VOCI PROLETARIE DAL CARCERE SULLA GIUSTIZIA.
- Lettera da Nuoro.
Gennaio 1971.
Dire che i giudici sono servi dei padroni rischia di diventare un luogo comune se non si dice anche in quale modo ciò avviene, anche e soprattutto in specifiche situazioni locali. Infatti il meccanismo che consente di raggiungere il medesimo risultato può variare da luogo a luogo pur avendo un unico fine: contribuire a realizzare il controllo e la repressione delle masse. Così in Sardegna sarebbe sbagliato considerare come politici solo i processi come quello per i "fatti di Sant'Elia".
Per farsi un'idea del funzionamento di certi strumenti repressivi bisogna invece analizzare soprattutto i processi "comuni" quelli considerati "non politici". È infatti proprio attraverso questi processi che i giudici esprimono la loro vera natura di servi dei padroni e lo fanno in maniera così indiretta e raffinata da sfuggire spesso alla grande maggioranza dei proletari. Anzi, quanto più attorno a questi processi si sviluppa la pubblicità e il clamore tanto più diventa facile al sistema nascondere la loro vera "funzione sociale".
Dinanzi alle corti d'assise della Sardegna vengono celebrati ogni anno in media quattro o cinque "processoni" in genere per omicidio o per sequestro di persona. Tutti questi processi presentano alcune caratteristiche comuni:
1) quasi tutti gli imputati hanno scontato un periodo di carcerazione preventiva che si aggira attorno ai due anni e talvolta supera i quattro;
2) spesso qualcuno degli imputati è latitante;
3) non sono rari i processi che terminano con clamorose assoluzioni.
Proprio quest'ultimo fatto, che sembrerebbe il più positivo, è invece quello che rende la situazione più pesante. Infatti è questa caratteristica che porta a pensare che in fin dei conti "la giustizia trionfa sempre", e che tutto si può risolvere sul piano della legalità. Ma, in realtà questa valutazione superficiale si ferma al dato finale dell'assoluzione dell'innocente, senza più pensare a tutto quello che ha preceduto tale assoluzione. Così ci si rallegra del fatto di averla scampata bella, e che qualcuno l'abbia scampata bella, "invece di rilevare tutta l'ingiustizia subita in precedenza".
I soliti legalitari affermano che queste cose succedono perché non ci sono abbastanza giudici e personale giudiziario e che quindi bisogna sperare nell'aumento degli organici in modo che l'amministrazione della giustizia sia più rapida e si possa evitare un interminabile protrarsi dei processi. Ma la verità è che questo discorso, per quanto venga fatto da venti anni almeno, non sarà mai tradotto in realtà, perché lo stato dei padroni, non ha alcun interesse a farlo. Infatti poliziotti e giudici si servono della situazione attuale per intimidire i proletari: "guai a te se cadi nelle mani della giustizia perché ti costerà caro in ogni caso. Se vuoi star tranquillo, non scontrarti mai col potere, con l'autorità, col giudice, col poliziotto". In questo modo si ottiene il doppio risultato di avere uno strumento in più di intimidazione e di far guadagnare ai giudici anche la fama di personaggi illuminati per la loro "coraggiosa" sentenza assolutoria.
Abbiamo già accennato al fenomeno della latitanza, sul quale si potrebbero fare molte considerazioni, ma per adesso è già importante rilevare come anch'esso sia usato dal potere; e ciò specialmente nel caso che la latitanza generi banditismo (cioè nel caso in cui il latitante commetta delitti per poter sopravvivere) è infatti questo il miglior pretesto per inviare in Sardegna ingenti forze di polizia, baschi neri e blu, truppe antiguerriglia e paracadutisti da impiegare per reprimere le manifestazioni popolari.
Inoltre, senza l'esistenza del banditismo verrebbe meno un buon pretesto per giustificare l'esistenza della polizia da parte dello stato borghese e non si saprebbe che sistemazione dare a questi [...] di cui il fascismo si liberava con guerre coloniali e a cui invece il regime "democratico" preferisce far indossare una divisa mimetizzata. Infine dar la caccia a un bandito è sempre meno impopolare che dare la caccia a un operaio, un pastore, uno studente che scendono in lotta. Così la repressione giudiziaria procede, nonostante qualche conflitto più apparente che reale, di pari passo con quella poliziesca.
