LA RESISTENZA ORGANIZZATA.
PRESA DI COSCIENZA A LIVELLO INDIVIDUALE.
Nelle carceri italiane entrano migliaia di proletari ogni mese: è chiaro che ognuno di essi ha dietro di sé reati diversi, una storia personale, spesso un autentico calvario. Però il trauma dell'ingresso in carcere, del processo, della condanna, colpisce tutti allo stesso modo. A tutti l'istituzione offre l'amara opportunità di capire cos'è veramente questa società e questo stato; la repressione, mascherata al di fuori, si fa qui evidente, brutale, l'esperienza precedente la reclusione può trovare una spiegazione razionale solo dopo la riflessione che sempre è la conseguenza della carcerazione. Purtroppo la stragrande maggioranza dei detenuti non ha la possibilità di sviluppare fino in fondo questa riflessione, di tradurre in coscienza politica la propria reazione ed estraneità al sistema carcerario.
Mille fattori concorrono a rimuovere tale riflessione e, procedendo oltre, a disintegrare la personalità del detenuto e la stessa facoltà di “riflettere”. L'isolamento dal mondo esterno, la censura sulle lettere e sulla stampa, la censura sui programmi radio e T.V., il controllo ai colloqui, l'estrema scarsità degli stessi, l'apatia e il decadimento fisico-psichico indotto dalla segregazione e dal vitto, sono in grado di rimuovere lo “status” psicologico del detenuto dalla posizione della contestazione cosciente, propria di chi ha capito il “perché” delle cose, per portarlo in un mondo intermedio tra la scienza e l'ignoranza, tra l'apatia e la reazione violenta: l'alienazione, la pazzia.
Una esigua minoranza, con le sole proprie forze, riesce a resistere all'attacco dell'istituzione ed a sviluppare in senso positivo le prime reazioni di rivolta, a circondarle di contenuti politici ben precisi e ad arrivare a quella consapevolezza dalla quale, qualunque sia poi la repressione, non si torna indietro. Certi detenuti, magari connettendo brani di discorsi, fatti successi a livello sociale, articoli di giornali, la propria esperienza di vita e quella di tanti altri reclusi, e talvolta qualche buona lettura trovata per caso, riescono a diventare e a rimanere dei comunisti coscienti, coerenti fino in fondo con le proprie idee. Questi casi hanno del miracoloso: essi costituiscono la dimostrazione pratica di cosa possono diventare le carceri se su di esse viene centrato un intervento politico serio ed organizzato.
Attraverso il nostro lavoro di corrispondenza con i carcerati, di questi “miracoli” ne abbiamo scoperti molti, come del resto si è già potuto constatare leggendo le testimonianze che precedono questo capitolo.
Sentiamone ancora qualcuno.
- Tema di G. D. – Istituto tecnico.
Alessandria, marzo 1967.
... Non si ruba soltanto mediante lo scasso e la rapina, ma si ruba anche, e come!, attraverso altre vie che permettono un facile arricchimento senza timore della galera: ruba il venditore di generi alimentari perché pesa la carta d'imballaggio per merce; ruba il droghiere sulla vendita delle spezie di difficile controllo, perché vendute in genere a corpo e non a misura; il cameriere ruba al cliente perché gli presenta il conto alterato; ruba l'oste annacquando il vino; ruba il commerciante di stoffa nel far pagare un vestito scadente a caro prezzo; rubano i direttori di imprese alterando registri e fatture; rubano le imprese carcerarie acquistando roba scadente a poco prezzo, rivendendola al carcerato il doppio, il triplo del costo; ruba il prete speculando sull'anima del morto e del vivo; ruba il papa perché è autorizzato dall'autorità divina; ruba l'incettatore e lo strozzino, rubano gli avvocati, i sindaci, i deputati, i ministri, il capo di stato, il presidente della repubblica; rubano gli insegnanti di poco valore, ruba l'infermiere somministrando al degente il medicinale scadente per vendersi quello buono; rubano i medici approfittando della sventura altrui; ruba l'industriale sul lavoro dell'operaio.
