LA SCUOLA.
- Lettera del professor E. N.
Volterra, 15 ottobre 1971.
Premetto che non sono insegnante "interno" in servizio presso il carcere di Volterra, ma insegnante di ruolo presso il locale istituto tecnico commerciale. In tale qualità fui avvicinato lo scorso anno dal direttore del locale carcere per la proposta di tenere un corso di lingua inglese, bisettimanale, naturalmente non retribuito, per alcuni detenuti. Accettai, e come me, altri insegnanti di francese e di tedesco. Questi ultimi abbandonarono ben presto l'impresa vista l'impossibilità di una continuità didattica a causa dei frequenti trasferimenti degli allievi ad altri istituti di pena, a causa delle forzate assenze per misure disciplinari (isolamento in celle di rigore). Per testardaggine e onor di impegno, io volli continuare fino in fondo, ma le confesso che ben difficilmente ripeterò l'esperienza quest'anno, per lo meno in questo tipo di carcere locale (che è uno dei più tristemente famosi in Italia). Gli allievi sono scelti dalla direzione, ritengo in base a criteri di merito (disciplinare). Ottenni anche che per la lezione di inglese anche coloro che erano isolati per infrazioni non gravi venissero temporaneamente condotti in aula. Questa consisteva in una cella doppia, munita di sei banchi scolastici, una cattedra ed una lavagna e, cosa molto importante per il periodo stagionale e l'ambiente del resto del carcere, anche di una stufetta elettrica. Il materiale didattico consisteva in libri di testo acquistati a spese della direzione ed imprestati agli allievi che erano tenuti a restituirli alla direzione a fine corso (o qualora per qualsiasi motivo dovevano interrompere la frequenza al corso). I miei rapporti con i detenuti allievi del corso sono sempre stati improntati a una naturale umanità e comunicatività, e ciò facilitato dal fatto che per i primi mesi non era presente in aula alcun agente di custodia in funzione di controllo, ma veniva semplicemente chiusa la porta di ferro dell'aula-cella, e i controlli si effettuavano saltuariamente da parte dell'agente di custodia attraverso lo sportellino di spia.
In seguito, per motivi a me ignoti, venne sempre inviato un agente in aula e ciò naturalmente raffreddò notevolmente l'atmosfera della lezione. Altro materiale didattico consisteva in un mio mangianastri e in un registratore che, con l'autorizzazione speciale concessa dietro mio interessamento dalla direzione, circolavano in giorni rigidamente fissati dalla direzione nelle celle degli interessati allo scopo di fare esercitazioni di ascolto e di pronuncia sulla base di nastri magnetici che erano di corredo al testo. Altre attività culturali consistevano in ascolto radio-T.V. in ore prestabilite e programmi prescelti dalla direzione, visione domenicale di film in apposita cella-uditorio, mentre l'attività sportiva, consistente in partite di calcio nel cortile interno del carcere, mi risulta da molti anni sospesa per motivi di ordine interno. La censura attiva sia in entrata che in uscita sia sulle corrispondenze private che sulle pubblicazioni. A D., ad esempio, venivano razionati i libri che gli giungevano dall'esterno in lettura, in ragione di uno per settimana e non di più. Tutte queste sono disposizioni che variano da carcere a carcere a seconda del direttore e dei suoi intendimenti. Altro personaggio importante in ogni carcere è il comandante (un militare di carriera del personale di custodia) poiché dal suo esempio dipende il modo con cui gli agenti trattano i detenuti. Se il comandante è disposto a chiudere uno o anche due occhi su certe violenze e soprusi ai danni dei detenuti da parte del personale, allora anche gli agenti sanno di aver mano libera; altrimenti (come ad esempio mi risulta sia a Porto Azzurro nell'Elba) anche gli agenti rigano diritto e non si approfittano dei loro poteri.
