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IL SISTEMA DELLE PUNIZIONI.

- Lettera di M. Z.

Volterra, gennaio 1971.
19 settembre 1970. Sono da poco le sette del mattino, passi cadenzati si odono nella sezione, la terza superiore del penitenziario di Volterra... Odo i passi arrestarsi di fronte alla mia cella, la n. 23, lo scatto del pesante passante che blocca la porta, che viene spalancata, innanzi a me due brigadieri ed una decina di guardie, vengo invitato ad uscire, obbedisco, ed in mezzo al plotone mi incammino verso l'uscita. Faccio una domanda, mi viene risposto che non sono tenuti a darmi delle spiegazioni, replico la domanda, mi informano che debbo essere isolato.
Scendo tranquillamente le scale sino ai sotterranei del castello, ove con mia grande meraviglia altri miei compagni sono già stati condotti prima. Vengo introdotto in una cella, con un letto di contenzione al centro, mi spogliano completamente nudo intorno ci sono una ventina di guardie.
In un istante mi sono addosso con calci e pugni, cerco di coprirmi, grido, chiedo il motivo di quel linciaggio, ricevo altri calci, pugni, con una cattiveria ed una selvaggità mai veduta. Fortunatamente la lunga pratica sportiva, la difesa del caraté e la robustezza fisica acquisita praticando il sollevamento pesi negli anni passati, mi sono di aiuto a parare molti colpi, che avrebbero potuto provocarmi serie lesioni. Odo gridare anche gli altri compagni nelle celle accanto, addirittura piangere e gemere di dolore. Un poderoso pugno mi raggiunge in pieno volto, mi sanguina il naso, continuano a picchiarmi, selvaggiamente, quasi la vista del sangue li avesse infuriati di più, proprio come l'istinto degli animali feroci, sto per crollare nonostante la mia resistenza fisica. Smettono, mi trascinano nel corridoio ove in uno stanzino c'è un lavabo, mi ordinano di lavarmi il volto che è ormai una maschera di sangue (forse temono che mi restino troppi segni evidenti), vengo spinto ancora fuori del corridoio, vi sono ad attendermi un numero considerevole di guardie, disposte ai due lati, vengo di nuovo preso di mira, infieriscono ancora, soprattutto con calci, il dolore mi fa annebbiare la vista, mi ritrovo pesto e dolorante nella cella, completamente nudo, mi alzo da terra a fatica, cerco di adagiarmi sul letto, mi gira il capo, la nausea, vomito, forse svengo, mi risveglio sul tardi intirizzito dal freddo, chiedo qualcosa per coprirmi, mi viene risposto che non c'è l'autorizzazione.
Intanto ho scolpito nella mia mente alcuni nomi, tre sottufficiali e un agente: P., Z., J. e M. Nelle notti seguenti sono preso da incubi, mi sveglio di soprassalto, mi sembra che ad ogni istante arrivino i miei carnefici.
Ho finalmente modo di vedere gli altri miei compagni, in condizioni pietose, A. Z. e M. A., quest'ultimo forse il più malconcio, è caduto a terra, dove numerosi calci lo hanno raggiunto in pieno.
Gli altri due, M. V. e M. C., non sono stati molto malmenati per la loro avanzata età. Sei giorni dopo dal sotterraneo siamo trasferiti in un'altra sezione, sempre punitiva ed in isolamento, dove poi ci resteremo quasi cento giorni.
La sera del 25 settembre vengo convocato sul tardi dal sostituto procuratore della repubblica generale di Firenze, il quale con mia grande meraviglia sa ogni cosa, evidentemente un compagno è riuscito ad informare la magistratura. A. Z. ed io veniamo interrogati e sottoposti ad una visita medica all'istante dal medico del carcere dottor L., per ordine. Riscontra ecchimosi ed abrasioni sui nostri corpi per cui procede all'apertura di un'inchiesta controfirmata da noi, e dal medico stesso. Dopo qualche giorno veniamo convocati dal comandante del carcere il quale ci contesta di aver opposto resistenza e di aver oltraggiato le guardie che ci portarono nei sotterranei (cosa assolutamente falsa, per giustificare le lesioni riscontrate sui nostri corpi).
Ci contesta altresì di aver introdotto una rivoltella del tipo Flobert calibro 6 nello stabilimento, che a suo dire sarebbe stata trovata nell'ufficio dei conti correnti, ove noi cinque svolgevamo il nostro lavoro di impiegati. Naturalmente, non avendo mai posseduto quell'oggetto respingiamo ogni addebito all'interrogatorio del pretore di Volterra. Nonostante ciò, siamo deferiti alla magistratura, pur avendo subito tutti quegli abusi e violenze; non solo, vengo persino citato come teste per un'altra separata denuncia nei confronti di M. V., al quale lo stesso pretore in udienza infligge nove mesi per oltraggio, per aver offeso un agente carcerario, malgrado essendo stato io stesso presente al fatto, abbia confermato dinanzi ai giudici la totale innocenza del compagno M. V.
Questi avvenimenti sono spesso di ordinaria amministrazione in parecchi reclusori italiani, particolarmente in questo di Volterra.
Le guardie carcerarie sono i più bei campioni di sadismo umano, ogni volta è un piacere per loro far parte della squadra di pestaggio, anzi taluni fanno a gara per entrarci, è una cosa bella per loro colpire in venti o trenta contro uno, linciare nel vero senso della parola un poveretto che nella maggior parte delle volte non ha commesso nulla di male, tutt'al più per aver detto qualche parola in sovrappiù...

- Dichiarazione di Sante Notarnicola.