E si uccide non soltanto premendo il grilletto di una rivoltella o vibrando colpi di coltello al cuore, ma si uccide anche, e soprattutto, con armi legali più raffinate: uccide il medico delle carceri non riconoscendo, volontariamente o no, un palese male accusato dal carcerato; di concerto con i suoi subordinati, il direttore delle carceri uccide il detenuto che reclama, facendolo legare al letto di contenzione per somministrargli botte da orbi, se necessario (il caso successo due o tre anni fa a Regina Coeli ne è la fedele testimonianza!), i direttori degli istituti assistenziali e tutto il personale preposto uccidono i ricoverati sottraendo loro vitto, medicinali e assistenza medica; uccidono i commissari delle questure italiche nell'estorcere la confessione all'innocente; uccide il magistrato nell'erogare l'ergastolo a chi non ha commesso colpa; i sindaci, i prefetti, il ministro di grazia e giustizia e il presidente della repubblica compreso, all'occorrente, uccidono e fanno uccidere dai tutori dell'ordine – o del disordine? – i diseredati che scendono sulle piazze e per le vie della città per rivendicare i propri diritti.
Questa è la cruda e amara realtà in cui viviamo; questo è il triste, pauroso e caotico bilancio di progresso e di civiltà prodotto dagli uomini timorati di Dio.
Un interrogativo a questo punto si impone con insistenza: perché l'uomo ruba e uccide il proprio simile? Questo suo male risiederà nella sua genesi, “homo homini lupus”, oppure la gravità di questa drammatica condizione risiederà nelle sue sovrastrutture che si è dato attraverso i secoli?
A me sembra di intravvedere che è nel denaro e nella proprietà individuale che risiedono la causa e l'alimentazione del delitto.
Ed è proprio a causa del falso diritto di possesso privato che l'uomo, ancora oggi, con tanta civiltà e progresso, continua imperterrito a rubare ed a uccidere.
Dal diritto civile si sa che la proprietà individuale è il diritto di possesso esclusivo ed assoluto, che alcuni privilegiati, detti proprietari, hanno sopra le cose, che dovrebbero appartenere a tutti, perché esse o sono un prodotto della natura, o un prodotto di tutti gli uomini che lavorano. La terra, per esempio, fu posta dalla natura a disposizione di tutti gli uomini, perché servisse ai bisogni di tutti, mentre alcuni, da tempo remoto, con la frode e con l'inganno cominciarono ad impossessarsene.
Fin da allora l'operaio e il bracciante si fecero, per loro buona fede o per noncuranza, volontariamente schiavi dei proprietari che rubarono un tanto al giorno sulle fatiche e aumentarono la loro ricchezza e la loro proprietà.
Appare chiaro che questa proprietà era ingiusta sin dal suo principio perché ebbe origine con la frode e la rapina, e andò crescendo per mezzo di furti continui che le leggi, amiche sempre dei ricchi, hanno sempre protetto e agevolato. Attraverso la storia si sa che i primi proprietari, infatti, furono ladri, predatori, masnadieri, che si ammantarono sotto il nome di conquistatori di popoli. Le storie antiche ci narrano di orrende carneficine commesse da popoli contro popoli per spogliarsi a vicenda dei propri beni. Ma tutti i bottini fatti se li divisero solamente i capi degli eserciti conquistatori e i governanti della nazione vittoriosa. Ai soldati, ai quali si faceva affrontare la morte sui campi di battaglia, non toccava mai nulla.
Questo fu, per sommi capi, il primo battesimo di diritto della proprietà privata; fu un battesimo infame che segnò col marchio del delitto le istituzioni borghesi attualmente dominanti. Cosicché se la storia non è fallace, i fatti dianzi esposti sono un assioma, e pertanto ai fini della conclusione, mi giova sottolineare che la classe borghese dominatrice oggi è costituita, in linea generale, dalla fusione di quelle due classi che ieri si disputavano, in campo aperto e su tutti i fronti, il predominio del mondo: l'una con le crociate, le scomuniche, le persecuzioni e i roghi per affermare i principi spirituali in nome di un Dio che non si è mai visto e non si vede; l'altra per l'affermazione del dominio sui beni materiali. Ma sia i fini dell'una sia quelli dell'altra hanno avuto sempre un medesimo punto di convergenza: il dominio assoluto e la soppressione di ogni forma di libertà, il più grande e insostituibile bene naturale dell'uomo.