In quanto all'insegnamento "ufficiale", questo si limita (salvo pochi casi di carceri eccezionali) al solo corso della scuola elementare e, a quanto ho saputo confidenzialmente da alcuni detenuti del carcere di Volterra, qui almeno è un insegnamento pro forma, senza alcun contenuto formativo condotto per giustificare lo stipendio (statale) dei maestri incaricati, ma senza spirito educativo e senza grande serietà didattica. Spesso, mi hanno detto alcuni detenuti, le lezioni consistono in brevi chiacchierate sul più e sul meno, che lasciano il tempo che trovano e non dànno alcuna forma di vero apprendimento. La possibilità di trascorrere una piccola parte della giornata in ambiente riscaldato durante il periodo autunnale e invernale (molto rigido a Volterra) può essere uno dei motivi determinanti della frequenza. Per quanto riguarda poi le mie idee personali sul come dovrebbe attuarsi un serio programma educativo e di istruzione negli ambienti carcerari, credo di poter affermare che il primo requisito sarebbe quello di un personale insegnante specializzato e dotato anche di una preparazione sociologica adeguata mentre accade purtroppo spesso il contrario, e cioè si ha l'impressione che si rimedia con un personale spesso inferiore qualitativamente alla media. E poi anche il problema dell'istruzione andrebbe inquadrato in un più vasto piano di riforma dato che molti ambienti sono marci non soltanto nelle mura che trasudano umidità ma soprattutto negli uomini preposti ai vari servizi di custodia. A mio avviso, non si può certo pretendere di "rieducare" un essere umano ad una maggiore coscienza sociale privandolo e mutilandolo nei più elementari diritti umani. Nella grande maggioranza dei casi, se, come credo, le carceri italiane sono dello stampo di quello di Volterra l'unica forma di istruzione veramente raggiunta con l'ordinamento attuale è quella di una maggior socializzazione criminale, cioè le carceri di oggi funzionano con paurosa efficienza come "scuole del crimine". E non saranno certo i cosiddetti patronati a poter dare al detenuto tornato a vivere quella formazione e quella assistenza morale che dovevano essere fornite a tempo debito in carcere durante il periodo della detenzione. Praticamente invece il detenuto è moralmente abbandonato in mano di altri uomini appena un gradino più in su come capacità morali e sociali.
Basterà che lei dia un'occhiata alle paghe non soltanto dei detenuti nelle varie loro mansioni interne, ma anche a quelle degli agenti di custodia, quasi tutti provenienti da famiglie povere e socialmente molto arretrate, che per queste loro condizioni sono costretti ad accettare come fonte di vita un lavoro che richiederebbe invece una ben più profonda preparazione e selezione.
- Lettera di M. Z.
Porto Azzurro, 5 settembre 1971.
La scuola nelle carceri italiane, non si può certo dire che abbia raggiunto quel livello di completezza e di istruzione utile ai giovani detenuti che vi sono ammessi a frequentarla.
Innanzitutto è molto difficile poter essere ammessi a detti corsi (li definisco così in quanto si tratta più che altro di corsi e non di scuole vere e proprie), i quali si svolgono in determinate carceri, in quanto taluni di questi corsi sono finanziati da grosse industrie, ad esempio nel carcere delle Nuove di Torino, vi sono i corsi per elettricisti finanziati dalla Fiat, ed i corsi di radiotecnico finanziati dalla Rai. Per essere ammessi bisogna innanzitutto superare un esame di ammissione, spesso però sono i raccomandati che riescono ad essere i prescelti, io lo frequentai, per un solo anno dato che già avevo le basi dell'elettrotecnica, ma fui mandato via nel giugno 1968, a causa di una sommossa.
In altri stabilimenti come Perugia, Ancona, Alghero, vi sono corsi di abilitazione tecnica, ma certamente il fattore che contribuisce alla non riuscita allo studio da parte dei frequentanti è l'ambiente nel quale essi si trovano; infatti, come può un giovane dedicarsi allo studio di una pur difficile materia, se ha giornalmente il costante pensiero di dover affrontare un procedimento penale, che gli può costare il più delle volte dieci o venti anni di carcere. Comunque il più delle volte non si riesce quasi mai a terminare gli studi, vuoi per una sanzione disciplinare che spesso si conclude con l'esonero dal corso, vuoi per una sommossa, vuoi per un trasferimento ministeriale che ti assegna in un altro stabilimento carcerario, vuoi per qualsiasi altra incombenza che fa sì che tutto ciò che avevi iniziato vada a rotoli. In media nei vari corsi annuali, su quindici-venti allievi solo quattro o cinque riescono a conseguire la licenza o l'attestato della scuola.