Milano, maggio 1971
Alla Corte d'Appello di Milano
e, p. c.
Alla Procura Generale
All'avvocato Spazzali Giuliano

Io, Sante Notarnicola, ritengo mio preciso dovere e diritto intervenire in questa sede e in questo grado del procedimento, per denunciare a codesta Corte giudicante una situazione di fatto che dovrà essere tenuta presente al momento del giudizio. Tale situazione si riferisce alla esecuzione della pena che mi verrà inflitta. Chi mi condanna, deve conoscere esattamente il significato e la sostanza di questa condanna. Intendo cioè rendere responsabili moralmente i miei giudici, affinché non vi sia nessun alibi per le loro coscienze, che presumo in buona fede. Questa Corte dovrà stabilire per me una pena che deve essere adeguata e fedele allo spirito e alla sostanza delle leggi dei regolamenti e della Costituzione. Ma si sappia che tale pena dovrò scontarla a Volterra, dove sono ignorate sia le leggi, sia i regolamenti, sia la Costituzione e ogni sentimento di umanità. In tale modo la condanna inflittami, da voi ritenuta forse equa, si tradurrà nella pratica in una effettiva iniquità di cui sarete coscientemente partecipi. L'eventuale obiezione che questo argomento non sia pertinente alla causa, è irrilevante e smentita dai fatti e dalla logica. Il modo dell'esecuzione della pena non può essere ignorato da chi pronuncia un giudizio di condanna; non ci si può limitare a pronunciare una sentenza, senza curarsi delle conseguenze della sentenza stessa. Nel mio caso, questo tribunale crederà di condannarmi alla privazione della libertà, mentre in realtà mi condanna a subire un trattamento illegale. Ecco perché denuncio la mancanza di equità; apparentemente io e i miei compagni veniamo condannati alla stessa pena, in realtà esiste una disparità tremenda, tra la sostanza della loro condanna e della mia. E la questione trascende il fatto personale, in quanto riguarda tutto il trattamento in uso nelle carceri. In alcuni stabilimenti, la nuova concezione della pena rieducativa e umana, prescritta dalla Costituzione, comincia ad essere applicata. In altri luoghi, come a Volterra, siamo ancora ai tempi borbonici, la pena è sadismo e crudeltà, afflittiva e distruttiva, quindi chiaramente illecita. Non siate conniventi con la consumazione di tale illegalità.
Nell'appellarmi a codesta Corte su questo argomento, trovo motivo e conforto nelle dichiarazioni fatte l'anno scorso, in questa sede, dal procuratore generale e dal signor presidente, allorché respinsero la nostra istanza di incostituzionalità della pena dell'ergastolo, proprio rifacendosi alle nuove concezioni sul trattamento penale. Da queste vantate finalità educative e umanitarie, la Corte trasse conforto per giustificare sul piano morale e umano una eventuale lunghissima condanna. E da questa chiaramente proclamata dalla Corte traggo conforto nel sollevare il problema dello stridente contrasto tra le suddette tesi e la realtà effettiva dell'inumana condizione dei detenuti di Volterra. Faccio presente che si tratta di un carcere di rigore e di punizione, cui sono stato assegnato dalle autorità, arbitrarietà, in quanto non ho commesso durante la detenzione atti tali da giustificare misure eccezionali contro di me. Carcere in cui io ed altri detenuti siamo sottoposti a privazioni insopportabili, a vessazioni inumane, che ricordano i lager nazisti, a continue provocazioni che portano a lunghissime permanenze nelle infami celle di punizione e isolamento, in cui l'esistenza è una lenta preparazione alla morte psicologica e fisica.
I pestaggi a sangue sono frequenti, da parte di un nucleo di guardie inviate a Volterra per punizione, scelte quindi tra i peggiori del corpo, le perquisizioni sono continue, ogni notte i detenuti vengono svegliati più volte, dall'ingresso nelle celle della ronda per la "conta"; a volte vengono organizzati a freddo veri e propri linciaggi, singoli e collettivi.
Tutto ciò porta ad uno stato di esasperazione e di tensione incredibile il detenuto. Moltissimi sono i casi di trasferimento al manicomio di Montelupo. Si è sempre sull'orlo della rivolta disperata. È il carcere in cui statisticamente vi sono più denunce e punizioni di ogni altro carcere in Italia. Tutte queste cose sono state denunciate parecchie volte, la magistratura locale si è già interessata della faccenda, ma per oscuri motivi nessun provvedimento è stato preso. Questa situazione è stata persino denunciata da Emilio Sanna nel suo libro "Inchiesta sulle carceri", e nessuno ha avuto il coraggio di smentire le sue precise asserzioni. Semplicemente, si preferisce insabbiare ogni cosa.
Per concludere, voglio citare l'ultimo esempio che dà l'idea del clima di sopruso, di illegalità, e di terrore esistente a Volterra. Per poter venire a questo processo, all'uscita dal carcere di Volterra, ho dovuto sottostare alla perquisizione anale. Atti simili hanno fatto scrivere fiumi di indignate parole agli autori di libri sui campi di concentramento tedeschi.
Mi appello a codesta Corte giudicante affinché voglia esaminare con serena coscienza quanto ho dichiarato, e di cui posso dare ampie prove e dimostrazione, e impedire che l'applicazione formale della legge, scada in una sostanziale violazione di ogni diritto umano. Indipendentemente dalla entità della condanna, chiedo mi sia concesso di scontarla in un carcere, non in un lager. Voi ne avete i mezzi e gli strumenti. Faccio presente che dopo questa mia denuncia, inviarmi a Volterra sarebbe come abbandonarmi alle eventuali vendette.

- Lettera di Sante Notarnicola.

Milano, 2 maggio 1971.
... Purtroppo ho lasciato a Volterra C. e D. alle celle di punizione, so che li hanno picchiati, anzi, ho saputo che D. era malconcio. Li hanno accusati di preparare una rivolta! Nel carcere c'era molto nervosismo perché erano giunti i trenta "rivoltosi" da Torino, alle due di notte li accolsero nel cortile e fattili spogliare completamente, le guardie li aggredirono picchiandoli ferocemente. Nella notte sentimmo le grida e i rumori delle colluttazioni, poi furono rigorosamente isolati. Dopo qualche giorno fui isolato anch'io, quindi nuovamente si scatenò la repressione sui miei compagni. Non ho seguito le cose da vicino, aspetto gli avvocati per vedere cosa si può fare. Anch'io dalla direzione, malgrado l'isolamento mi colpì prima dei fatti, fui accusato di essere tra i "capi" che progettavano la rivolta!

- Lettera di R. V.