E il giudice può dire tranquillamente: "io applico la legge, tutto il resto non mi riguarda: se la legge venga applicata immediatamente o dopo anni non è affar mio".
Ma cosa succede quando la "giustizia" viene amministrata rapidamente? Basta un esempio: il tribunale di Nuoro condanna a due anni di galera un proletario che aveva rubato dei viveri per sfamarsi, mentre uno sbirro, che nel mese di giugno aveva assassinato una donna sparando con la pistola d'ordinanza per festeggiare un goal di Riva, se l'è cavata con cinque mesi per omicidio colposo.
A questo punto non resta che chiedersi quali siano le forme di lotta migliori per abbattere la giustizia borghese. Il problema, non semplice, è quello di trovare le giuste parole d'ordine che siano in grado di creare una vasta mobilitazione popolare. La parola d'ordine iniziale potrebbe anche tendere semplicemente a richiedere l'aumento degli organici giudiziari, e portare a scoprire nel corso della lotta la realtà dell'inganno legalitario. Ma ciò, anche se servirebbe a riscuotere qualche successo in una zona depressa dove resiste ancora un certo "rispetto" per i giudici, presenta rischi che sono evidenti in ogni obiettivo gradualista e potrebbe essere facilmente riassorbito dai riformisti di ogni risma. Comunque per ora è utile, a noi e ai nostri nemici, ricordare una scritta comparsa sui muri di Cagliari all'indomani della sentenza di Sant'Elia.
SANT'ELIA: QUALCUNO PAGHERÀ. NON SARÀ SOLTANTO QUALCUNO A PAGARE E NON SOLTANTO PER SANT'ELIA...
- Lettera di un compagno.
Torino, autunno 1969.
Gli altri sono fuori in cortile, così sono solo e posso concentrarmi meglio. Non so se è per masochismo, comunque sono anche io sorpreso di non sentire affatto il peso della galera. Ma forse si spiega così: la galera è come il peccato, o il diavolo o l'angelo custode; una invenzione che serve per suscitare una paura irreale, assurda, la paura di aver mancato a un ordine. Ma quale ordine?
È qui in galera che l'ordine ti si rivela per "quello che è: violenza quotidiana che ti si abitua ad accettare come ordine", donde i sensi di colpa, donde la tristezza delle cose perdute, ma quali cose?
Per chi crede in queste cose deve essere davvero brutto, immagino, ma per chi conosce la funzione e la inutilità di queste cose, la galera perde tutta la sua efficacia: cioè non fa più paura.
La scoperta più bella qui è una conferma, la conferma spietata di aver ragione di realmente rappresentare le esigenze della gente. Tutti si dichiarano innocenti e lì per lì non ci credi. Ma l'innocenza che rivendica il detenuto non è quella generica di chi trova sproporzionata la pena. È l'innocenza storica dello sfruttato, dell'isolato, dell'oppresso, dell'alienato. Il reato perde la sua dimensione assoluta, si relativizza e scompare come reato. Ad esempio: i furti, l'incitamento alla prostituzione, la frode, si scoprono identici agli atti della vita legale.
Non viene attaccata l'ineguaglianza delle leggi: è una constatazione troppo facile. È l'istituto "giustizia" che si rivela tutto sbagliato (in forme precise).
C'è insomma il sentirsi coinvolto in un ordine che tu non possiedi, che non ti sei scelto (ma deciso?!): di fronte a questo ordine "che non ti condanna, ma ti mette nelle condizioni di essere condannato", ecco, di fronte a questo ordine, all'innocenza ci credi e ci fai causa comune.
E cade un altro trucco che perpetua, qua dentro e là fuori, la divisione.
Reato comune - reato politico.
Prima c'è il tentativo di far passare per comune il politico.
È il nostro caso, e degli operai Fiat, e così ti accusano di sequestro: per loro è sequestro stare insieme uniti, tutti, a lottare: ci vogliono divisi e la divisione si rompe, allora qualcuno deve avere sequestrata la parte divisa prima.