Vi sono anche le scuole elementari e medie, esse servono soprattutto, le prime per analfabeti, le seconde per quelli che vogliono migliorare la loro cultura, e rinfrescare la memoria. Dovrebbero invece essere l'anticamera di uno studio che porti al diploma invece non è così in quanto, ben difficilmente, lo studente delle medie riuscirà ad essere trasferito in uno stabilimento ove potrà diplomarsi geometra o ragioniere. Il caso sporadico del compagno B. qui a fianco a me, è senza dubbio uno dei più rari, egli è riuscito sì a raggiungere Alessandria, dove c'è l'istituto per geometri, ma va considerato, che ci sono voluti ben dieci anni di richieste, istanze al ministero, e raccomandazioni varie, prima di poter giungere al penitenziario alessandrino, ove vi è rimasto per tutta la durata degli studi, senza contare però che, vuoi per sfortuna o per siluraggio, fu mandato via alla vigilia degli esami, senza poter conseguire il diploma, cosa che poi egli ha fatto in altra sede, facendo venire la commissione dei professori, su sua richiesta. Con questo altro caso si ha conferma della traballante situazione della scuola nelle carceri, il tutto perché non vi è un regolamento preciso che stabilisca con esattezza quali siano i diritti e i doveri del detenuto studente.
Con la futura riforma carceraria si dovrebbe raggiungere se non altro almeno un minimo di miglioramento per ciò che concerne lo studio del detenuto, io comunque ne dubito, in quanto la riforma allo studio alle camere, e già approvata frettolosamente dal senato, è ormai superata, superata nel senso che è ancora un vecchio progetto dell'allora guardasigilli Gonella e quindi molto rappezzato, erano 191 articoli, e sono stati ridotti a 91, abrogandone ben 100.
All'art. 6 leggo: "Negli istituti penitenziari, la formazione culturale e professionale è curata mediante l'organizzazione di corsi della scuola d'obbligo e di corsi di addestramento professionale, secondo gli ordinamenti vigenti e con l'ausilio di metodi adeguati alla particolare condizione dei soggetti.
L'istruzione primaria è obbligatoria per gli analfabeti.
Particolare cura è dedicata alla formazione culturale e professionale dei detenuti di età inferiore agli anni venticinque.
Con le procedure previste dagli ordinamenti scolastici possono essere istituite scuole di istruzione secondaria di secondo grado negli istituti penitenziari.
È agevole il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati.
È favorita anche, con opportune iniziative dell'amministrazione, la frequenza a corsi scolastici per corrispondenza, per radio, per televisione, quando ciò sia possibile e non risulti in contrasto con le esigenze della disciplina e della sicurezza.
Gli istituti penitenziari dispongono di una biblioteca fornita di libri e di periodici a contenuto informativo, istruttivo, educativo, e ricreativo, dei quali deve essere favorita la lettura.
A tal fine deve essere assicurata la libertà di scelta delle letture e deve essere concessa, quotidianamente adeguata, disponibilità di tempo".
Con ciò l'art. 6 lamenta una incompletezza, specie nella facoltà di concedere questo o quello, creando così una diversità di possibilità da un istituto all'altro, come purtroppo si verifica oggi nelle carceri italiane.
Ad esempio in uno stabilimento un detenuto è autorizzato a frequentare un corso per corrispondenza (prendiamo come esempio il corso radio) il direttore del carcere dove il detenuto X si trova lo ha autorizzato agli studi, ed egli ha acquistato con i propri risparmi, o con i risparmi della mercede, le dispense di studio ed il materiale per costruire la radio e gli strumenti necessari. All'improvviso il detenuto in questione viene trasferito, per un qualsiasi motivo; nel carcere dove andrà ben difficilmente riuscirà ad avere il permesso di continuare gli studi, di poter acquistare le dispense di studio e di usare la corrente per le prove, gli strumenti, ed il saldatore a stagno.
