni pubbliche, anche il carcere viene finanziato dai cittadini del paese ed essi hanno il diritto di pretendere che vengano utilizzati nel miglior modo possibile una parte cospicua del reddito e del patrimonio nazionali. Se il carcere deve avere una funzione socialmente utile, come tutti i servizi resi dallo stato, che l'abbia sostanzialmente e non solo teoricamente e, soprattutto, che esso sia una garanzia, una valvola di sicurezza sociale e non uno spauracchio discriminante - vedi i vari "baroni" ricoverati in cliniche di lusso a proprie spese - di terrore e di repressione.
Sono fatti recenti le rivolte verificatesi nei maggiori carceri italiani, con danni di parecchie centinaia di milioni sopportati dalla pubblica amministrazione. Cosa chiedevano i detenuti?
Le spiegazioni fornite al pubblico non sono molto convincenti. Soprattutto, si è teso a dimostrare che i detenuti si sono rivoltati essenzialmente perché sono "delinquenti" e, come tali, è nella loro natura aggressiva e criminosa commettere atti di violenza irragionevoli e ingiustificati. Ma la realtà è ben più amara.
Oggi il cittadino italiano può finire in carcere per un nonnulla. Basta una denuncia o un semplice sospetto per trasformare improvvisamente un uomo da libero cittadino in una bestia braccata nel labirinto giuridico-penale, dal quale difficilmente riuscirà a districarsi. La carcerazione preventiva, oggi per fortuna ridotta a limiti determinati, ne è un esempio sconvolgente. La società è amministrata sul piano giuridico da un codice che, se venisse applicato alla lettera, porterebbe in carcere la metà dei cittadini italiani. Oltre tutto questo codice non prevede neppure la possibilità dell'errore giudiziario, come se la giustizia fosse un fatto teologico e non un fatto sociale.
Il regolamento carcerario cammina di pari passo con il codice con in più tutti gli annessi e connessi relativi alla perdita dei diritti fondamentali. Per chi risulta colpevole, la situazione non è certamente meno drammatica che per i giudicabili.
Le rivolte carcerarie hanno messo in luce problemi che sembrano addirittura irreali tanto sono gravi, come se facessero parte di un mondo allucinante, un fantastico mondo dell'orrore e di una realtà che coesiste gomito a gomito con noi. Mancanza di servizi igienici, topi che salgono dalle fogne e passeggiano per le celle, scarafaggi, cimici che disegnano coreografie sulle pareti e sulle lenzuola (vedi il carcere di Alessandria) mancanza di spazio vitale, ossigeno insufficiente d'estate, freddo e umidità d'inverno, celle che sembrano bare per cadaveri viventi, degradazione fisica e psichica, trattamento terroristico, pestaggi, letti di contenzione, insufficienza sanitaria, privilegi, discriminazioni di ogni tipo, assenteismo e noncuranza per migliaia di uomini che raggiungono il completo sfacelo della propria personalità. Un mondo allucinante che nulla può giustificare, neppure il delitto più atroce, perché è anche esso un delitto, un delitto razionale, voluto, attuato con la ferma determinazione del diritto a manipolare la personalità altrui in nome della giustizia e dei valori etico-sociali, proprio per questo tanto più grave e mostruoso.
Durante il periodo dell'inquisizione le persone venivano bruciate vive per liberare la loro anima dal male e farla ritornare purificata dal Padre: la vita fisica e psichica delle persone non aveva nessun valore. Il carcere è strutturato essenzialmente su questi principi: gli individui vanno redenti e nessuno si preoccupa del fatto che questa cosiddetta redenzione finisce di fatto con l'essere una mostruosa forma di sadismo e di distruzione perpetrata ai danni degli individui.
Ora ti lascio e ti auguro buon lavoro. Appena potrò ti scriverò nuovamente. Ciao, salutami i tuoi amici - se non sono fascisti - ed abbiti tanti auguri per le prossime feste.
Salutami anche Giachero, se lo vedi. Ciao.
Gianni

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