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FORME INDIVIDUALI DI RESISTENZA E DI PROTESTA: LE EVASIONI.

Anche se queste azioni sono totalmente ignorate dalla stampa, e comunque procurano notevoli complicazioni penali a chi le mette in atto, non è difficile venire a sapere che spesso i detenuti si barricano in cella, dànno fuoco ai materassi, si rifiutano di mangiare o di lavorare, salgono sopra i tetti, eccetera.
Attualmente le dimostrazioni individuali avvengono quando concorrono una serie di circostanze favorevoli, come la garanzia della pubblicità al fatto, la difesa di un buon avvocato, l'appoggio degli altri detenuti, eccetera. Una norma costante, però, è questa: cercare di generalizzare sempre la protesta a tutti i detenuti e di darle un più preciso contorno politico.
L'evasione è da sempre il sistema classico di lotta individuale contro il carcere. Spesso si è accompagnata con pestaggi o esecuzioni sommarie di qualche secondino. Negli ultimi anni, malgrado la stretta sorveglianza, il numero delle evasioni è aumentato.
Dal momento che considera i carcerati come prigionieri di guerra, un'organizzazione rivoluzionaria non può non esprimere la propria solidarietà con tutte le evasioni, a meno che l'evaso non appartenga alla classe avversa e sia dentro per reati contro il popolo. Naturalmente, questa solidarietà è più profonda e motivata quando il gesto cui si riferisce si qualifica chiaramente da un punto di vista politico.

1.

Paolo Brollo e Luigi Calciago, durante una traduzione, disarmano due carabinieri alla stazione ferroviaria di Novi Ligure. Cercano di evadere. La scorta apre il fuoco, i detenuti rispondono.
Paolo e Luigi sono uccisi, ma nel vagone restano stecchiti anche tre carabinieri. Sapevano che per loro l'evasione sarebbe stata difficile, ma tentarono lo stesso: per loro la galera era diventata insopportabile. Sono caduti sul campo, ma non sono stati sconfitti.

- Lettera di P. C. – San Vittore.

Milano, 9 ottobre 1971.
Ora voglio chiarificare un argomento, quello “jacksoniano”. Ti ricordi i due morti, a gennaio, sul treno a Novi Ligure? Quelli erano due giovani – erano “compagni” – capisci? Li conoscevamo. Hanno dato l'assalto al “sistema” con le manette ai polsi e una pistola di legno. Li hanno ammazzati come cani (questa è la storia giusta, non quella dei giornali). Paolo l'han gettato nella fossa comune a Novi, senza il nome sulla tomba. Queste cose non si dimenticano – io non le dimentico. Per voi la lotta di classe è ancora a un livello accettabile di rischio (un licenziamento, una bastonata, un anno o due di carcere), per noi la “guerra” è in corso, la “guerra”, con il suo morto ogni giorno, ergastoli, decine di anni di carcere. Ma è una guerra che ognuno porta avanti da solo, da disperato, tra mille ambiguità; coi suoi vigliacchi e coi suoi traditori, con le sue follie e bestialità, è una guerra che dà la misura di un malessere grave, nella società, e indica come ci sia gente che “rifiuta” il ruolo di sfruttato, e lo rifiuta praticamente, escludendosi da quello che è il “modo di vita borghese” per il proletario: quello di produrre plusvalore e di aumentare l'accumulazione del capitale. Giusto o sbagliato è un “fatto” (e bada bene che non sono un ammiratore del fatto, come quel personaggio dei “tempi difficili” dickensiani, o come qualsiasi neopositivista – ma lo sono in senso marxista) e ad eliminarlo non sono sufficienti le analisi o le prediche moralistiche. Ci vuole invece un'alternativa, sia quella di costruire una società senza classi, sia quella di cominciare a lottare concretamente per costruirla.

2.

- Rocco Palamara evade armi in pugno dal carcere di Locri.