Carcere di Pisa, estate 1971.
... Qui avevo un compagno di cella dal quale sono dovuto scappare per non impazzire io stesso: era completamente impazzito dopo le botte e l'isolamento di Volterra. Parla da solo, impreca contro la radio, passeggia continuamente in cella dove fa tre passi e poi ritorna, disegnando nell'aria segni strani e monotoni che ti giuro mi giungono fino al cuore. Siamo stati insieme più di una settimana, non mi ha mai detto il suo nome e mi rivolgeva la parola solo per chiedermi da fumare e ad ogni mio tentativo di approccio rispondeva a monosillabi così da farmi passare ogni voglia di comunicare. Vive in un mondo tutto suo e odia i meridionali, non a caso, poiché il direttore di Volterra si chiama R., meridionale, e il comandante B. C. è perugino. Questi nomi di veri aguzzini fascisti dovrebbero farsi sapere in tutto il mondo.
Notizie terrificanti, ti assicuro, quindici giorni di isolamento perché "ad udienza" dal direttore parlava gesticolando le mani. "Dalle mie parti [nel meridione] non si gesticola, si tengono le mani dietro la schiena". Celle, botte per niente. Perché stai sul culo al comandante, perché ti alzi a dire che il programma alla televisione è brutto. Pensa che si sono alzati in dieci a dirlo, sono stati presi, portati di sotto, riempiti di botte, il dottore, questa figura idillica di benefattore, si è fatto vedere dopo sei giorni. Uno aveva un ematoma sotto un occhio grosso come una pesca e il dottore ha avuto il coraggio di chiedergli se avesse sbattuto contro la porta. Questo dottore ha lasciato e fatto - minacciando lui stesso le botte e l'isolamento a coloro che gli rispondevano - morire un fracco di gente. Questo in una città con giunta comunista e il dottore è del PSIUP, credo che alla rivoluzione dovremo far saltare la testa a molti presunti compagni, anzi a questi per primi. Altro fatto, in cucina, per togliere l'acidità dalla pasta mettono del latte in scatola, i cuochi per intascare il latte hanno messo del latte avanzato dal mattino, naturalmente dolce, la pasta era immangiabile e quindici della lavorazione del pallone hanno fatto presente al brigadiere. Sono stati portati tutti nelle celle d'isolamento per venti giorni. Dopo l'isolamento sono stati portati tutti dal comandante il quale ha detto e insistito che la pasta era buona, naturalmente anche loro hanno dovuto dire di sì.
Annientamento totale della personalità. Potrei raccontarti un sacco di fatti umanamente, politicamente sconvolgenti. La gente in galera impazzisce, viene ammazzata, si uccide, ed è brava gente. Non parliamo poi del comportamento della magistratura, ti giuro, un mondo pazzamente assurdo, ed estraneo, sconvolgente nella sua cruda e bestiale realtà. All'inizio avrei voluto, ti giuro, sparire, ma non avrei risolto niente, come al solito ho iniziato una nuova battaglia con l'ambiente affrontandolo direttamente e cercando di non soccombergli. È come sapere delle stragi del Vietnam ed essere presenti ad una di esse, ti assicuro che c'è una diversità enorme.

- Lettera di N. D.

Milano, 23 novembre 1971.
Mi trovo in osservazione al centro clinico di Milano per aver tentato di impiccarmi e per aver ingerito due frammenti metallici in una cella di punizione al carcere di Genova (Marassi). Mi trovavo a Genova per il mio appello che mi è stato confermato anni tre e sedici mesi, scontati maggiormente al carcere tanto discusso e più volte denunciato, senza nessun esito positivo, che fa ribrezzo ad uno stato come si definisce il nostro stato "democratico": "Volterra". Mi hanno detto al carcere di Genova subito lo stesso giorno dell'appello: domani tornerai a Volterra. Feci un anno a Volterra, non ero andato là per punizione, ho chiesto più volte il motivo per il quale io dovevo scontare la mia pena in un carcere di punizione. Il direttore R. e il comandante B. non mi diedero mai una risposta logica. Parlai più volte con il dottore ed il neurologo dottor L. Loro sapendo il mio stato fisico e psichico, non fecero nulla per me aiutare a uscire da quell'inferno.
Se volevo uscirne l'unica soluzione per loro era quella di suicidarmi. Parlai di questa mia ossessione di Volterra con il sostituto procuratore della repubblica dottor T. (di Genova). Naturalmente Volterra è sempre coperta: ma da chi?... (dai fascisti?...) come risulta l'Italia è un paese democratico, allora perché queste coperture ripugnanti ed inumane ed incivili? Vi dico cosa è Volterra in queste mie poche righe, e cosa ci fa commettere e come ci riduce...
Arrivai a Volterra un inverno, appena entrai in quella fortezza mi ricordai i detti film di campi di concentramento, io sono un ragazzo molto emotivo e malato dalla nascita, così ebbi subito un trauma psichico, e nessuna persona cercò di tirarmi fuori da questo trauma. Mi fecero spogliare nudo in una cella che sembrava un frigorifero, mi diedero dei vestiti inindossabili, da talmente larghi e anche rotti, un paio di scarpe paragonabili ad un paio di scarpe da tortura medievale: dure ed incamminabili. Io mi chiesi: mi porteranno la famosa palla di ferro al piede e mi porteranno in una segreta fino alla fine dei miei giorni (notare che ero ancora da essere processato). Mi portarono in una cella sotto terra, umida, fredda, grigia, e tutte quelle bestioline per non parlare poi dei cugini scorpioni che uscivano da tutte le parti dei muri. Erano la mia unica compagnia. Ero terrorizzato, sotto shock, a volte mi chiedevo se era realtà dell'anno di grazia 1971, piangevo molto, non mangiavo nulla, non riuscivo più a muovermi dal mio letto, mi mancavano le forze. Il freddo pungente della cella mi impediva di alzarmi dal letto. Nessun interessamento per me, potevo morire, li avrei fatti felici, così mi dissero, dopo che io chiesi che avevo bisogno di cure, e di essere messo in un posto più adeguato alla mia salute.
Una mattina mi chiamò il comandante B. per parlarmi, invece a parlare lui mi fece parlare a me, io gli dissi come avevo tenuto presente della mia malattia e del mio stato psichico ai dottori L. e [...]. Lui mi rispose che dovevo rimanere lì per tutta la mia carcerazione e che se volevo andare via da Volterra dovevo rivolgermi a qualche conoscenza importante, oppure di trovare una via d'uscita. Dopo questo colloquio con il comandante B. persi tutte le mie speranze e la voglia di vivere.
Volterra per me era la mia tomba.
Nemmeno all'aria andavo, perché mi sembrava un pollaio, da talmente piccolo era, c'erano persino le reti sopra, se no le galline volano.
Mi hanno sepolto vivo in quella cella della morte.
Parlai ancora con i dottori e minacciai di fare una regolare denuncia ed inoltre avrei fatto venire il dottore dall'esterno a mie spese per farmi curare, se non mi davano loro un'assistenza umana. Così passarono i giorni, peggioravo ancora di più, finché videro che non stavo più in piedi e mi misero in infermeria e mi fecero una minima parte di quello che il mio stato fisico avrebbe richiesto.
Nulla era cambiato solo la cella e basta.
Tutti i giorni dovevo subire umiliazioni da parte delle guardie e cose che mi vergogno a dire in pubblico, ma se qualcuno mi darebbe garanzie sufficienti per proteggermi io allora griderei i nomi dei criminali di tutte quelle cose che mi hanno fatto (dato la mia persona piuttosto effemminata). La notte venivo più volte svegliato e terrorizzato per quelle finte perquisizioni nonché spesso da urli inumani e di terrore di qualche mio compagno come B. G. ed altri che venivano massacrati in quelle segrete maledette. Le urla facevano eco da tutte le celle dato la costruzione vecchia di quel castello dei Medici. Sembrava un incubo di un giallo; mentre questo succedeva, altri due ragazzi (F. R. - che già era stato interrogato dal giudice di Pisa in Pisa -, M. V.) tentavano di suicidarsi ingoiando frammenti di lamette da barba, per poter sfuggire a quei atroci pestaggi.
Povero me come sono rimasto shoccato i miei amici non mi riconoscono più. Non ho più coraggio di vedere i miei genitori, e li tengo lontani da me, perché io li amo e non voglio spiegarli tutto questo dramma, che per loro specie per mia madre sarebbe la morte. Stento a vivere con tanti complessi che mi hanno imposto in questa carcerazione, e la mia mente ricorda sempre tanti episodi di orrore e paura che credo mi seguiranno fino alla mia tomba.
Ci sono tanti testimoni che se amano la verità come la giustizia, che certamente non potranno dimenticare quello che hanno subito dopo la famosa rivolta di Torino i giunti in trasferta a Volterra. Non potranno dimenticare, e non si potranno tirare indietro a non denunciare i fatti realmente accaduti: pestaggi a non finire, umiliazioni, privazioni ingiuste, eccetera.
Io spero che di fronte ai fatti firmati l'opinione pubblica non sia cieca e muta.
Non credo di ritornare a Volterra comunque sono disposto a tutto, e lotterò per questa causa giusta. Il mio sacrificio sono sicuro che servirà per la giustizia dei miei compagni che si trovano nelle stesse mie condizioni.
Comunque vadano le cose il mio avvocato ha copia di questi miei scritti e sa di tutti i fatti successi.