Quando arrivi qui la divisione ricompare. E allora ti senti dire: "Ma voi vi mandano via subito". "Voi lo fate per un'idea, almeno lo sapete per cosa lo fate". Ma è falso. La consapevolezza nostra e loro è certo diversa, ma le ragioni sono le stesse. È quell'ordine maledetto che ti costringe a rubare, che basandosi sullo sfruttamento ti invita a sfruttare, che proponendoti i soldi come meta ti invita a farli con ogni mezzo contro tutti. Non è il reato politico che è un reato comune: sono entrambi, a livelli diversi, reati politici, atti di rivolta, testimonianza del mondo che viene predicato come ordine.
E questa unità va portata alla coscienza.
E allora anche in galera non ti senti escluso, monco, privato, reo; solo inquadrato secondo forme diverse di uno stesso ordine.
E quindi: lotta continua.
- Lettera di un gruppo di proletari detenuti nelle carceri di Venezia.
Santa Maria Maggiore, 31 ottobre 1970.
Abbiamo visto nei giornali le foto dei compagni di Lotta Continua, che stanno facendo lo sciopero della fame a Porto Marghera. Buona parte di noi si trova qui dentro vittima di questo sporco sistema che colpisce i proletari in tutti i modi. Quando parliamo tra di noi e ci raccontiamo le nostre esperienze, il risultato finale è un odio accanito contro tutti gli sbirri, i manicomi, le galere, i tribunali e tutta la "malavita": quella vera, degli imbroglioni, e ladri di prima classe, i padroni. I padroni e i loro servi che vivono sulle spalle del popolo. Oggi leggevamo sul "Gazzettino" del "Caso Boato" e ognuno di noi ritrovava se stesso e mesi e mesi di carcere preventivo, di umiliazioni, di segregazione, che centinaia di giovani devono subire per dei reati quasi sempre dettati da necessità economiche o addirittura inesistenti.
Bisogna essere qui dentro per capire la freddezza con cui si lascia marcire qui tanta gente, senza avere nessuna vera prova in mano; bisogna essere qui dentro per accorgersi che la stragrande maggioranza è gente povera: i signori, i padroni come Riva trovano sempre il modo di cavarsela; soprattutto se dietro c'è la Montedison, come per gli assassini del Vajont che non hanno rubato qualche carta da 100 mila, ma hanno ammazzato freddamente ben duemila persone. Basterebbe pochi giorni qui per accorgersi che i "delinquenti" sono una minoranza: ci sono ragazzi che aspettano da mesi il processo, per essere stati trovati con due grammi e mezzo di droga. C'è un vecchio dentro per vecchi rancori tra famiglie. C'è un negro di venti anni del Sud Africa qui da quasi un mese per una baruffa al porto (in questura ha perso anche i vestiti). Quando l'hanno interrogato parlavano solo italiano: non ha capito niente né lui né l'interprete. Ora è qui, senza i soldi per l'avvocato, abbandonato dalla sua nave di squadristi bianchi. Un ragazzo di Milano, orfano, senza una lira, è qui da agosto e aspetta il processo che chissà quando verrà: questo per aver dato un bacio ad una tedesca a Iesolo dove lavorava. Venendo in prigione, ha perso anche la stanza dove abitava, il comune l'ha passata ad un altro.
E ci sarebbe da parlare anche di quelli di noi che sono "ladri": abbiamo tutta una nostra morale al fondo del nostro comportamento, una serie di principi: ci rifiutiamo di lavorare da schiavi: "lavorare un mese per portare a casa una miseria", la ridistribuzione dei soldi rubati dai borghesi alla povera gente. I soldi infatti non si trovano dove non ci sono, cioè nelle case degli operai.
Se usiamo la violenza è perché alla "giustizia" dello stato capitalista cerchiamo di opporre la nostra giustizia. Il nostro errore è stato quello di interpretare individualisticamente questi principi, in modo cioè da perpetuare lo sfruttamento e non da eliminarlo.
- Lettera aperta dei detenuti delle carceri di Padova al ministero di grazia e giustizia.
Aprile 1970.
In questi giorni Lei, sig. Ministro, ha presentato al Capo dello Stato il documento nel quale veniva evidenziato che il nostro ordinamento giudiziario non è in grado di rispondere alla domanda di giustizia del cittadino.
Noi detenuti di Padova chiediamo:
- perché allora si continua a permettere tanto zelo ai giudici nell'usare gli ingiusti modelli della sorpassata norma di giustizia? Perché il giudice può tenere sotto interrogatorio l'inquisito, senza limiti di tempo?
- perché il giudice può minacciare l'imputato?