Ne conseguirà la più anacronistica disposizione impedendogli di conseguire soprattutto l'attestato di studio, dopo tanti stenti e fatiche.
Cosa fare a tale proposito? I legislatori dovrebbero ormai comprendere che non si può continuare a fare delle leggi sulla "facoltà" di permettere questo o quello a discrezione della direzione dello stabilimento, bensì sfornando delle leggi precise con degli articoli ben determinati, con un regolamento unico ed identico per tutti gli stabilimenti italiani.
Un'altra lacuna è la "mercede" che viene corrisposta allo studente detenuto, essa è scarsa e non è sufficiente a sopperire alle più impellenti necessità, essa va dalle 5000 lire alle 10.000 circa, assai modesta se si pensa all'attuale costo della vita ed i continui aumenti, perché contrariamente a quanto si crede, in carcere il sopravvitto, la frutta, eccetera, costa come fuori o più, compresi i tabacchi, che dovrebbero avere una tariffa speciale per i detenuti ed i militari essendo generi di monopolio.
Ma è evidente che tutto nelle carceri italiane va radicalmente riveduto, non basta una semplice riformina per cambiare le condizioni, diciamo così, disastrose dei detenuti; come si può pretendere che questi si abilitino allo studio con tutti gli impellenti bisogni, se è vero che "mens sana in corpore sano"? La debilitazione carceraria non permette un fisico veramente agguerrito, lo dimostra il fatto che al minimo malanno decine di detenuti si mettono a letto, la recente influenza ha costretto a letto l'80 per cento di noi. Ciò è dovuto alla fragilità del fisico mancante della necessaria aria e dei cibi non idonei al fabbisogno giornaliero di vitamine e proteine.
- Lettera di A. Q.
Parma, 19 agosto 1971.
... Sì, la scuola esiste, ci sono le aule, i banchi, però manca la volontà di mettere sulla cattedra persone che sappiano insegnare. Nell'anno scolastico 1970-71 le aule erano in funzione, scolari ce n'erano, però andavano solo per scaldare i banchi, questo succedeva non a causa degli scolari ma a causa dei cosiddetti maestri che si presentavano regolarmente ogni sera dalle ore diciotto e trenta alle diciannove e quindici solo che si faceva di tutto meno che lo studio; all'esame "elementare" vengono rilasciate le licenze di quinta senza tener conto se uno scolaro è preparato o meno; durante i mesi estivi si è pensato di organizzare dei corsi di preparazione alle medie, gli studenti partecipanti erano dodici (tra cui io), anche se il maestro non ci faceva impegnare molto nello studio le lezioni (tre settimanali) andavano avanti discretamente, purtroppo per cause sconosciute, il maestro è sparito: da oltre un mese e mezzo non si vede più, gli esami dovrebbero svolgersi nella prima decade di settembre, però non capisco con quale preparazione possa presentare gli esaminandi alla commissione esaminatrice; comunque che cosa mai può valere un pezzo di carta se non c'è stata alcuna istruzione, penso che sia più utile una cultura. Ma che importa ai maestri tutto questo? L'importante è (per loro) ritirare lo stipendio duramente sudato alla fine del mese, d'altronde, se glielo permettono perché non farlo?
- Lettera di G. G.
Perugia, 31 ottobre 1971.