- Lettera di C. R. - Centro clinico di San Vittore.

Milano, novembre 1971.
A Poggioreale si pativa la fame, e alla fame c'era da sopportare inoltre un rigore da campo di concentramento di tipo nazista. Alle celle di punizione, per dare un esempio, fui legato sul letto di forza e malgrado dei dolori acutissimi che mi presero allo stomaco non fui visitato da nessuno, né fui slegato. Fui slegato il giorno successivo grazie a qualche santo. Dico grazie a qualche santo perché di solito a Poggioreale in quel periodo uno che veniva legato ci restava minimo tre giorni. Mentre mi legavano ridevano e tiravano le fasce più che potevano.
Il vitto da porci immangiabile, i secondini che trovavano gusto a istigare e oltraggiare fino a quando uno non scoppiava. Veniva quindi portato al palazzo di vetro, così era chiamato il padiglione in cui erano le celle di punizione e i letti di forza. In questo posto le botte erano all'ordine del giorno. All'aria a Poggioreale ci facevano andare una volta al giorno per meno di un'ora.
Di questo passo si arrivò al luglio 1968 mese in cui pieni di rabbia ci si rivoltò incendiando e rompendo tutto ciò che ci si parava davanti. Dopo la rivolta in trenta, io compreso in questo gruppo, fummo spediti con un viaggio di trenta ore senza scali in Sicilia e precisamente nella casa penale di Noto. Fui mandato poi nel penitenziario della Favignana.
Favignana è come Volterra, ti può accadere di tutto. A Favignana mancava l'acqua persino. L'acqua potabile veniva irrorata due-tre volte al giorno. C'erano i componenti maschi di intere famiglie che facevano servizio in quel carcere. Se diventavi antipatico a una di queste guardie dovevi poi vedertela con il fratello e con il padre appuntato. Di questi nuclei familiari ricordo quello dei R. e quello dei M.
Il caldo opprimente, la gola secca per mancanza di acqua, si dovevano vedere le guardie sulle nostre teste in una mano la radio transistor e nell'altra una bottiglia sempre rinnovata di acqua minerale ghiacciata. Il programma radio con la scusa della radio di nostra dotazione rotta ci veniva fatto ascoltare quando il direttore era comodo. Il vitto decisamente oltre che essere schifoso non era tutto quanto ci spettava. Disciplina da campo di concentramento e il comandante che si chiama C. con le sue manie sadiche. Infatti quel comandante aveva e credo ha ancora l'abitudine di picchiare personalmente le sue vittime. Le vittime sono di solito detenuti che non si adeguano alle sue imposizioni. Bastava poco per essere legati a Favignana e il modo borbonico di legatura era il seguente: niente fasce ma bensì ai polsi venivano applicate delle manette da carabinieri in traduzione. Ai piedi una tavola di legno con i buchi per le caviglie. Il collo veniva quindi fissato con una gogna vera e propria. Su quel letto un mio amico e altri poveri sventurati hanno dovuto sopportare alla mania sadica del C. il quale era solito di notte recarsi a picchiare con un tubo di gomma e la cinghia la vittima di turno.
Finalmente un giorno in quel carcere venne il giudice di sorveglianza che era nuovo in sostituzione del titolare. Io colsi l'occasione per denunciare quanto qui sto raccontando. Altri compagni denunciarono le violenze subite da parte delle guardie. Fummo portati tutti alle celle di punizione all'insaputa del giudice, il quale fu poi avvertito da un nostro compagno. Grazie a questo compagno fummo fatti uscire dalle celle e separati fra noi. Nei giorni successivi le guardie si dimostrarono in tutta la loro cattiveria istigandomi tutti i giorni, provocandomi ogni momento. Cercavano il pretesto e dopo cinque giorni lo procurarono di sana pianta.
Infatti inventando e travisando alcune mie parole, qualcuno riportò al comandante il quale mi fece prelevare e circondatomi da una ventina di guardie che mi aspettavano al varco mi insultò per una decina di minuti filati. Aspettava la mia reazione e il pretesto per farmi legare. Subii in silenzio le sue ingiurie e quindi senza mai fiatare per paura di quanto mi avrebbero fatto se avessi parlato mi lasciai condurre alle celle di punizione. Tremavo letteralmente dal terrore e fu così che trovai la forza di tagliarmi le vene del braccio con una mezza lametta che avevo tenuta in bocca per tutte quelle ore. Persi molto sangue ma alla fine il dottore per togliersi dagli impicci contro la loro volontà mi fece ricoverare all'infermeria del carcere di Trapani.