Si nota chiaramente, e non da adesso, che la coalizione delle due classi di cui sopra, contro il popolo assetato di giustizia e libertà, è in piena efficienza, sia pure operando apparentemente su campi diversi. Infatti, da parte sua la classe che detiene il potere civile e che possiede tutte le ricchezze della nazione, non solo riesce, su di un piano apparentemente legale, a carpire il mandato del popolo in buona fede, ma ha anche a sua completa disposizione tutte le forze dell'ordine – o del disordine? – che spara inesorabilmente sul popolo quando tumulta sulle piazze per rivendicare i propri diritti. Le carneficine avvenute sulle piazze d'Italia quando era ministro degli interni Scelba, sono la testimonianza più eloquente. L'altra classe, con maniere dolci e raffinate, con l'ostia, con la mirra, con l'incenso e le belle preghiere, invita l'essere angariato e calpestato ad essere buono, docile, a non ribellarsi alle ingiustizie sociali pena la perdita del paradiso, qualora si rivoltasse contro chi lo sfrutta e gli mette il piede sul vivo. La situazione a prima vista si presenta scoraggiante, sembra un vicolo cieco da cui non vi è più speranza di uscire. Invece no.
La soluzione per uscire dal vicolo cieco c'è, e a me sembra la più facile, la più giusta: la Rivoluzione. Sì, la Rivoluzione è il mezzo unico e insostituibile a cui l'uomo deve ricorrere se intende riacquistare la libertà e tutti i suoi diritti naturali che il dominio civile e religioso hanno calpestato e deriso per tantissimi secoli. Solo con la Rivoluzione radicale e completa può cambiare il sistema della vita.
Qualcuno potrebbe rimanere inorridito solo all'udire il nome della Rivoluzione. Perché questa, in verità, è di per sé distruttrice di molti beni e anche di vite umane. Ma se colui pensasse un solo momento a tutti i beni e le vite umane perdute nell'ultima guerra, allora cambierebbe subito opinione.
In verità io non ho tanta simpatia per la Rivoluzione perché so che non è un baccanale. Ma la ritengo necessaria come mezzo di lotta per rovesciare una volta per sempre tutto l'edificio borghese e con esso le sue ingiustizie. Sotto un certo aspetto la Rivoluzione contro la dominazione tirannica mi sembra poggi sullo stesso principio giuridico della legittima difesa.
L'uomo ha ragione di respingere la forza con la forza. Il popolo ha il diritto di insorgere contro chi gli nega i diritti alla vita e lo calpesta. Che differenza, infatti, c'è fra chi mi aggredisce per derubarmi o per togliermi la vita e chi mi toglie con prove legali una parte dei frutti del mio lavoro, immiserendomi, e vuole perfino strozzarmi in gola il grido di protesta? Sotto ogni aspetto, quindi, la Rivoluzione sociale non è esplosione di vendetta, ma rappresenta la legittima difesa per l'affermazione della Giustizia.
Solo attraverso questa inevitabile fase di lotta potranno scomparire la disonestà, i furti, gli omicidi legali e tutte le decrepite attuali istituzioni, che ormai hanno già fatto il loro tempo e che attualmente non hanno più ragione di esistere.
- Tema di C. L. – Istituto tecnico.
Alessandria, 6 giugno 1967.
Lettera aperta al caporal chef François Dever già compagno d'armi nel Secondo B.N.P. – Algeri.