Africo Nuovo è uno dei tanti paesi calabresi, 3500 abitanti, provincia di Reggio Calabria. L'economia è basata sullo sfruttamento della disoccupazione, cioè sulla vendita di schiavi da parte di alcuni boss mafiosi del posto alle fabbriche del Nord e della Germania, sul bracciantato a giornata, sulla politica delle clientele e dei sussidi. Il paese è dominato dal parroco mafioso don G. S., uno dei tanti preti mafiosi, che ottenne il posto di pastore di anime nel periodo fascista per l'appoggio di alcuni gerarchi... In questo clima matura Rocco Palamara. Maggiore di tredici fratelli, dopo che il padre emigrava in Germania, diventa capofamiglia e lavora come panettiere fino a diciotto anni. Poi emigra anche lui, prima a Colonia, poi a Milano. Ritorna ad Africo nel '69 e vi fonda un circolo rivoluzionario. Il circolo organizza diverse lotte: la lotta delle raccoglitrici di gelsomino, dei braccianti forestali, la lotta per ottenere la stazione ferroviaria (ottanta denunce), la lotta perché le fonti d'acqua siano proprietà del comune. Ma soprattutto la lotta è contro don S. (che nel frattempo ha assegnato ad un fratello gli appalti edilizi del comune, ad un fratello la biblioteca, al cognato la pompa di benzina comunale, al nipote dottore la condotta medica, eccetera) e tutti i mafiosi, fascisti e D.C. Ed il potere reagisce. Verso la fine di ottobre 1970 Rocco viene provocato da mafiosi del luogo: insulti, minacce e tutto finisce per il momento. Un'ora dopo mentre Rocco e suo cugino Salvatore sono seduti sul davanzale di casa arrivano undici killer e picchiatori e aprono il fuoco. Salvatore viene ferito e Rocco risponde al fuoco ferendo alcuni assalitori e mettendoli in fuga. Circa un mese dopo in pieno giorno nel centro di Africo “sconosciuti” gli esplodono alla schiena diversi colpi di rivoltella: Rocco la scampa per un pelo. Dopo alcuni giorni Rocco, Salvatore ed un fratello di Rocco vengono arrestati: tentato omicidio nei confronti dei mafiosi feriti. Incredibile! Rocco Palamara scriveva questa estate: “Cari compagni, come ricorderete ai giudici di Catanzaro bastò un semplice confronto per liberare i quattro fascisti fermati per la strage, sui quali gravavano gravi indizi e che tra l'altro si erano messi già in contraddizione. Nel nostro caso, invece, vedete, i giudici preferiscono non credere ai testimoni, preferendo dar credito alle accuse dei nostri avversari. Comunque questa non è una regola per i giudici di Locri, perché alle mie accuse nei confronti del prete S. non è seguito alcun provvedimento giudiziario ai danni del medesimo. Vedete bene, dunque, che almeno da queste parti, gli antimafiosi sono posti di fronte ad un bivio infernale: o cadere vittime della “giustizia” o tacere. Ormai per me ed i miei fratelli non ci sarà voce in capitolo se non al processo, che potrà essere fatto anche dopo che ci saremo buscati due anni di carcere preventivo. Ma ho una preghiera da rivolgere a tutti i compagni: diffondete questa verità affinché tutti gli operai sappiano quale categoria di uomini, e con quali rischi, conduce una lotta antimafia”.
“Rocco Palamara è evaso”: non ha aspettato il processo, già sapeva da che parte sarebbe stata la giustizia; è evaso con la pistola in pugno, in pieno giorno. Adesso sono i mafiosi ad avere paura...
I fatti di Reggio, la situazione politica calabrese così caotica e confusa, soprattutto per l'assenza di una direzione rivoluzionaria, spesso ha indotto molti compagni ad avere sfiducia nel proletariato del Sud, alcuni addirittura hanno sentenziato: in Calabria sono tutti fascisti. A questi compagni cominciamo a tappare la bocca con la storia di Rocco. Però non si deve dimenticare che se la mafia, la repressione lo ha colpito così duramente è perché non era un isolato, bensì era ed è uno dei tanti compagni calabresi, un proletario tra tanti proletari braccianti e disoccupati, che hanno lottato e lotteranno per il comunismo.

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