La nuova destinazione allorché partii da lì era Volterra. [...]. Quello che realmente è quel posto non credo sia possibile descriverlo con la penna. Quel posto va oltre ogni fantasia umana. È mostruoso; è sempre stato un inferno, infatti ho sentito parlare di quel luogo da vecchi detenuti e tutti dicono che i muri del Mastio di Volterra grondano sangue. Ricordo ultimamente prima che io fossi mandato al centro clinico di Pisa per cure, una volta arrivarono provenienti da Torino una trentina di detenuti. Erano stati smistati a Volterra dopo la rivolta nel carcere torinese. Udii gli urli di dolore di quei ragazzi che venivano picchiati nel cortile vicino all'ingresso. Dei detenuti fuggivano inseguiti dalle guardie. Uno di questi giovani M. L. mi raccontò, quando dopo un mese lo fecero uscire dalla cella, che erano stati picchiati selvaggiamente anche dopo il loro arrivo mentre erano stati già isolati alle celle. Le guardie, mi disse, bestemmiavano picchiando perché erano state consegnate in caserma causa il loro imminente arrivo. Un mio amico, D. è il suo nome, che udì a sua volta i torinesi che venivano picchiati, stette male una settimana e non voleva più uscire al passeggio. Ricordo poi che D. alcuni giorni dopo fu portato alle celle nei sotterranei perché non aveva salutato il comandante B. allorché questi presenziava all'invio al passeggio di noi detenuti. Restò alle celle una decina di giorni e mi disse che un ragazzo anche lui in cella aveva ingerito una molla della branda e che le guardie avevano fatto come niente fosse successo.
Ritornando ai torinesi, la notte del massacro che io mi ricordi B. L., N. D., E. di Torino udirono certamente e sono certo saranno disposti a confermarlo.
In particolare N. D., un bravo ragazzo, era terrorizzato per quanto aveva udito e so di sicuro che ne parlò ad una autorità.
B. L., un altro buon ragazzo, fu costretto a recidersi le vene grazie al disinteresse di quei dirigenti per il suo particolare stato psicologico. Ricordo infatti che era già sulle spine per le cose che accadevano in quel carcere. Avevano picchiato duramente certo R. B. qualche giorno prima e tutti avevano udito gli urli di dolore e le invocazioni di pietà. Il giorno che si tagliò avevano appena portato in cella di punizione un suo caro amico senza un motivo plausibile e questa fu la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Le sue parole: "meglio dissanguato che restare ancora a Volterra". Riguardo R. B., romano, so che dopo averlo picchiato lo legarono sul letto di forza nei sotterranei e dopo due giorni lo mandarono al manicomio di Montelupo Fiorentino. Anche questa è una tecnica molto spesso usata a Volterra. Picchiano e poi spediscono al manicomio lo sventurato. I segni delle botte, diranno, che se li è procurati da solo andando in escandescenza. Naturalmente denunciano anche il malcapitato per prevenire un eventuale azione del detenuto. La pretura di Volterra e il tribunale di Pisa pare una cosa sola con il carcere e perciò così come stanno le cose la giustizia la fanno sempre come meglio credono loro. A Volterra nel carcere c'erano due infermieri, uno in particolare C., se lo disturbavi perché ti sentivi male di notte era capace quando dopo un'oretta arrivava dirti che gli avevi rotto i c... Quindi ti dava una pillola e ti diceva a scanso di guai di non disturbarlo più di notte perché lui non era mica li a fare su e giù dall'infermeria. A me per es. malgrado la prescrizione medica, l'infermiere C. disturbava venire a farmi l'iniezione. Una volta infatti l'infermiere che me la faceva normalmente per qualche motivo non venne allorché io lo chiamai. Venne C. che mi chiese con fare provocatorio dove volevo arrivare. Non so cosa mirava, so solo che allorché mi era accaduto di essere picchiato come ho descritto ingerii un frammento di lametta ma solo il giorno dopo allorché mi ferii ad un braccio e inghiottii il manico del cucchiaio si decise a fare qualcosa e a farmi vedere dal medico. Ricordo anche che allorché ingerii il frammento di lametta ne avevo una altra parte ancora in bocca e che nell'intento di farmela sputare alcune guardie e due brigadieri mi picchiarono con pugni sulla nuca e sul collo. Ricordo benissimo il brigadiere I. e un altro brigadiere che di solito sta in direzione. Anche lui mi picchiò sul collo e gridava. Non era in divisa! Lo stesso brigadiere lo vidi all'opera quando una ventina di miei compagni furono portati alle celle nei sotterranei. Li avevano ritenuti i promotori di una azione di protesta che dicevano le guardie e il comandante B. doveva essere messa in atto. Io comunque so di certo che alcuni miei amici furono portati giù senza che avessero mai pensato a protestare. Sapevamo infatti che provarci equivaleva tentare il suicidio o giù di li. Alcuni furono picchiati perché chiesero il motivo di quella repressione.
Io ora sono qui a Milano ricoverato al centro clinico di San Vittore, sto male, urino unitamente a sangue. Questo male è comparso dopo che a Volterra fui picchiato e lasciato per delle ore in un sotterraneo e in pieno inverno. Come non bastasse una volta dimesso di qui dovrò far ritorno a Volterra. Più che ammazzarmi comunque non potranno fare. Mi consola che in quel caso almeno qualcuno saprà perché sono morto e chi sono stati i miei carnefici.