François, io credo di sapere dove ti trovi in questo momento. Forse non con precisione assoluta, ma con una ragionevole approssimazione. A Israele o nel Vietnam o nel Laos. Più o meno questi devono essere i vertici del tuo triangolo, perdonami, di imbecillità. In qualcuno di questi posti ti hanno spedito, dopo averti regolarmente acquistato come già fu quando ci incontrammo in Algeria. Suppongo che oltre ad una ragionevole somma di denaro, ti abbiano anche ammannito una sostanziosa dose di belle parole. “Battersi sotto una bandiera che non sia la propria, se lo si fa per la libertà di un popolo è come battersi per la propria libertà”. Lo diceva il generale Salan, e certamente qualcun altro lo ha ripetuto a te. E troveranno sempre degli imbecilli come te e come me che ci credono. Perché questa è la verità: ci lasciamo convincere: siamo fregati dal fascino delle parole, dei facili entusiasmi, dalla nostra cocciuta convinzione che il coraggio possa essere espresso soltanto in un campo di battaglia. E ora sei certamente nella merda fino al collo. L'altro giorno leggevo una lettera di alcuni ragazzi che frequentano una strana scuola, una scuola nella quale sarebbe stato bello andare, ai nostri tempi, perché ci avrebbe, forse, costruiti diversamente. Quei ragazzi parlavano di scuole, di società, di partiti, di libertà e anche di guerra. E parlavano anche di merda. Una merda diversa dalla tua e dalla mia: una di quelle che puzzano perché hanno l'odore della terra, e di un coraggio diverso dal nostro. Il nostro puzza, François. Il semplice fatto che ci pagassero per fare la guerra avrebbe dovuto farci riflettere, renderci più attenti. Farci capire che non si paga un uomo perché conquisti la propria libertà. Lo si paga perché non si accorga di battersi per tutto meno che per la libertà, propria ed altrui. Lo si paga per farlo tacere. Poi per renderlo cieco e sordo. Lo si paga quando si vuole tamponare qua e là le incrinature vistose dei falsi ideali.
François, noi siamo andati per il mondo a fare le guerre coi fucili. Tu dici che è sempre stato onorevole, che si è trattato di combattimento leale, che potevano ucciderci. François, un uomo non si salva affidandosi alla “possibilità” di venire ucciso: un uomo sceglie di essere ucciso e lo fa quando il bene per cui si batte è superiore al valore della propria vita.
Per la libertà di chi ti batti adesso? Di Israele? E non ti sembra dannatamente complicata questa faccenda, tanto complicata da invitarti a farci un pensierino sopra?
Quei ragazzi di cui ti parlavo prima hanno cominciato presto a parlare, a parlarsi.
Noi non lo abbiamo mai fatto, sino ad ora, perché non avevamo nulla da dire di cui fossimo veramente convinti.
Che tu ti batta per Israele o per l'Egitto, non importa, ma dimmi: chi ti ha chiesto di farlo? gli israeliti e gli egiziani, oppure i loro capi o chi sta dietro i loro capi? Brutta faccenda François. Ti stanno fregando un'altra volta. Da qualsiasi parte tu sia, ti stai rendendo complice di qualcosa che puzza. Torna in Francia François. Vai a fare la guerra nelle officine, nelle miniere, nei quartieri bassi, nelle strade, perché è lì che si difende la libertà e ci si batte per quella bandiera dai moltissimi colori che deve sventolare per l'umanità.
Allora le guerre con i fucili, tra paese e paese, non saranno più necessarie.
Torna in Francia, François. Vai ad una scuola simile a quella dei ragazzi della lettera: se non c'è costruiscila tu. Vai nei dormitori pubblici, negli ospedali, nei manicomi, nelle carceri: vai lì a fare la guerra e falla pure con le armi se è necessario. Se devi morire scegli di morire per questo.
Non pensare che io abbia cambiato idea. L'ho semplicemente trovata; ti sembrerà strano ma non sono diventato vecchio: sono tornato giovane.
Torna in Francia.
Scegli questo e sarai, forse, un morto che fa paura e non un morto che puzza.
- Tema di G. S. – Istituto tecnico.
Alessandria.
... Vivere qui dentro, essere costretti fisicamente ad una serie di azioni preordinate, sempre alla stessa maniera, trasforma pian piano l'individuo e lo rende apatico ed incosciente, spesso vile oppure ribelle in modo errato. Ci vuole una grande forza di volontà per non lasciarsi distruggere psichicamente e ben pochi ci riescono. Questo è soprattutto un luogo di alienazione mentale, fisica e spirituale, altro che redenzione, recupero e via dicendo.