In quanto alla scuola che si svolge in carcere, posso dirti che è uno schifo, ti racconto un caso che ho visto: nel carcere di Mantova vi è un maestro, è cugino del prete del carcere, è un fascista puro sangue. Nel 1970-71 io ero al carcere di Mantova, verso settembre ci invitano a iscriverci alla scuola, mi sono iscritto anch'io. Con grande sorpresa ho notato che non ci veniva dato né libri né altro, la scuola lì era soltanto un dopolavoro del M.S.I., il maestro parlava esclusivamente di fascismo; ho notato che un detenuto, sui quarantacinque anni, certo D. L., non sapeva leggere e scrivere, a volte gli scrivevo io qualche lettera ai familiari, ebbene, in due anni che è stato lì, alla fine quello che sapeva in principio sapeva alla fine, è rimasto analfabeta, da precisare che andava tutte le sere alla scuola, ma una sera alla mia presenza il detenuto D. L. gli ha detto al maestro, che lui andava a scuola per imparare a leggere e a scrivere, il maestro per tutta risposta gli ha detto: non mi rompa. Questa è una situazione di quasi tutte le carceri d'Italia, la classe dirigente è quella che è, noi detenuti facciamo quel che possiamo fare a rischio di prendere anni di galera, non possiamo reclamare un nostro diritto che siamo repressi, e quasi sempre ci trasferiscono per motivi disciplinari, chi non accetta il loro dominio è sempre bersagliato e perseguitato.
- Tema di P. T. - Istituto tecnico.
Alessandria, 12 dicembre 1967.
La scuola, o almeno la modestissima "mia" scuola mi ha insegnato e mi insegna ancora i primi elementi dello scrivere e far di conto, qualche nozione elementare di storia, geografia, storia naturale e... religione.
Quello che non mi ha insegnato è la "vita" tale e quale è in realtà, e questo insegnamento è la vita stessa che si incarica di darmelo con la dura esperienza nel suo svolgersi quotidiano a tutto mio danno e totalmente a spese mie.
La scuola mi ha insegnato e mi insegna, nelle sue diverse materie che fossili umani che risalgono di un milione di anni, sono stati recentemente scoperti, e mi insegna contemporaneamente che ottomila anni or sono il soffio divino ha dato vita al "primo uomo" [. ..] mi apprende pure, la scuola, che devo essere fiero di discendere da una razza di conquistatori che hanno dominato il mondo conosciuto di allora rendendolo schiavo, e che devo trarre vanto e orgoglio di fare parte di quel popolo, che, nella storia recente, ha sacrificato seicentomila dei suoi figli migliori per conquistare un lembo di terra, e altri quattrocentomila, vent'anni dopo, per riperdere le stesse montagne. Tutto questo è la "storia" che, grazie alla scuola, conosco.
La scuola mi insegna che ho una patria e che sono tenuto a difenderla [...] mi si spiega che la "mia" patria è quella terra delimitata da confini che possono estendersi o restringersi secondo il favore o lo sfavore di guerre. E quando, acceso da amor patrio, chiedo quale nemico devo combattere per difendere questa mia cara patria, mi si risponde che questo particolare non ha importanza e che, comunque, sarà deciso da chi ne sa più di me. Io dovrò soltanto: credere-obbedire-combattere. E ringraziare pure i miei maestri che mi dànno così saggi insegnamenti...
- Lettera di G. S.
Trento, 30 ottobre 1971.
La scuola in carcere è un po' come un fantasma di cui parlano tutti ma che nessuno riesce a vedere. Già il regolamento carcerario Rocco del '31 prevedeva (art. 1) che "i detenuti sono obbligati a frequentare le scuole istituite negli stabilimenti", ma queste famose scuole, salvo poche eccezioni, sono rimaste fino ad oggi più un principio teorico affermato sulla carta che una realtà operante; le poche eccezioni sono dovute ad iniziative volontarie di singole persone più che ad un effettivo interessamento da parte delle autorità carcerarie responsabili. Anche là dove la scuola ha avuto una effettiva applicazione, essa è stata per lo più tollerata ma non incentivata e, anzi, ha incontrato serie difficoltà proprio per l'intransigenza delle autorità carcerarie locali. Nel carcere di Alessandria, che pure rappresentava una eccezione in assoluto prima dell'esperimento trentino, la direzione negava (e lo ha fatto fino allo scorso anno) la possibilità di usufruire della luce elettrica per studiare dopo le ventitré, e negava altresì l'autorizzazione ad acquistare candele di cera pur sapendo che ne facevamo uso, cosa che si doveva per necessità fare di contrabbando pagando un prezzo dieci volte maggiorato: questo è l'esempio più significativo della mancanza di interesse verso lo studio da parte delle autorità carcerarie.