- Lettera di B. E.

Barcellona Pozzo di Gotto, 7 gennaio 1972.
... Tutto scarseggia, vitto, alloggio, aria e medicinali, per cui uno dopo un certo periodo se non ha l'aiuto della famiglia si ammala di certo. Marescialli, direttori, medici ed imprese, nonché gli aguzzini, fanno man bassa di tutto. Qui a Barcellona vengono rubati perfino gli indumenti personali che all'entrata vengono dati in custodia ad un agente del magazzino.
Parlando di disciplina, tutto deve essere accuratamente osservato ed accettato, mentre guai per chi sbaglia, perché non mancano mai celle d'isolamento, letto di contenzione ed altre torture, fino alle percosse. Dove vanno a finire i medicinali, il vitto e le altre cose che dà il superiore ministero? Tutto sparisce misteriosamente. Dovrebbero dare le lenzuola per il bagno e quando vengono chieste non ci sono mai. Ho visto gente accanto a me, malati e sani, che facendo il bagno e dovendosi asciugare e non avendo famiglia prendevano le stesse lenzuola su cui dormivano. Come non ammalarsi? Il vitto, che ti posso dire, addirittura o quasi marcio tanto che emana un fetore insopportabile. Gli alloggi, umidi, freddi e soprattutto sporchi. Ricordo una volta, e ciò accadde al carcere di Avellino, tre detenuti, un certo A. V., un certo R. ed un altro che non ricordo, sol perché reclamarono che il vitto non era adeguato (erano di commissione) furono impacchettati e spediti al carcere di punizione di Lecce. Insomma, per loro le cose devono procedere tutto a scapito del detenuto, altrimenti il ribelle a certi sistemi antiquati e borbonici è un pessimo elemento. Credimi, tra luogo e luogo non vi è differenza. Se ti dànno un po' di libertà, ti tolgono il vitto e viceversa. Poggioreale, Avellino, Barcellona, Noto, e l'isola di Favignana, ecc... tutti si eguagliano tra loro. Ho visto diversa gente ingoiare chiodi, autolesionarsi e cercare di impiccarsi per i troppi soprusi.
C'è il medico qui che quando fa le perizie si basa su quello che gli dicono i suoi confidenti, detenuti e guardie. Per loro non esiste valore umano. Per i colloqui poi non ne parliamo, ho visto gente pagare stecche di sigarette americane per avere un po' di conforto da qualcuno, non avendo famiglia. In taluni carceri, ti cestinano perfino la posta. Gli stabilimenti carcerari differenziano solo nel male, per esempio nella casa penale di Favignana ove sono stato due mesi circa, vi è un maresciallo che è un tipico dittatore, tanto che non esita a picchiare i detenuti sul letto di contenzione. Spesso in questi luoghi capitano casi di morte e per le percosse e perché vengono legati sul letto di contenzione senza essere visitati. Eppure è prevista una visita dal medico per accertare eventuali malattie che possono portare alla tomba. Di solito in questi luoghi succede che prima vengono legati e poi quando è comodo, il medico viene, ma per una visita frettolosa. Sono cose orribili che fanno impietrire dall'orrore. A Poggioreale come qui ci sono stati casi di morte, ma sono stati subito soffocati e arrestate le denunce, insomma non hanno avuto alcun corso, perché tutto questo?
Ora voglio dirti la ragione per cui mi trovo qui, e comincio dal carcere di Avellino, ove ero fino al 25 luglio. Lì, per la verità, me la passavo benino, dato che i miei familiari erano vicini e non mi facevano mancare niente... Ma con l'andare del tempo notai un sacco di cose che non andavano, poi una sera nacque la scintilla che fece traboccare il vaso. Chiesi infatti all'agente di servizio cortesemente se mi mandasse ad assistere ad una trasmissione televisiva, e questi non volle accontentarmi. Sì, non volle, perché in genere per questi piccoli favori si faceva ricambiare o con spiate o magari dandogli delle sigarette americane, e siccome allora non gli davo né l'uno né l'altro, gli dissi: va bene, grazie lo stesso. Dopo pochi attimi, però ci fu un altro che passò davanti a me e fu fatto entrare nella stanza dove era la televisione. La cosa mi indispose, anche perché precedentemente in più di una occasione avevo contribuito con le sigarette. Quella sera non ne avevo e così fui denunciato, perché nacque una discussione che degenerò in alterco violento. Ad un certo punto questo mi gettò le chiavi dei cancelli, fui colpito in più parti e risposi coi pugni. Totale: lesioni da ambo le parti, con la differenza che io fui denunciato e inviato alla casa penale di Favignana, a 1200 chilometri di distanza dai miei mentre egli, perché era un agente, non patì niente e continua a fare traffici di tutti i generi sfruttando tanti poveri derelitti, con la quasi consapevolezza dei suoi superiori che spesso non possono parlare, perché essendo in difetto, vengono ricattati. Dovendo andare alla Favignana fui aggregato al carcere di Poggioreale per pochi giorni, ma giunto lì e trovando il vitto in pessime condizioni, reclamai, senonché fui preso, percosso ed assicurato sul letto di contenzione per tre giorni. Dopo di che rimasi ancora per undici giorni alle celle di punizione, senza poter andare al passeggio per prendere una boccata d'aria.
Finalmente fui trasferito all'isola di Favignana, un antico castello in mezzo al mare, ove non ci abiterebbero nemmeno i gufi. Purtroppo, tanti poveri derelitti han dovuto trovare la forza di adeguarsi in luride catapecchie piene di umidità. Figurati che cadevano dal soffitto e dalle pareti strisce di intonaco, inabitabile al cento per cento. Eppure erano abitate. Riuscii a stare lì meno di due mesi, facendo la fila dal maresciallo e dal medico, dal direttore no, perché questi veniva solo quando c'era bel tempo da Trapani. Fatto sta che un giorno non ne potei più sia per il vitto che non era buono, sia per un'abbondanza di topi abbastanza grandi che ti facevano passare la voglia di mangiare, sia per l'aria umida, sia per il regime tirannico, un bel giorno salii su un tetto ed iniziai ad autolesionarmi, così che fui subito inviato al manicomio giudiziario di Barcellona per perizia.