- perché vi beate di aver dato la possibilità all'indiziato di essere assistito dal suo legale ingannando tutti i cittadini italiani?
Il nostro compagno GIOL GUIDO ha subìto interrogatori della durata di sei ore; è stato forse minacciato di incorrere nella condanna all'ergastolo? per quarantacinque giorni venne tenuto segregato - senza un colloquio con la famiglia - col suo legale - e la sua corrispondenza era censurata.
Anzi, il giudice nell'ultimo interrogatorio gli aveva vietato ogni forma di corrispondenza e lettura dei giornali.
Sono questi, Signor Ministro, i diritti equi del cittadino italiano?
Ci appelliamo all'art. 13 della Costituzione che proibisce le violenze morali ai danni del cittadino e chiediamo che vengano puniti quanti del Diritto si servono solo per offendere i diritti dell'uomo e non per fare giustizia.
Se il nostro amico GIOL GUIDO non fosse stato moralmente torturato sarebbe ancora in vita.
Pertanto chiediamo che siano puniti i responsabili che indussero il sig. GIOL al suicidio.
Con osservanza.
I detenuti sottofirmati delle carceri giudiziarie di Padova - 17 aprile 1970.
Seguono quarantacinque-cinquanta firme.
- Mozione dei detenuti di San Vittore.
Milano, 10 febbraio 1972
Ill.mo Presidente della Corte Costituzionale, Roma
Noi cittadini detenuti nelle carceri giudiziarie San Vittore di Milano
considerato
la lentezza con cui procede l'iter per la approvazione del primo libro del nuovo codice penale che prevede l'abolizione della recidiva e delle misure di sicurezza;
ritenuto
del tutto ingiusta la distinzione tra amnistia propria e impropria per i diversi effetti sulla recidiva;
chiediamo
l'accoglimento delle questioni di illegittimità costituzionale, attualmente da tempo pendenti dinanzi codesta corte, relativi agli artt. dal 99 al 109 CP. e 151 C.P.
sollecitiamo
che la S. V. I. si renda promotore attivo di questa nostra richiesta, nell'interesse della giustizia.
Seguono circa ottocento firme.
- Lettera di alcuni compagni detenuti di San Vittore.
Milano, luglio 1972.
Hai chiesto di parlarti degli avvocati.
L'opinione pubblica, gli assidui lettori di cronaca nera, quelli che non sono mai stati in galera, si immaginano la figura dell'avvocato come un Perry Mason o un Carnelutti ben inserito in un preciso gioco delle parti, uguale per tutti i detenuti, dove da una parte ci stanno i poliziotti, il pubblico ministero che accusano, dall'altra un buon avvocato che difende coscienziosamente, ed in mezzo un onesto giudice al di sopra delle parti. Niente di tutto questo per la maggioranza dei detenuti! Chi non ha una lira, si affida alla difesa d'ufficio, che è una pura formalità e si conclude con la solita formula: "chiedo le attenuanti generiche e mi affido alla clemenza della corte". Questa difesa d'ufficio è una solenne presa in giro e noi, a San Vittore, abbiamo spesso posto all'ordine del giorno, durante gli scioperi e nelle discussioni, questo problema. Abbiamo chiesto di poter essere noi a scegliere l'avvocato e poi lo stato lo deve pagare, abbiamo chiesto un ufficio legale interno per disbrigare gratis le pratiche, tipo ricorsi, eccetera. Sono palliativi perché la sostanza del problema, e cioè che questi avvocati se ne fregano di difenderci, rimane. Comunque questi due obiettivi sarebbero un certo passo in avanti rispetto alla difesa d'ufficio così come viene effettuata adesso.