Il ministero paga regolarmente un maestro che dovrebbe svolgere attività didattica a livello elementare in ogni carcere, ma anche questa rimane una soluzione operata sulla carta, perché in effetti sono pochissime le carceri dove ancora oggi opera con una certa organizzazione la scuola elementare. In genere questi maestri vanno in carcere, fanno quattro chiacchiere con qualcuno per far passare il tempo, e, dopo qualche ora, se ne vanno certi che lo stipendio è assicurato. Anche quei maestri che vorrebbero interessarsi seriamente alla scuola non riescono ad operare concretamente perché le direzioni locali li mettono di fronte a tali e tanti ostacoli da scoraggiarli subito; essi diventano una specie di intrusi tollerati fino a che non dànno fastidio, perché appena sollevano qualche problema rischiano immediatamente di perdere il posto.
Non ho mai saputo che in un carcere qualsiasi ci siano stati detenuti invogliati allo studio da parte delle autorità interne. Fino a qualche anno fa c'era perfino la proibizione di poter disporre liberamente di un pezzo di matita, pena severe punizioni che potevano tradursi in settimane intere di cella di rigore per i recidivi a tale infrazione. Non è mai capitato che qualcuno all'interno dell'istituzione abbia detto ad un detenuto di prendere un libro in mano piuttosto che trascorrere il tempo nell'ozio o in lavori spesso umilianti. Gli obblighi fondamentali sono il lavoro, la scuola e la religione. Ma di questi tre obblighi la scuola è sempre stata l'unico grande assente e questo si spiega con il fatto che, mentre la scuola può anche rappresentare un mezzo di crescita della personalità del detenuto e può giovare solo a lui, il lavoro abitua allo sfruttamento totale e la religione, così intesa, abitua ad una assoluta sottomissione dell'individuo anche a livello psicologico, di modo che alla sua personalità non sia lasciato neppure il più piccolo margine di autonomia, cosa che lo riduce pian piano ad accettare l'istituzione carceraria come sua unica dimensione di vita. Dietro a tutto questo c'è anche il concetto che la pena è intesa essenzialmente come afflittiva, persegue quindi la sofferenza. Ed è chiaro che la scuola, potendo permettere al detenuto di soddisfare esigenze spirituali o psicologiche, non è mai stata considerata una attività confacente al carattere afflittivo da dare alla pena. Il lavoro invece si presta benissimo a questa coercizione afflittiva, sia per le condizioni bestiali in cui viene svolto e sia per la scandalosa remunerazione con la quale è sempre stato retribuito. Quanto alla religione, anch'essa assumeva un preciso carattere afflittivo attraverso l'obbligatorietà del culto; per coloro che si rifiutavano di partecipare alle funzioni religiose c'era la punizione disciplinare, con la conseguente perdita della lettera di "buono", spesso dello spettacolo cinematografico e qualche volta, come conseguenza alla punizione, anche con la perdita del colloquio con i familiari. Negli anni scorsi questa obbligatorietà al culto è stata tolta, ma in molte carceri continua praticamente a funzionare, anche se solo a livello informale o attraverso il ricatto, perché il cappellano fa parte del consiglio di disciplina e se vuoi un lavoro dove non ce n'è per tutti o chiedi qualche altra cosa, è difficile averli se non vai a messa la domenica.
Tutto questo con la scuola c'entra solo in senso lato, ma dimostra chiaramente come, pur essendo sulla carta un obbligo, contrasta con la concezione della pena ed è stata sempre avversata, anche perché, oltre a non rappresentare un mezzo di sofferenza, può permettere l'acquisizione di capacità tripliche viste come fonte di potenziale disturbo, poiché contrastano nettamente con la repressione e la spersonalizzazione che si cerca di operare nel detenuto in modo da farne una specie di automa incapace di sollevare obiezioni alle innumerevoli assurdità della vita carceraria di ogni giorno. Oggi molte cose stanno cambiando, ma fino a qualche anno fa era veramente difficile dedicarsi allo studio: lo studente era un potenziale ribelle.
- Lettera di G. S.