Senza peccare di orgoglio, io credo di essere uno dei pochi fortunati che riescono a resistere “al veleno del carcere”, a quel profondo senso di sfiducia e di apatia che, con l'andare del tempo, finisce quasi sempre per impadronirsi della nostra volontà. La ragione di ciò è nello shock violento da me provato quando sono venuto a contatto con la nostra famosa giustizia e con i luoghi che ci ospitano. Una volta superato lo shock, mi sono messo a meditare sulle mie condizioni di vita ed ho scoperto molte cose: ho scoperto soprattutto me stesso. Ciò mi ha reso più forte e mi ha “corazzato” contro le multiformi sevizie che regolano la nostra esistenza.
Sono stato punito per aver commesso dei reati, ma non basta. Debbo alzarmi presto al mattino, correre anch'io come l'impiegato, perché anch'io devo essere irreggimentato. Debbo andare di corsa, vestirmi in fretta perché l'amministrazione non può pagare più di quattro barbieri, debbo far presto a gabinetto perché ce ne sta uno solo funzionante per sessantacinque persone, non “fare assenze” perché fuori non è permesso... Non importa poi se debbo cucinarmi i cibi, lavarmi i panni sporchi e accontentarmi delle 200 lire giornaliere di vitto che mi dà il ministero, se non ho soldi miei. Il necessario è che sia inquadrato anch'io, che anch'io vada in fretta, che produca, che sia una perfetta marionetta, perché il sistema non può avere incrinature, neppure in carcere.
Non c'è nulla di più brutto che capire un problema, penetrarne l'ingiustizia e non poter far nulla per combatterla. Così, sono costretto a sentirmi inutile a me stesso e agli altri, anche se cerco di crearmi un avvenire... ma per che cosa? a quale scopo? questo spesso mi chiedo. Condanno la struttura sociale che ci domina e penso che se debbo uscire di qui per fare il “geometra”, così come “loro” vorrebbero, mi sentirei più inutile che mai. Non voglio diventare un ingranaggio del sistema, una marionetta senza fili irreggimentata tra milioni di altre marionette ed essere volontariamente inutile.
- Lettera di A. A.
Parma, ottobre 1971.
... Credo nell'uomo perché lo ritengo lo strumento più mirabile che esista sulla terra, e lo vedo ad ogni istante per quattro quinti della sua totalità, calpestato e deriso con metodologie varie che spaziano dalle bastonate fino alle blandizie celanti insidie di ogni tipo. Qui dentro ci si rende ancor più conto della funzione di un uomo proprio perché esso viene negato nei suoi valori da un “apparato” che è retaggio di un sistema che ha alla base la negazione del diritto. Il recluso diviene un automa alla ricerca di un qualcosa il cui senso sfugge e ciò è negare il postulato alla base della esecuzione penale. È ben vero che abbiamo una costituzione, ma di essa si fa scempio continuamente esautorandola e svilendola. Basti pensare al lavoro carcerario che nessuno dei vari sindacati tutela perché... non dà voti! Il vostro giornale ha parole severe verso questi enti rappresentanti teorici dei lavoratori che snaturano il loro mandato: approvo in pieno il tentativo di Lotta Continua di aprire gli occhi a chi ancora crede nei borghesi vestiti da sanculotti. Basti pensare allo Storti, dagli occhi di basilisco, che subisce un furto per oltre cento milioni! E nessuno fiata, nessuno si domanda come si possa difendere il povero avendo in casa valori per centinaia di milioni di lirette più o meno svalutate.
Il nostro è il paese dei controsensi: un paese che arretra negli anni anziché progredire, uno stato ove si vive di frasi arzigogolate che sembrano formule magiche da misteri eleusini. Occorre chiarire al popolo, quello autentico, cosa occorre fare, chi lo deve fare, perché lo si deve fare: il resto è retorica ammantata da sorrisi e sufficienze melense.