Chi ha dei parenti con qualche soldo, oppure può disporre di una certa cifra messa da parte, oppure ha una donna che fuori "lavora" per lui, si prende l'avvocato. Allora, nella maggioranza dei casi, cioè in tutte le occasioni di ordinaria amministrazione e che non trovano largo spazio sui giornali, questo avvocato non si fa mai vedere, non si interessa e non si studia la causa, trascura di scovare testimoni e si ricorda dell'"assistito" solo per chiedergli ancora soldi. Al processo poi cerca di mascherare la sua scarsa preparazione sparando parolone grosse che dovrebbero colpire il giudice (che nel frattempo o dorme o legge il giornale) ma in realtà hanno lo scopo vero di convincere i parenti dell'assistito che la difesa è ottima, che "dopo un discorso del genere ti devono assolvere per forza": una truffa in piena regola, insomma, perpetuata sotto gli occhi benevoli ed esperti del giudice. Perché questa corruzione degli avvocati? In primo luogo perché sono dei borghesi, secondo perché si abituano fin da giovani a guadagnare il pane quotidiano sulle spalle delle disgrazie altrui, e poi sono tanti, troppi, molti sono squattrinati peggio dei "delinquenti", perdono ogni scrupolo, spesso sono confidenti dei giudici e della polizia. Quando poi capita una causa importante allora si preparano bene, sul piano tecnico, per fare bella figura... Ma quanto squallore nella ideologia che sta alla base dei loro discorsi, che sono una continua leccata di piedi al giudice, alla morale vigente, una capitolazione totale sulla figura dell'assistito, che se può anche essere assolto sul piano giuridico, viene completamente deformato sul piano umano e morale: spesso lo si fa passare per "matto" o "seminfermo" ed altre simili trovate borghesi. La maggior parte degli avvocati è di destra, appunto perché legati a privilegi sempre più miseri che possono essere difesi solo da un regime conservatore come quello fascista. Alcuni avvocati intendono invece il loro lavoro come un servizio sociale, altri come un diretto impegno politico. Sono gli avvocati di sinistra, gli avvocati comunisti, quelli rivoluzionari. Ma anche loro tendono a trascurare i detenuti comuni come casi concreti: difendono gli studenti, gli operai, nei processi "politici", e prendono "posizione", questo sì, contro le storture del sistema giudiziario. Ma troppo spesso si rifiutano di difendere a poco prezzo i singoli "delinquenti comuni", i rapinatori, i ladri, tutti quelli che non rispettano una legge che loro proclamano di disprezzare, ma poi alle loro coscienze di cittadini democratici e "comunisti" fanno molto schifo. Per cui si assiste spesso al triste spettacolo dell'avvocato di "sinistra" che si fa pagare dal detenuto comune parcelle salatissime, e magari poi si fa bello con le difese gratuite ai detenuti politici. "Bisogna pur vivere" dicono. Certo, anche gli sbirri, i giudici, i giornalisti devono pur vivere sulle nostre disgrazie, sulle disgrazie del sottoproletariato. Per concludere, nel complesso gli avvocati ci servono a ben poco, servono a illuderci, noi e le nostre famiglie, a farci spendere dei soldi inutilmente, quando li abbiamo.
- Tema di A. G. - Istituto tecnico.
Alessandria, 6 giugno 1967.
Lettera aperta al giornalista che ha scritto l'articolo sul mio arresto.
Sono passati molti anni da che lei, sig. giornalista, scrisse quell'articolo sul mio conto; io, ormai, non ho più alcun risentimento verso di lei poiché in me è avvenuta una trasformazione attraverso una lunga riflessione ed ora posso comprendere bene il suo articolo e la sua posizione nella società. Mi piacerebbe che lei, sig. giornalista, rileggesse l'articolo che scrisse su di me; io lo ricordo perfettamente. Chissà se vedendomi oggi e indagando su tutti i miei trascorsi, qui e quando ero uccel di bosco, lei sarebbe ancora della stessa opinione e scriverebbe ancora quei paroloni che tanto bene usò e certamente anche ora sa usare. Io ora, sono un individuo qualunque, per lei privo di qualunque interesse; debbo quindi pensare che il suo antico interessamento per me fu mosso dal nudo fatto di cronaca: mi sembra però che i fatti li facciano gli uomini anche se molte volte certi fatti lei preferisce lasciarli anonimi.