Trento, 14 aprile 1971.
... Il problema della scuola non è tanto un problema di quantità, ma è un problema di qualità, cioè di contenuti, soprattutto politico-sociali, che tengano legati al mondo esterno e diano una risposta concreta ai tanti perché di chi ha perduto la propria libertà, soprattutto perché in preda a una problematica che da solo non ha potuto risolvere in modo concreto e costruttivo. Bisognerebbe trovare il coraggio di fare un discorso veramente serio, ma chi è che può trovare questo coraggio (e il permesso di renderlo operante) in carcere, quando nella stessa scuola esterna non si riesce ad avere ancora la possibilità di introdurre quel discorso politico che dovrebbe essere alla base della formazione sociale degli individui? Il problema rimane dunque legato all'eterna storia dei rapporti di classe e delle posizioni di carattere ideologico, tendenti a produrre quei condizionamenti che tutti conosciamo. Ad un uomo, che è venuto in carcere per motivi sociali e estremamente gravi, è inutile insegnare soltanto a leggere e a scrivere, le leggi trigonometriche, la prospettiva e la fisica (a parte la considerazione che a questo livello giungono soltanto alcuni fortunati). Egli vuol sapere perché è stato messo in carcere, perché per lui le leggi hanno essenzialmente un carattere punitivo, e perché le stesse leggi in nome delle quali viene condannato non vengono adoperate anche per difendere tutti quei diritti che (teoricamente) dovrebbe avere. Vuol sapere perché deve subire la carcerazione preventiva, essere bollato d'infamia ancor prima che sia o meno riconosciuta la sua colpevolezza. Vuol sapere perché in carcere finiscono soprattutto i poveri e perché quei pochi "pesci grossi" che ci capitano finiscono quasi sempre con l'ottenere di essere ricoverati in cliniche private, in preda a malattie che, caso strano, si manifestano proprio dopo un po' che vengono arrestati, mentre per il detenuto povero non esistono malattie gravi da comportare un trattamento particolare, tanto che molti finiscono col lasciarci la pelle se si ammalano. Vuol sapere perché egli deve essere obbligato al lavoro per guadagnare una miseria e poi pagare il 10 per cento in più su tutti i generi che acquista tramite domandina, e pagare poi le spese di giustizia e di mantenimento carcere, cosa che impedirà per sempre al povero di essere veramente libero e condurre una esistenza dignitosa. Vuol sapere perché, una volta chiusa la fase istruttoria, deve continuare a subire l'umiliazione della censura alla corrispondenza, cosa che lo fruga e lo violenta nel pensiero e nei sentimenti. Vuol sapere perché non può baciare la moglie quando ne riceve la visita, perché c'è subito qualcuno vicino che lo richiama e lo fa sentire come un animale che abbia commesso chi sa quale sporcizia morale. Vuol sapere anche il significato della redenzione e del recupero sociale, parole che gli vengono sbattute in faccia ad ogni occasione e che lo fanno sentire una sottospecie animale che non ha mai capito nulla sulla vita.
Queste e tante altre cose il detenuto vuol sapere, vuol capire, vuole rendersi conto, vuole uscire dalla sua ignoranza, e quando non ci riesce reagisce con l'apatia e con la rabbia, ambedue certamente pericolose per lui e per gli altri, perché possono produrre atti inconsulti da un momento all'altro.
La funzione della scuola dovrebbe essere soprattutto quella di poter rispondere a tutti questi perché, ma è possibile attuare tutto questo nella nostra società? Il recupero che l'istituto carcerario pretende di operare sul detenuto non è quello di un uomo riportato in seno alla società, con la coscienza dei propri diritti e dei propri doveri, con la capacità raziocinante di giudicare e scegliere, di dire anche "no" quando lo reputa giusto. Alla società si vuole invece recuperare un uomo dissociato nella volontà e nelle capacità critiche, un uomo che abbia imparato a chinare la testa e che dica apaticamente sempre "sì", un uomo che non sia mai più capace di dare fastidio a chi vuole che la società sia costituita sempre e solo di cittadini di serie A e cittadini di serie B.