- Lettera di M. C.

Alghero, aprile 1972.
Cari compagni,
sono stato ad Alghero. Questo carcere è qualcosa di più che una tomba per vivi, è una classica bara comune. Al mio arrivo in quel luogo notai visi spenti, personalità distrutte, uomini che non avevano più nulla di umano, automi, nient'altro che abulici automi, in un contorno paragonabile ad una galera spagnola dell'inquisizione Celle di punizione, privazioni, letti di contenzione e punizioni inflitte per un nonnulla, ecco quali sono i mezzi in atto nella casa penale di Alghero, il cui direttore C. ed i marescialli, P. e L., hanno creato un clima di terrore e di insopportabile vita nello stabilimento.
Ad Alghero la vita è insopportabile: due sole ore di aria al giorno, il resto della giornata devi trascorrerlo là, in un'angusta cella, solo, limitato anche l'ascolto delle trasmissioni radiofoniche, coi programmi continuamente censurati. Non appena viene trasmessa una notizia che riguardi l'ambiente carcerario, addirittura delle discussioni sulle proposte prese in esame dal parlamento sulle varie riforme, sia carcerarie che dei codici, anche in quei casi la radio viene abbassata di volume per non lasciare ascoltare ciò che viene trasmesso. Non vi sono spettacoli televisivi; gli apparecchi televisivi pur essendo stati installati, per volontà del ministero, il direttore C. si oppone strenuamente per non consentire la visione degli spettacoli.
Mi furono tolte fotografie, libri, persino quelli sportivi; ognuno di noi non poteva tenere con sé né un fornellino a gas come è ormai consuetudine in molti penitenziari, né una macchinetta per fare il caffè, nemmeno l'accendino era consentito, tanto che molti dei fumatori più accaniti erano soliti tenere una fiammella sempre accesa, si trattava di uno stoppino immerso in un po' d'olio.
Le punizioni e le restrizioni erano così al massimo stadio, oltre tutto bisognava stare attenti a non sbagliar parola, altrimenti, venendo malamente interpretata, poteva causare una punizione terribile, con vitto ridotto, pancaccio, e tanto di bugliolo per un paio di mesi.
Le celle di Alghero sono delle più piccole che abbia mai veduto, forse un metro di larghezza, per uno e cinquanta di lunghezza, un pancaccio in legno; ed una porta di entrata talmente bassa da doversi chinare ogni volta che vi si entra, insomma una specie di pollaio, o tana per maiali.
Nel grande cortile al centro del carcere, dove ci si potrebbe installare comodamente un campo sportivo per la serie A, non sono ammessi i detenuti, perché le finestre della abitazione del direttore C. si affacciano su di esso, e per lui è sconvenevole che dei poveri ragazzi prendano un po' di sole dopo aver fatto ben venti ore di buco.
Così i cento e più detenuti della casa penale di Alghero vengono nuovamente rinchiusi in un angusto cortile, dove non entra mai un raggio di sole, e quando piove si rientra tutti fradici dato che non vi è nemmeno una tettoia dove ripararsi dalla pioggia.
Un giorno sentii delle urla spaventose, come se stessero seviziando qualcuno, esse venivano dal piano terreno, dove vi sono le celle e i letti di contenzione. Seppi che avevano legato un compagno, un ragazzo del luogo, questo perché si era rifiutato di prender cibo, non ce la faceva più ed aveva chiesto il trasferimento, io stesso avevo fatto l'istanza, ma regolarmente C. non gli aveva trascritto il parere favorevole, onde poter ottenere il beneficio ministeriale. Lo rividi qualche tempo dopo molto abbattuto soprattutto terrorizzato, non osava nemmeno parlarmi di ciò che gli era successo, infine dopo molte insistenze, in un angolo del cortile, abbassandosi i calzoni sino alla regione inguinale mi fece notare due grossi buchi, mi disse che lo avevano torturato, il maggior artefice era stato il dottore del carcere, alla presenza del maresciallo, la scusa era quella di sondarlo, dato che lui si era rifiutato di mangiare, ma è chiaro che non si sondi un uomo in quella maniera, dopo due soli giorni di digiuno, oltre tutto, non mi consta che si debbono usare degli aghi così grossi per una operazione del genere, ed in una zona così delicata quale è quella del basso ventre.
Fatti come questo ne sono avvenuti parecchi, le privazioni e gli abusi non si contavano più finché un giorno alcuni ragazzi stanchi di quei soprusi, salirono su di un basso edificio, chiedendo aiuto ai passanti nella retrostante via e invocando l'intervento di un magistrato.
La cosa ebbe effetto, e ben presto accorsero giudice, polizia e carabinieri, il C. però volle sfoggiare, quando tutto era ormai calmo, il suo sadismo repressivo imbracciando un grosso idrante, ci innaffiò tutti nel cortile dove sostavamo, con un potente getto d'acqua.
Fui trasferito, per motivi di disciplina.
Un giorno mi recai ad udienza per chiedergli il perché non mi consegnasse giornalmente il quotidiano "La Stampa", ero costretto a leggere sempre il giornale del giorno prima, mi lamentai anche delle condizioni pessime in cui vivevamo, e lui mi rispose così: "Il giornale debbo censurarlo personalmente, per quello che mi chiede, miglioramenti, eccetera, cosa volete, che vi compatisca e vi dia la caramellina...?" È perfettamente inutile fare dei commenti su di un simile individuo.
Uomini come C. debbono essere defenestrati, per non creare di un carcere un lager nazista.
Con la mia avversione a tutto quanto viene fatto arbitrariamente ai detenuti compagni, e mi associo alla unanime e collettiva protesta per lo sdegno.
A pugno chiuso.

