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FORME NEGATIVE DI RESISTENZA E DI PROTESTA: IL SUICIDIO.

È la forma più disperata e spesso l'atto conclusivo dell'autolesionismo. Ci si suicida in molti modi: ci si taglia i polsi con le schegge di vetro, si inghiottono lamette da barba, chiodi o cocci di bottiglia, ci si sfracella buttandosi da un pianerottolo, ci si impicca alle sbarre, ci si dà fuoco con una bomboletta di insetticida... Quelli che si suicidano in carcere lo fanno in modo vistoso, agghiacciante. Altrimenti il suicidio è inutile, non appare neanche come una protesta e si finisce sull'elenco compiacente dei deceduti per infarto, per occlusione intestinale, per embolia cerebrale o per caduta dalle scale. Se da una parte, dunque, vi sono forme di suicidio talmente incontrovertibili da non poter essere ignorate, esistono anche forme di suicidio che si prestano ad essere occultate in vari modi, magari con la consueta complicità di qualche medico. Per questo motivo, scarsamente attendibili sono i dati ufficiali, tra l'altro parziali, forniti dal dottor D. B. (responsabile dell'ufficio terzo del ministero di grazia e giustizia, direzione generale istituti di prevenzione e pena), all'inchiesta di Ricci-Salierno:
“Dal 1940 al 1958 i casi di suicidio sarebbero stati 155, di cui 147 consumati da uomini e 8 da donne. Nel 1970 (fino al 30 settembre) vi sono stati 28 tentativi di suicidio, di cui 22 per impiccagione, 3 per fuoco e 3 per altri casi. I suicidi consumati sono stati 12. I casi di suicidio sono particolarmente frequenti nella categoria dei detenuti giudicabili sottoposti a isolamento per ordine dell'autorità giudiziaria” (1).

- Lettera di A. Q.

Parma, 19 agosto 1971.
... Mi trovavo nel carcere di Pallanza (Verbania), era un pomeriggio caldo, ero in stato pietoso: non riuscivo a mangiare, ero disperato, nervoso, il dottore mi aveva prescritto una cura sedativa per il sistema nervoso a base di iniezioni di Senalepsi, ma non mi aiutavano a uscire dalla mia crisi, in più dovevo prendere due pastiglie di Librium ogni sera; avevo racimolato una quindicina di pastiglie più una decina di cibalgina, all'improvviso scoppiai, ingoiai le pastiglie dopo essermi barricato in cella, la guardia era presente, scappò urlando, nel frattempo sfasciai tutto: vetri, il lavandino, la radio, il tubo dell'acqua e ben presto mi trovai l'acqua dentro alle scarpe, la cella era rasa al suolo, sollevai la botola del gabinetto, era staccabile e in più era di ghisa assai pesante; le guardie con il maresciallo erano in corridoio, volevano entrare ma videro che impugnavo la botola, non entrarono; all'improvviso sentii lo stomaco che doleva sembrava che qualcosa mi comprimeva con forza lo stomaco sino a farmi mancare il fiato, sentivo o perlomeno constatavo che il sangue rallentava paurosamente il suo normale lavoro; le dita mi si paralizzavano, erano ghiacciate, crollai per l'improvvisa mancanza di forze, non sentivo più niente, il mio corpo era insensibile; le guardie entrarono, mi sollevarono e mi trasportarono in infermeria, per andare in infermeria dovevamo passare nel corridoio delle celle di punizione, fu lì che la guardia P. G. sollevò la mano armata da una pesante chiave e me la calò, con forza nella nuca, vidi un gran lampo davanti agli occhi e poi più nulla.

È evidente che l'autolesionismo ed il suicidio vanno scoraggiati! Però è necessario che i militanti interni trovino sempre il modo di fare uscire le notizie riguardo a episodi di questo genere. La gestione politica delle ragioni che li hanno motivati è importante. Altrettanto importante è sapere sempre con esattezza come si è svolto ad esempio un “suicidio”, anche perché si può arrivare alla conclusione che di suicidio non si tratta bensì di omicidio. È così per le lesioni: spesso le torture dei secondini si trasformano, complice il medico del carcere, in “autolesioni”...

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