Per non far sì che lei venga accusato di favoritismi e di superficialità la rendo edotta di tutti i miei trascorsi prima del carcere e dopo. Inizierò a parlarle innanzitutto del "dopo" perché nel tempo è più vicino ad entrambi. Non ho bisogno di ricordarle le mie vicende giudiziarie giacché lei fu così solerte nell'informare l'intera popolazione delle vicende relative alla mia modesta persona sia prima dei processi che dopo. Le dirò sino ad oggi sono trascorsi cinque anni e le giornate sono sembrate belle, brutte, faticose, e riposanti, tristi e gioiose, interessanti e scialbe come in genere possono sembrare anche a lei. Per me invece della solita musica, del capo redattore e delle esigenze che la sua vita e la società chiede sacrificando e mortificando a volte anche la coscienza (e la sua coscienza non è da riderci su perché lei è un uomo onesto, di talento e di principi sani da renderlo incorruttibile e intransigente), l'unico motivo conduttore è stato di migliorare con tutti i mezzi che legalmente mi sono concessi; lei si chiederà in che modo sono migliorato, perché si può migliorare anche nel crimine e lei sa bene che questo non è un collegio per educande. Il mio miglioramento è dovuto alla scuola; ho acquistato un'istruzione che mi permette di leggere e di capire quello che tanti suoi colleghi scrivono, una consapevolezza della vita, una maggior personalità, ed infine ha gettato le basi che hanno fatto di me un uomo nuovo provvisto di una grande volontà, di un po' di cultura e, il prossimo anno, anche di un pezzo di carta in cui si può leggere che sono geometra e non più un semianalfabeta, ma un diplomato. Lei si chiederà perché non le ho accennato minimamente al carcere; voglio chiarirle anche questo punto. Non le ho parlato del carcere perché tanto l'ambiente come le persone che lo compongono non hanno fatto nulla perché diventassi migliore. Ora lei penserà che il sistema carcerario non è atto a redimere i criminali oppure che io racconto delle frottole. Ma voglio farle osservare che la società ha tutto l'interesse che noi rimaniamo dei criminali; difatti lei nel concludere il suo articolo disse che per quei fatti si doveva dare una punizione esemplare. Anche lei, come tutti gli altri, non ha fatto che inveire contro di me. Lo so, il suo articolo era stato scritto per il pubblico e tutti sappiamo quanto i lettori siano esigenti. Lei certo non pensava le cose che ha scritto, purtroppo doveva scriverle perché il redattore capo sa che il pubblico vuole un articolo impostato sulla vendetta e non l'articolo umanitario che forse la sua coscienza le suggeriva. Sa, credo che, in modi diversi, siamo entrambi vittime della società. Il suo mestiere è faticoso e ingrato, la spersonalizza e la costringe a essere privo di umanità e la impegna tanto da non potersi interessare della vita privata di un giovane che ha sempre lavorato. Non mi dilungherò a parlarle della mia vita precedente, ma le dirò che ho sempre lavorato e che la scuola avrebbe potuto far allora quello che ho fatto adesso. Ora le chiedo di dirmi se crede che in pochi mesi di vita balorda si diventa delinquenti incalliti. Ricorda la frase che scrisse? Forse no; gliela ricordo io: "Non un teddy boy o un bullo di periferia, ma un autentico teppista, incallito delinquente, volto alla malavita". Inoltre non le pare strano che un giovane che sino a ieri aveva lavorato, oggi prendesse un'arma per procurarsi dei soldi? Non ha mai pensato come i soldi per certa gente non contano niente mentre altri sono in continua battaglia per averli? Non vede come tanta gente ruba nella pseudolegalità? Non ha capito ancora che al diploma e alla laurea si accede solo se si hanno possibilità finanziarie notevoli? Non è mai sceso fra la povera gente per conoscere i loro problemi? Non si ricorda che la storia insegna che la guerra la combattono i poveri per ingrassare quelle persone che tanto spudoratamente parlano di pace? Non le pongo altri interrogativi, vorrei però che lei rivedesse quell'articolo, lo leggesse attentamente, prendesse in considerazione la mia persona di oggi e di ieri e mi dica se era giusto e valeva la pena infierire su un giovane che era già una vittima.
- Dichiarazione di Sante Notarnicola al processo d'appello.
Milano, dicembre 1971.
Voglio usare brevemente del diritto alla parola, per chiarire il mio atteggiamento, non solo quello precedente al mio arresto, ma anche quello attuale nel carcere e in quest'aula.
Anzitutto dichiaro sinceramente che non mi toccano né la condanna che mi darete né la descrizione che è stata fatta di me in questo luogo e altrove. Entrambe riflettono il modo di pensare e di giudicare, proprio della mentalità della classe dominante. Questa vede in me un suo nemico, e non può darmi né comprensione né giustizia che io non chiedo. Essa colpisce me attribuendomi quella criminalità, quella violenza, quella avidità che sono le sue stesse caratteristiche. Mi si indica come esempio del Male, mentre io non sono altro che un prodotto di questa società borghese corrotta e malvagia. Questa società che pone come unica alternativa lo sfruttamento legalizzato: il carcere.
