DALLA RIFLESSIONE ALLA DISCUSSIONE POLITICA.
- Lettera di M. M.
Parma, 29 settembre 1971.
Ci tengo troppo a quella rivista (“Lotta Continua”), e io li passo e li rilego, e tanti compagni mela chiedono, sempre [...].
Odio alla morte lo sfrutamento, perciò non bisogna a fare i furbini, uno che ha un ideale deve sapere che cosè questo ideale, e che strada deve fare: non e un partito di imperialisti, e un partito che va contro lo sfrutamento e contro li abusi della classe lavoratrice, perciò apena che mi arivano i soldi faro labonamento per conto mio. Perche, io cio tanti compagni che la vogliono legere, tanti li ho convinti a capire cosa significa capitalista, e cosa significa il proletariato, che diferenza ce dallo sfrutatore al contestatore operaio. Il fato che tanta gente nona conosciuto cosa significa fascismo, che era il partito della repressione degli sfrutatori, dei purgatori contro la gente inerme, per colpa di quella bruta razza io mi trovo in questi posti, e li ho combatuti sempre sia fuori sia in galera, per quello io mi trovo ancora dentro, se avrei fato il furbo di lasciarli perdere in galera, oggi io mi trovavo a libertà da un pezzo. Ma sanno come li odio a morte.
Il mio passato le triste e orrendo, oggi sento le conseguenze delle torture. Solo che non mi posso esprimere come vorrei, perché ho avuto tante conseguenze, qui è l'unico carcere che mi sono trovato bene, pero i resti dei sei anni che mi trovo qui li passai malamente, io di carceri ne girai pochi, il motivo che la mia condanna era grave e sono stato Cagliari, Manicomio di San Teframo, Napoli, Alghero e Porto Azzurro, tu stesso puoi imaginare cio che ho visto e cio che anno combinato su di me la mi condanna le stata di anni ottanta e mi anno riportato a trent'anni, in più o preso dei processi, e devo scontare trentaquattro anni ti dico che adesso la galera la sento più pesante perche pesano anche gli anni, sono della classe 1923, e solo la mia pelle, lo sa cio che io o provato, specialmente a Cagliari e a Porto Azzurro. Poi del resto non ti posso spiegare e troppa lunga la mia facenda perche non soltanto ti vorrei parlare delle patrie galere, ma anche di quando ero partigiano qui a questa parte sbandato [...], e il mottivo perche mi trovo in galera, tutte queste condanne che mi anno atribuito, sono tutte estorsioni, che mi anno rifiutato e atribuito quelli vili e carogne di capitalisti infami [...] mi devi scusare tanto che scrivo male legi piano che capirai.
Ti saluto cordialmente. Viva il proletariato. ABASSO I BORGHESI.
- Lettera di Piero Cavallero – San Vittore.
Milano, 3 maggio 1971.
Il mio passato, la mia giovinezza, il Partito, i compagni, le lotte, tutto ciò che mi diede gioia e gusto di vivere, e che ho perduto, mi è balzato agli occhi, per un attimo [...]. Ho un grumo di rabbia e di disperazione, dentro, soprattutto con me stesso. Vedi, non mi duole d'aver perso tutto, mi duole d'aver distrutto in me stesso il mio vero oggetto d'amore! il legame con il movimento rivoluzionario. Ognuno di noi si realizza pienamente solo abolendo ogni falsa coscienza, unificando la sua vita – e pacificandola – nell'identità tra la buona coscienza e il buon comportamento. Ognuno si ritrova solamente nell'ambiente, nel modo di vita che coincide con le sue aspirazioni, le sue credenze; per me la buona coscienza era ed è la coscienza di classe, e la mia classe è il proletariato – era... accidenti! – Perciò solo nel proletariato e nella sua avanguardia mi ritrovo, e posso vivere.