Se una mela costa una lira a chi la produce, a me che la compro in città potrà costare cinque lire: chiedo di sapere, di conoscere perché invece le pago dieci, e chi mangia le altre cinque lirette che dovrebbero far parte del patrimonio di tutti e non delle tasche di pochi. Chiedo, con estremo infantilismo, perché la tizia debba avere gabinetti con la catena d'oro e un'altra tizia debba far cento metri d'inverno e d'estate per attingere acqua all'unica fonte di una bidonville.
Sono problemi ridotti all'osso; come tali dovrebbero avere spiegazioni facilissime, ma verranno distinti signori, riuniti in congressi di partito che sono a mezzo tra il conclave e la corte dei miracoli, a chiederci di avere fiducia, che la situazione si sistemerà: basta aver fede nella democrazia, eccetera. – Forse tutti costoro hanno un senso molto relativo di quello che è una democrazia, ma ignorano perfino la provenienza greca che riassume l'esatto valore del vocabolo.
Lettera di A. Q.
Parma, 12 agosto 1971.
Il detenuto non sempre è un “bruto”, per lo meno non lo è agli inizi, può darsi che in seguito lo diventi, cioè “lo facciano diventare”, perché dalla mia esperienza posso trarre che in genere una persona che inizia su questa strada è soggetto a ritornare “sovente” in carcere. Io, personalmente ho cominciato a quattordici anni a frequentare questi luridi ambienti, ora ne ho ventitré e un passato piuttosto movimentato [...]. Un individuo mio pari quando comincia è difficile che si fermi, forse se non finivo in case di rieducazione non ero qui. Però non credere che un individuo mio pari non abbia un cuore, una sensibilità, per lo meno io non mi sento tale, so ancora commuovermi, so ancora amare, forse saprò più odiare degli altri, saprò resistere di più alle sofferenze, ai disagi, sarò calcolato un pazzo, ma quello che interessa è avere un cuore, saper soffrire per le persone di cui si vuole bene.
Perciò se sono così forse non è tutta colpa mia, ma della benemerita “società”, non sto a discutere se sia il proletariato o la borghesia, tanto ormai si sa, però i cari signori che hanno fatto miracoli per rovinarmi farebbero bene a non scordarselo perché io non mi dimentico, dato che mi hanno reso così qualcuno deve pur pagarne le conseguenze. Il detenuto non si sente in nessun caso colpevole, pur avendo commesso delle azioni chiamate “reati”, pensa e crede che non è lui che deve andare in carcere, perché in confronto a certi “pezzi grossi” è addirittura una vittima; sovente si sente domandare “perché tizio che ha rubato milioni su milioni al governo è fuori, mentre io sono qui dentro per poche lire?” (vedi Riva, vedi Bonomi e tanti altri) e la risposta è “perché tizio ha i soldi mentre noi siamo poveri diavoli”. Questa è la filosofia del carcerato.
- Lettera di A. M.
Volterra, 17 marzo 1971.
...Sardo, di Orgosolo, quarant'anni, condannato all'ergastolo in un processo assolutamente indiziario (sei carabinieri uccisi chi sa da chi = quindici condanne all'ergastolo e due a trent'anni), in carcere da ventun anni. Dopo sei anni trascorsi nel giudiziario della Sardegna, dove tutt'ora si applica alla lettera il disumano e bieco regolamento fascista del 1931, fui assegnato a Porto Azzurro dove mi tennero per tredici anni. Porto Azzurro era, allora, un carcere molto duro; l'ambiente malsano, il contatto umano represso in tutte le sue manifestazioni, l'individuo, nella quasi totalità dei casi, ridotto in una esistenza semplicemente vegetativa. Un cimitero popolato da fantasmi, una fossa comune dominata da un ingranaggio con la funzione esclusiva di agevolare il processo di putrefazione. Io, una volta intuito il fine che l'apparato repressivo nel suo complesso – dal momento dell'indagine giudiziaria a quello della espiazione della pena – persegue nei confronti del “soggetto criminale” (il fine unico è quello di annientare l'individuo totalmente, fisicamente e come essere sociale) ho sempre lottato con me stesso e con le vicissitudini dell'ambiente per non cadere interamente nelle spire dell'ingranaggio e per sopravvivere conservando qualcosa di quell'insieme di sentimento e di valore umano che altri chiamano dignità. Nel corso di dieci anni mi sono battuto per il diritto a frequentare una scuola professionale o quella per geometra esistente nel carcere di Alessandria, ma questa possibilità mi è sempre stata rifiutata. Lo stato, infatti, che a suo tempo non educa il cittadino (parlo dello stato borghese), rifiuta il compito di rieducare il condannato, per le ragioni che ho detto innanzi. Quel concetto, cioè il “fine” della pena visto come motivo di eliminazione totale dell'individuo che delinque, domina ancora non solo le zucche della classe dominante ma anche la realtà dell'intero sistema carcerario italiano.