Se io sono un criminale, e lo nego apertamente, sono esattamente quale voi mi avete fatto. La criminalità è roba vostra! Essa è prodotta e riprodotta continuamente, inevitabilmente, deliberatamente, dalla società classista, nell'interesse delle classi dominanti. La criminalità consiste nella egoistica ricerca del profitto e del successo ad ogni costo, nella sopraffazione dei deboli, nello sfruttamento, e tutto ciò è roba vostra. Consiste nell'accettare il carcere diventando dei delatori, degli opportunisti, dei ruffiani per ottenere privilegi, concessioni, libertà anticipata, calpestando i compagni di pena, ingannando l'opinione pubblica, con falsi pentimenti, tradendo tutto e tutti e prima ancora se stessi. Io rifiuto tutto questo, anche se questo rifiuto mi costerà caro. Sappiate anche questo quando mi condannerete. Non sono mai stato un criminale e non lo sono tutt'ora, faccio questa dichiarazione in tutta serenità ben sapendo il danno che me ne verrà, le difficoltà che dovrò superare e la repressione che essa mi scatenerà contro da parte dell'apparato punitivo. Questo mio atteggiamento è coerente a tutto il mio passato sino a questo istante e per coerenza alla mia scelta iniziale, che è quella della rivolta contro il sistema borghese, io debbo avvertirvi che nonostante tutta la buona volontà della istituzione carceraria, ogni tipo di trattamento rieducativo non riuscirà a fare di me quello che si propone di fare per ogni detenuto: distruggere ogni dignità, ogni coscienza, ogni qualità, sino alla totale repressione psicologica, quella del criminale borghese. Sarò sempre, e stavolta nel modo migliore, più giusto, più difficile, un comunista, un rivoluzionario. E per la logica repressiva inevitabilmente dovrò pagare sino in fondo per questa mia decisione.
Vi chiedo l'ergastolo, non per i morti che non ho ucciso, non per i reati in se stessi, ma perché io sono vostro nemico, perché io sono vostro prigioniero, perché voi rappresentate il sistema capitalistico che è nemico mortale del genere umano, e perché al nemico vincitore non si chiede giustizia o pietà, ma si continua a combatterlo anche dal fondo delle sue putrescenti galere. Non sono qui per chiedere attenuanti, sono venuto davanti a voi, ma non per il motivo che spinge il detenuto comune a presenziare ai processi: difendersi cioè sul piano giuridico per attenuare la condanna. Sono venuto per criticare il mio passato dove esso è da criticare, in modo rivoluzionario, da un punto di vista rivoluzionario. So che parte della opinione pubblica mi è ostile, ma ciò non mi riguarda; è quella parte del pubblico che ha totalmente assorbito la mentalità della classe dominante. Non ad essa mi rivolgo, ma alle forze sinceramente proletarie e rivoluzionarie. Solo rispetto ai valori che queste rappresentano, il mio passato può essere autocriticato e condannato. Se io ho rapinato banche, se sono morti degli uomini, non per mano o volontà mia, non è certamente davanti a una classe che si fonda sulla rapina, sulla frode, sulla violenza più sanguinosa che debbo giustificarmi. Ho davanti a me una polizia assassina, ho davanti a me una legge fascista. Ho sbagliato. È innegabile. Come è innegabile il rammarico che provo per i morti, vittime ignare di una lotta continua e inarrestabile che non certamente noi, piccoli uomini sfruttati, abbiamo voluto. Ma il mio rammarico più forte è per quei vivi che non capiscono o non vogliono capire il significato più vero e profondo della nostra rivolta. Questo è l'aspetto più tragico di tutta questa storia. Non chiedo a questi operai, alle masse non politicamente preparate di giustificarmi, ma solo di capire. Di capire che la nostra è stata solo una risposta ad una situazione di vita intollerabile per la dignità umana e che il responsabile di questa situazione è il sistema borghese, è questo il nemico, il provocatore del crimine, la causa di ogni violenza e di ingiustizia. Quei lavoratori, quegli sfruttati che sono contro di noi, non comprendono, ed