- Lettera di A. D. - Manicomio giudiziario.

Napoli, 27 luglio 1972.
Carissima, trovomi dal giorno 4 c. m. ospite dell'istituto sopra indicato che dietro le apparenze nasconde un inferno di cui sono stato, e lo sono tutt'ora, oggetto, e non potrai mai immaginare le ore di profonda angoscia ed amarezza che sto trascorrendo. È la seconda volta che vengo a trovarmi in questa sede, e sempre fui oggetto di strane attenzioni da parte del direttore G. R., e come tu sai nel '69 mi sequestrò il mio manoscritto e che poi in seguito ne scrissi un altro. Ora trovomi assegnato come minorato psichico, una minorazione fatta per il loro utile. Trovomi isolato dal giorno in cui giunsi in questa sede: mi si dà una sola ora di aria con sorveglianza esagerata, mi provocano in tutti i sensi; giorni fa per aver rifiutato di cambiare cella per un'altra, fui preso da circa venti guardie e legato sul letto di contenzione, ove vissi nello spurgo del proprio corpo e nei suoi nauseanti miasmi, stretto allo spasimo per ben nove giorni; tutto ciò per aver disubbidito ad un cambiamento di cella onde evitare di andare nell'altra che era in uno stato abominevole. Durante il periodo di coercizione, con la carne straziata da fasce, con la mente lucida, dovevo anche assistere alla abietta opera di un piantone che andava a masturbare gli ammalati che trovansi legati, e ciò non basta, ti dovevi accontentare di essere imboccato, cioè dato da mangiare, da questi ributtanti figuri, che davano anche degli schiaffi a poveri elementi legati. Tutto ciò lontano dall'occhio dell'agente di servizio, che in fede affida tutto a quel piantone detenuto.
Il vitto è immangiabile, e di quel poco che di diritto dovrebbero dare non se ne riceve che l'infinitesima parte.
Il sopravvitto che l'impresa vende ha i prezzi elevati che superano quel tasso che il ministero impone. In più portano i generi più scadenti e tutto a distanza di giorni dal giorno in cui si segnano tali generi. Ogni reclamo è inutile, poiché si vien presi e legati. Tutto ciò perché in questo istituto la corruzione giunge al suo massimo superando tutti gli altri istituti manicomiali. Il professore titolare G. R. è il capostipite di questa macchina interna tanto divoratrice ed essendo che l'impresa gli fornisce ogni genere senza nulla richiederne, di conseguenza ci si deve assoggettare ad ogni abuso che l'impresa fa sul povero ricoverato.
Ed ogni reclamo che l'ingenuo ricoverato pone al G. R. viene soffocato con minacce di sospensione di pena, se condannato; se giudicabile, sospensione di giudizio (e quindi prolungamento a tempo indeterminato), e se tutto ciò non basta a renderlo passivo, allora si giunge alla conclusione materiale, cioè lo si lega.
Questo direttore psichiatra è un mostro dal volto umano, un individuo che conobbe la frustrazione ed il fallimento e lontano dall'occhio della società su povere carni inermi egli sfoga i suoi istinti e gusta così quel potere che non ha per sentirsi uomo mentre non lo è. Forse la causa del suo odio per me è che egli mi attribuisce l'origine di una lettera che io feci la prima volta che fui ospite di questo istituto nel '69 sotto la sua direzione ed in quella lettera gli descrissi come era e come l'ho descritto anche a voi. Ed ecco che oggi dà sfogo ai suoi risentimenti facendosi arma del mio passato burrascoso, ed avvalendosi del potere ed in più del titolo di psichiatra, vorrebbe annullare la mia personalità, con ordini repressivi e disumani. Ieri fui condotto a colloquio con mio fratello e mia madre, ben circondato da secondini: una quindicina di minuti di colloquio ove neanche potevo abbracciare quella mia povera mamma che da molto tempo non vedevo come anche mio fratello, poiché ero diviso da una rete metallica.
Potete immaginare quanto profondo sia stato il dolore e gridando inveii contro questo bastardo che con quest'ultimo suo ordine raggiunse il massimo della sua mostruosità umana e dell'abuso di potere. E vedere mia madre piangere e disperarsi accese in me un odio profondo. Perché? mi domandavo, cosa gli ho fatto per essere trattato così? Pensa ai tanti ammalati che vivono fuori dallo spazio e dal tempo; ma credo che essi siano più felici, poiché vivere in coscienza in così triste realtà diventa un incubo. Ora è doveroso descriverti il locale e i ricoverati di cui una parte sono delatori e l'altra raccomandati; gli altri sono ridotti ad automi per il ricatto di poter stare vicino alla famiglia e anche questi rappresentano la roccaforte del direttore G. R. che nelle passate inchieste ministeriali hanno smentito le voci dei propri compagni portando al settimo cielo "l'umanità del direttore" e di conseguenza, ora egli non teme più nessuno. Solo questi particolari detenuti vivono bene.
Stanno cercando di convincere i miei familiari, dicendogli che io a causa del passato devo dimostrare buona volontà, ma come potrei mai? Venendo trattato da persona incivile?
Aiutatemi, vi prego, sto trascorrendo giorni infernali privato di ogni giustizia. Aspettano da me una reazione violenta per poi potersene fare un movente per i loro delitti legali ma io cercherò di far prevalere la mia intelligenza, ma fino a quando? Sono sottoposto ad uno stress disumano. Starò chiuso giorno dopo giorno con una sola ora d'aria, con la continua minaccia che di me possono fare quel che vogliono, cioè legarmi, fermarmi la condanna; è vile approfittarsi o farsi scudo di un passato di violenza generata da questi trattamenti.
Mi affido a voi tutti, non mi abbandonate, date subito atto tramite la stampa di questa denuncia. Vorrei dirti ancora tante cose; purtroppo l'animo è troppo sconvolto da questi ultimi eventi. Termino, aiutatemi, questo solo vi ripeto ancora, io non posso più scrivere...
Seguono quattro firme.

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