Nel settembre del 1969 sono stato mandato ad Alessandria in seguito all'interessamento di personalità amiche. Il non poter studiare è stato in carcere uno dei miei maggiori crucci, perciò, anche dopo vent'anni di galera, che è tutto dire, ho accolto con entusiasmo la sia pur tardiva autorizzazione a frequentare quella scuola di stato che mi aveva già respinto a partire da quando avevo dieci anni. Sondando sull'essenza di questa sua palese contraddizione che già mi lasciava perplesso circa la sua bonarietà e serietà, sono entrato nella rocca della sapienza armato di tanta buona volontà e deciso a strapparle non solo un utile diploma di geometra – tanto per cominciare – ma anche e soprattutto un qualcosa di quell'insieme di norme e insegnamenti utili all'uomo in quanto tale che si riassumono nella magica denominazione di “istruzione” e di “cultura”. Quando non si ha avuto la fortuna di abbeverarsi alla inesauribile fonte di norma scuola-nostra non è facile entrare nel suo spirito, comunque, per ragioni di forza maggiore connesse alla mia condizione di recluso, ho tentato coraggiosamente di sfiorare col naso la superficie dei suoi profondi misteri frequentando per un trimestre la prima media e poi, previo esami, passando al secondo istituto per geometri. Avevo interesse ad affrettare i tempi, e poi volevo farmi “una cultura”, capisci? Pensavo che man mano che si procedeva avanti la farragine, le sciocchezze e le falsità dei testi scolastici diminuissero, invece la solfa non cambia e dalla prima media al quinto istituto tutto è predisposto e programmato per fare dello scolaro un imbecille, oltre che per lasciarlo ignorante. Ho trovato che anche i professori, salvo qualche eccezione, sono di idee retrive, menefreghiste al massimo, totalmente assenti dai grandi problemi che oggi impegnano la parte più viva dell'umanità. Sono perciò degli ipocriti, degli egoisti e anche degli ignoranti, alla cui scuola gli sprovveduti di un minimo di coscienza storica e di classe non solo non imparano a comprendere meglio gli uomini e le cose ma perdono anche quel senso istintivo che li lega alla loro dimensione di uomini. All'infuori della scuola, poi, il disinteresse per lo studente come per l'uomo è totale, assoluto. Ti immagini ottanta studenti stipati in due cameroni intercomunicanti, dalle sette del mattino alle sette di sera, salvo l'ora della scuola e un'ora d'aria al giorno; dove si tiene tutta la propria roba, dove si cucina e si mangia, ci si lava, si strilla e si gioca, quando c'è freddo, si scrive a casa e si studia? Nelle cellette di un metro e mezzo per due, senza finestre né porta – hanno un cancello – si va solo per dormire. Tutta la vita si svolge nel camerone, e non vi è possibilità di sfuggirlo quando uno non si sente bene o ha semplicemente bisogno di dormire o di stendersi per riposare, di scrivere una lettera tranquillo o di meditare su fatti propri. In quelle condizioni si diventa geometri, spiritualmente abbrutiti perché l'acquisizione delle nozioni tecniche sufficienti a saper disegnare un pollaio e la villa non lascia il tempo di occuparsi di altro. Io mi sono rifiutato a quella scuola e a quelle condizioni, e non mi pento anche se mi hanno spedito, per rappresaglia, dove non avrei mai voluto andare (3).
- Lettera di un giovane meridionale.
Porto Azzurro, 4 ottobre 1971.