è la loro tragedia, che lo sfruttamento, la miseria, la violenza, il crimine, l'oppressione, non sono opera nostra ma il risultato inevitabile di un sistema ingiusto, fondato sulla divisione tra gli uomini. Ora, quando noi, un piccolo gruppo, ci ribelliamo a questo stato di cose, anche se la nostra è una ribellione soggettiva individualistica, siamo sempre dalla parte giusta, nonostante gli errori del metodo. Siamo sempre dalla parte delle classi sfruttate, degli oppressi, dei poveri: il nostro unico rimpianto è quello di non aver saputo e potuto mirare in alto e di esserci limitati a un solo tipo di attività. Tuttavia abbiamo avuto il merito di mettere in seria crisi gran parte dell'apparato poliziesco, difensore degli interessi borghesi, dimostrandone l'ottusità, l'incapacità, la ferocia, la funzione esclusivamente antioperaia. Questo l'aspetto positivo della nostra azione, quell'aspetto che ci pone concretamente, realmente, fuori da ogni compromesso con il mondo borghese. Ciò nonostante abbiamo sbagliato, perché non siamo riusciti a creare nuclei di guerriglia organizzata che nei cupi anni '60 avrebbero potuto scuotere la classe operaia da una situazione di confusione e di inerzia. Purtroppo oltre ai nostri errori c'è stata pure una somma di circostanze avverse: se avessimo avuto maggior tempo a nostra disposizione saremmo riusciti ad agire, con più vastità ed efficacia. Nel venire a contatto con il mondo carcerario, con la sua quantità di orrori e di violenze e nel rivedere criticamente gli errori compiuti e nel conoscere da vicino la lotta eroica dei detenuti politici, ho potuto crescere, maturare, arricchire la mia coscienza rivoluzionaria.
Ciò mi rende sereno nel cammino verso l'ergastolo. Voi cercherete di farci morire in galera, delegando gli uomini dell'apparato ad accelerare le cose.
Ce ne andiamo con il rimpianto di non aver fatto ciò che dovevamo fare, di aver sciupato l'unica occasione della nostra vita. Ma siamo sereni. Altri verranno, migliori di noi, fatti esperti dei nostri errori, a raccogliere l'aspetto positivo della nostra esperienza. La lotta contro di voi continua, fuori e dentro il carcere! Voi continuerete a imprigionare tutti coloro che vi dànno fastidio o sono un pericolo per il vostro disordine costituito. Voi metterete in carcere i pacifisti, gli obiettori di coscienza, noi li aiuteremo a superare le asprezze e le privazioni di questa vita e di questo ambiente. I detenuti comuni, gli sbandati, i ribelli senza speranza, noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria. Questo è il mio impegno, questo è il vostro errore. Voi credete di aver vinto e invece, anche con me, avete già perso la battaglia. Voi condannerete me con spietata durezza, come condannerete chiunque si ribella alla vostra oppressione. Ma verrà il giorno in cui io, insieme al popolo, sarò un vostro accusatore!
W Marx, W Lenin, W Mao Tse-tung!
- "In morte di un giudice cattolico"
di Sante Notarnicola.
Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo
si adunarono per giudicare un giudice.
Cristo condusse l'interrogatorio:
"Signor giudice, cosa avete fatto nella vita?"
"Signore, applicai il codice".
"Giudicavate difendendo pochi privilegiati?"
"Signore, applicai il codice".
"Avete rispettato il mio insegnamento?"
"Signore, applicai il codice".
"Avete mai perdonato? teso una mano?"
"Signore, applicai il codice".
"Una vostra condanna, ha redento qualcuno?"
"Signore, applicai il codice".
Cristo, nella sua requisitoria, chiede di applicare il codice!
(San Vittore, 30 luglio 1971)
- "Tribunale del popolo"
di Sante Notarnicola.
CANCELLIERE
Compagni silenzio! entra la Corte!
PRESIDENTE
Introducete l'imputato
CANCELLIERE
Questo tribunale è costituito dai compagni:
Bruni, meccanico.
Gianni, taxista.
Rossi, contadino.
Paoli, studente.
Neri, pensionato.
Presiede il compagno
Bori, tranviere.
ACCUSA
Compagno imputato,
perché hai commesso questo reato?
Vuoi dirci in cosa abbiamo sbagliato?...
(Volterra, 13 febbraio 1971)