LA RESISTENZA SPONTANEA.
LE SOLUZIONI INDIVIDUALI, L'ARTE DI ARRANGIARSI, L'ADATTAMENTO ALL'ISTITUZIONE.
Esistono due modi distinti di accettare ed interiorizzare il carcere: quello passivo e quello attivo.
Gli "attivi" sono i reclusi che collaborano con l'istituzione a tutti i livelli, spesso sono assunti dall'amministrazione carceraria come scrivani, infermieri, cuochi, spesini, persone di fiducia, eccetera. Sono una netta minoranza e di solito la direzione li recluta tra i detenuti borghesi, o meglio piccolo borghesi. Godono di piccoli privilegi che ripagano con la propria strisciante utilità, sempre pronti a fare la spia, o come si dice in gergo, l'"infame". Sono odiati dagli altri detenuti, ma nello stesso tempo sono temuti per il rapporto costante che essi hanno col "potere"; a volte questi detenuti modello (per la direzione) riescono a diventare più potenti dei secondini (si veda Alfredo Bonazzi, il poeta detenuto a Porto Azzurro), a volte dello stesso direttore (vedi il caso, che ha fatto molto scalpore, del detenuto Italo Zuccarin che praticamente dirigeva il carcere di Sulmona qualche anno fa); e se è vero che, sfruttando la posizione acquisita, possono aiutare qualche altro detenuto, sono però i migliori esemplari di adattamento all'istituzione che li priva della libertà, e la loro "funzione politica" all'interno del carcere è fascista e reazionaria come il carcere stesso.
A livello intermedio tra l'accettazione attiva e quella passiva, ci sono la maggior parte degli ergastolani, i detenuti piuttosto anziani, tutti quelli che fuori dal carcere condurrebbero un'esistenza materiale già affine al carcere stesso. Le persone anziane, cioè, accettano attivamente l'istituzione non perché vi svolgano o aspirino a svolgervi una qualche attività in un settore "chiave", ma semplicemente perché non hanno più la forza di reagire o di volere nulla, e le uniche soddisfazioni che possono avere ancora dalla vita sono un riconoscimento del loro servilismo. In altri termini, gli anziani si vendono, sono "infami", senza ricevere nulla in cambio: tutt'al più, la chimera della grazia che viene sempre sbandierata davanti ai loro occhi. Gli anziani, poi, quando sono graziati o escono per fine pena, spesso non sanno dove andare, e con un pretesto o commettendo appositamente un reato, cercano di ritornare nel solo posto dove sanno, ed è loro concesso di vivere.
Chi accetta passivamente il carcere, oggi, è il detenuto medio, spesso incarcerato in attesa di processo, spesso innocente, che non vuole compromettere la propria posizione giudiziaria, con azioni troppo pericolose, ma nemmeno compromettersi col sistema carcerario. Su di lui convergono la violenza, ora aperta ora velata, dell'istituzione, del personale, ed anche degli "infami". Viene sfruttato nelle lavorazioni interne per poche lire, gli viene negato un uso culturale di tutto il tempo perso in carcere (censura sui quotidiani, riviste, libri), viene bistrattato in trasferimenti da un carcere all'altro, per lo più gratuiti, viene praticamente istigato a rapporti omosessuali, strumento per lo più inconsapevole di un calcolo politico brutale e raffinato nello stesso tempo: quello di trasformare un proletario in un "delinquente", carne da macello da immolare sull'altare della repressione, affinché certe istituzioni come la polizia e la magistratura, prosperino e sopravvivano.
Su una cosa concordano tutti i giuristi illuminati, opinione pubblica, direttori di carcere, secondini, detenuti: il carcere è una scuola di delinquenza.
- Lettera di P. C. - San Vittore.
Milano, 20 ottobre 1971.
In genere l'origine sociale esterna è determinante, sia sul tipo di reato sia nella collocazione all'interno, rapporti con lo staff, e con gli altri detenuti. Ma di "borghesi" ce n'è pochissimi (laureati a Porto Azzurro due su cinquecento detenuti, diplomati tre - questo per il "titolo di studio"), anche come estrazione sono rari i "possidenti". In genere poi non determinano niente, sono fuori della vita della massa detenuta, non hanno alcuna influenza. In realtà non esiste qui un'analogia possibile col sistema di sfruttamento borghese (cioè, dico, tra detenuti e detenuti). Ossia: non esiste la possibilità di creare un sistema che produca plusvalore. So di un caso solo del genere [...] ma è un caso irripetibile, non fa testo. Gli altri casi equivalgono a quella che è la funzione dei capetti in fabbrica. Ma in genere le cose funzionano tipo "naja" con arrangiamenti personali diversi, che non pongono in essere una "divisione di classe". Normalmente ognuno fa gli interessi suoi, insomma. E neanche sul piano degli "incarichi" c'è sempre una coincidenza tra la mansione svolta e la "collocazione" sociale (anche se questo "in genere" succede). Uno può essere all'ozio, ed essere un delatore; o avere un incarico di scrivano, ed essere un ottimo detenuto (dal nostro punto di vista).
- Lettera di P. C. - San Vittore.
Milano, 7 ottobre 1971.