Carissima,
qui sto bene in confronto all'Ucciardone e ad Alghero e ormai non mi possono fare più di quello che mi hanno già fatto. Sì che lo so perché lo sto provando. E i giovani meridionali siamo una parte in galera e un'altra all'estero emigrata. Puoi pensare alla mia famiglia. Siamo sei fratelli e siamo due dentro e due in Germania e due a casa perché finora non sono riusciti imputabili di qualche cosa, se no erano dentro anche loro. Io mi spiego male perché sono entrato analfabeta e l'unica scuola che mi hanno dato è stato il carcere. Ma ho capito molte cose e che fuori o dentro è lo stesso. Noi se siamo poveri è perché esiste un padrone che si arricchisce alle nostre spalle. Io ho sofferto la fame, la miseria, lo sfruttamento, le ingiustizie e la galera. Ma non mi hanno abbattuto, come me siamo tanti e già di capire insieme la nostra forza e quello che dobbiamo fare mi riempie la vita.
- Lettera di V. F.
Ancona, 18 agosto 1971.
Oggi ho finito di leggere “I fratelli di Soledad” di George Jackson. La sua analisi sociale, la sua esperienza umana di ieri e oggi, la sua fede per la rivoluzione è qualcosa di veramente rivoluzionario. Viviamo gli stessi problemi, lottiamo contro un comune nemico, tentiamo di sottrarci alla morsa d'acciaio e filo spinato che tortura le nostre carni fin dall'infanzia, ci identifichiamo nel popolo, poiché siamo del popolo e vogliamo che al popolo, ad ogni individuo sia dato la possibilità di autodeterminarsi.
La routine quotidiana a cui sono condizionato è lungi da essere per me condizione di apatia, di essere: sono vivo e combattivo. Ho la mente rivoluzionaria. Ho rifiutato, attraverso l'identificazione popolare, cioè attraverso la mia vera identità umana, di subire un ruolo in questa società in funzione di schiavo economico, di eterno salariato, sfruttato dai pochi che hanno recintato con il filo spinato, i carri armati, le bombe H ed eserciti di poliziotti le nostre fabbriche, le nostre terre, subordinando le nostre esistenze agli attrezzi che ci affittano o che ci permettono di vivere, cioè lavorare per mangiare e anche per i loro privilegi. Ma solo che ora la consapevolezza di noi proletari è tale che all'ingordo maiale sarà tolto il mal tolto e distribuito a tutto il popolo per una eguale spartizione dei beni comuni secondo la formula “a ciascuno secondo le proprie necessità”. Si è tentato e ritenta di fare di me un “essere non sociale”, un involucro non pensante (poiché non mi hanno mai insegnato a pensare un solo momento nella mia funzione sociale, nella mia responsabilizzazione sociale, nel rapporto con i miei simili che non fosse in termini individuali). Sono stati indubbiamente forti. Ho tentato di prendere con la forza uno dei loro caschi modello che mai riuscivo a prendere “legalmente”. Sono stato capofamiglia a quattordici anni perché già da quell'età ero sfruttato in fabbrica. Non solo i loro modelli sociali sono falsi ma anche mistificati, per gli allocchi come me che ci sono cascato come un fesso perché ero fesso. Ti dico che erano forti se riuscivano a tenerci uniti – relegati – separati, cioè movendo fili atavici, metafisici per perpetuare le nostre contraddizioni che loro sfruttavano, e cercano ancora di sfruttare, assumendo una posizione di bonario e benevolo grande-padre.
Noi dobbiamo chiarire una volta per sempre il nostro rapporto con loro: non abbiamo e non vogliamo aver niente a che fare con loro; vogliamo autodeterminarci a vivere secondo natura, cioè dando al popolo il potere per un libero sviluppo di ogni individuo. Se ciò non è consentito di fare, otterremo tutto ciò con la rivoluzione. L'unica e ultima alternativa esistenziale per tutti i popoli della terra è l'autodeterminazione rivoluzionaria. Io voglio farla finita di essere mangiato dai cannibali capitalisti, come mio padre, i miei avi, non starò a subire e a osservare che si faccia scempio della mia vita.