La vicenda Bonazzi è un esempio tipico, essa fa testo. Aveva ogni libertà, la possibilità di trafficare, ogni possibilità di sfruttare gli altri, e se ne è servito ampiamente. Era temuto dalle guardie, persino. Questo per quanto riguarda l'attività interna, quella a basso livello (traffico e delazione). Per quanto riguarda l'attività... letteraria, siamo su un piano diverso, ma il risultato è uguale. Come poeta ha doti innegabili, è molto intelligente, anche se è "fortemente debole" sul piano emotivo, è ambiziosissimo e un ipocrita di eccezionale bravura. Ha saputo utilizzare la Grande Promessa e le sue conoscenze femminili, come trampolino di lancio. Vuole disperatamente la libertà - il che è ovvio e giusto - ma pensa di ottenerla con mezzi indegni. Noi facemmo alcune riunioni con lui, lo riprendemmo fraternamente, provai personalmente anche le maniere dure, ma scappò via... Cercai di fargli capire che solo rinunciando all'egoismo poteva ritrovare una coscienza pulita e poteva anche trovare più facilmente la libertà, tutti noi lo avremmo "portato", lo avremmo aiutato, era interesse nostro creare il "mito" del detenuto rieducato in breve tempo, eccetera. Niente! Preferì inghipparsi con la "Notte" e il "Corriere"... avere gli ipocriti e pelosi elogi dei borghesi, che d'altronde lo trattano sempre con un certo schifo. Questa è una storia triste e sporca. Egli serve al sistema, per il gioco che il sistema imposta, e ne è cosciente e cerca di sfruttare questo gioco - che è poi quello di dimostrare che il detenuto può essere redento e rieducato, coi mezzi e all'interno del sistema. E chi non si redime è perché è una carogna, e basta! lui avvalora continuamente questa tesi reazionaria, ponendosi come "esempio" e dichiarandolo ufficialmente, e serve da "materiale propagandistico" per avvalorare le menzogne borghesi nel nostro campo. C'è dunque una coincidenza tra il comportamento privato e quello pubblico, e dimostra che non si può scendere al minimo compromesso con l'apparato, senza precipitare nel collaborazionismo...
Anche la sua vicenda, per chi la conosce minuto per minuto come la conosco io, è dunque una nuova prova che non ci può essere altra scelta che la "resistenza" al male e all'ingiustizia. E questa è una scelta non solamente morale, ma sociale e politica. Scelte di classe, e di movimento cui appartenere. La via della salvezza per ognuno di noi passa attraverso questa scelta. Non è possibile "salvarsi da soli" al massimo in tale modo si hanno favori e concessioni, si giunge a far parte di una élite di potere interno, si ottiene anche - un giorno - la condizionale o la grazia, ma la si paga con la propria coscienza.
- Lettera di S. G.
Trento, 25 maggio 1971.
Bisogna considerare che l'ambiente delle carceri giudiziarie è molto diverso da quello delle carceri penali, poiché nelle prime gli individui non hanno ancora subito quel processo di spersonalizzazione che dopo molti anni di carcere porta i più a disinteressarsi di tutto e sono quindi potenzialmente più sensibili a recepire il discorso politico e di rivendicazione; in loro è ancora abbastanza fresco il ricordo dell'esperienza sociale, cioè, sono ancora capaci di autodeterminazione, di decisione volontaristica, e, inoltre, i torti subìti sono recenti, è fresca in loro la coscienza di essere vittime di un sistema sociale classista (anche se questa consapevolezza è spesso nebulosa) e basta poco per risvegliare in loro il desiderio di affermare politicamente i propri diritti.
Nel penale, invece, l'opera di demolizione della personalità ha spesso raggiunto il livello di guardia e la maggior parte degli individui hanno introiettato talmente il senso di colpa o di sfiducia verso se stessi e le proprie idee da non essere più capaci neppure di pensare: spesso è proprio l'inerzia mentale, protratta, per anni e anni, a fare di un individuo un essere che vegeta, senza desideri né aspirazioni né tanto meno volontà. Nei penali il detenuto è anche tagliato fuori da ogni forma di contatto con l'esterno: divenuto definitivo (cioè, terminata la fase processuale) e mancando il contatto con gli avvocati (che rappresentano per lui un appoggio legale anche contro le vessazioni materiali che può subire), egli rimane completamente isolato ed i suoi contatti rimangono solo, per qualche volta all'anno (se la famiglia può affrontare le spese per il viaggio), quelli del colloquio con i parenti, che sotto molti aspetti sono negativi, perché la povera gente è fortemente abbarbicata (ed a ragione) a quel poco che possiede e finisce con il convincersi che ribellarsi è peggio perché ciò è causa di maggiori sofferenze (c'è gente che lascia in mezzo alla strada moglie e figli), così per quel povero diavolo che si trova in carcere, la visita dei propri familiari, la sofferenza materiale che vede in loro, gli danno la misura del proprio fallimento, e, non afferrandone le ragioni politiche, razionalizza e si convince di aver sbagliato; in questo modo la famiglia e le responsabilità che egli sente per loro, diventano come un ricatto morale che lo porta a rinchiudersi in un "buco" anziché uscirne per afferrare la vera natura dei suoi errori ed evolversi politicamente, così, lentamente, inizia proprio in lui tutto un processo di rifiuto e di assenteismo che lo porta alla dissociazione ed alla morte sociale.
Sono pochi che riescono ad uscire da questo circolo vizioso, anche perché in un penale vengono a trovarsi tutti in queste condizioni di isolamento. Nel giudiziario è diverso perché anche chi è definitivo e non ha contatti, può ugualmente accedere alla dinamica della vita esterna tramite i compagni, e le condizioni sono completamente diverse.