Non eravamo una “banda”. Abbiamo cercato di essere un'organizzazione, un Gap; anche in pochi, ciò sarebbe bastato a rompere la cappa di piombo, nella Torino '60. Poi abbiamo fatto un casino. Io mi sono comportato come un bastardo borghese, in un certo senso. Così quel che di buono c'era in noi e nei nostri progetti, è finito in merda. È stato inutile che io abbia studiato per anni i “sacri” testi di Carlo, Giuseppe, Vladimiro, eccetera, o che noi abbiamo per anni vissuto la vita di partito. O che abbiamo imparato a diventare abili combattenti, rotti a tutte le difficoltà, i pericoli, le astuzie della guerriglia e della illegalità. E la colpa è solo mia. Questo è quanto mi rode dentro. Oggi anche noi avremmo potuto essere utili, in Italia e altrove. E invece... Non è solo il fatto di “essere dentro”, almeno per me. È qualcosa di più grave, insuperabile, è l'impossibilità di “rientrare” nel movimento rivoluzionario, è la squalificazione morale e politica, irreversibile. In questo senso mi sono “dannato”, ho “perso l'anima” e la tentazione di compiere il salto definitivo – passare al nemico – c'è stata. Ma è un salto che non ho potuto compiere, c'è una impossibilità assoluta; anche se sono squalificato, anche se sono solo, anche se sono ormai libero moralmente – essendo materialmente schiavo – di scendere ad ogni compromesso, tuttavia non posso farlo, sarebbe un suicidio. Ho già perso tutto, almeno voglio restare in pace con la mia coscienza.
È tremendamente difficile parlare coi detenuti, il passato, la condanna, lo stigma sociale, la condizione di illibertà eccitano il sospetto contro di noi. È come un circolo vizioso: la rieducazione proposta dal sistema borghese è impossibile, ingannevole, qualsiasi metodo si adotti; l'opinione comune, comprendendo benissimo questi risultati – se non le cause – si ribella a una politica di migliorie carcerarie, a una maggior libertà nel carcere, alle riduzioni di pena. Per spezzare questo circolo, è necessario non solo un'opera di denuncia della situazione disastrosa esistente nel carcere, ma l'indicazione concreta di quel che si deve fare per recuperare socialmente il detenuto. E recuperarlo socialmente non nel senso dato a questa parola dalla letteratura borghese, ma come acquisizione di coscienza rivoluzionaria – questa è l'unica rieducazione possibile e auspicabile. Credo che il fine immediato sia la chiarificazione del problema nostro – e del sottoproletariato in generale – di fronte alla classe operaia, spiegando bene a questa che non noi, ma i borghesi, i poliziotti, i magistrati, sono i suoi nemici reali, e che le tesi dominanti sulla pena, la detenzione, il trattamento sono ingannevoli, tendono solo a riprodurre la criminalità e aumentare le frange sociali.
- Lettera di Piero Cavallero – San Vittore.
Milano, 12 agosto 1971.
L'importante è evitare compromessi e collaborazionismi di qualsiasi tipo. Anzi, ti dirò, l'unico di noi che ha tentato una via che potenzialmente poteva condurre al compromesso, sono stato io. L'ho fatto per motivi molto seri, con intenti precisi e con lealtà, apertissimamente, ma è stato solo un tentativo in quanto, pur con tutta la serietà e l'onestà, non è possibile rimanere puliti, battendo strade ambigue... Ma ciò appartiene al passato, e durò un breve periodo di tempo, giusto il tempo per sperimentare di persona quanto sia pericolosa ogni illusione che si fondi sulla esclusione del concetto di “classe”. L'unica discriminante passa tra le diverse posizioni rispetto all'esercizio del dominio, il bene e il male, il giusto e l'ingiusto hanno un contenuto di classe e non è manicheismo questo ma rispetto della verità, aderenza al reale. Lo diceva anche Gramsci: ogni spirito è “spirito di corpo”, cioè prende partito, fa una scelta, e poi sai bene qual è la definizione leninista della morale... Insomma non c'è dubbio alcuno: il male è dalla parte delle classi dominanti, il combatterle e l'abolirle non solo è “necessario” ma è anche morale. Se ho compiuto alcune “scivolate” nella mia vita (che in ogni caso non hanno mai danneggiato la mia classe) ciò è venuto da qualche sovrapposizione... piccolo-borghese. Ti ripeto che mi riferisco – per me – al passato; ora le cose sono molto diverse.
È molto importante quel che state facendo per la “risocializzazione” del detenuto. In effetti, anche se limitata e parziale, l'unica proposta di soluzione valida è la vostra, è limitata appunto in quanto siamo in un contesto politico e sociale che non permette iniziative più ampie. Ed è giusto condurre avanti sia la critica teorica, sul piano della confutazione degli schemi “rieducativi” (?) attuali, e la critica politica, con la realizzazione di risultati concreti alternativi, proprio sul piano del rendimento “produttivo”: carcere come luogo e come momento produttivo, ma in cui la produzione materiale delle cose è sostituita dalla posizione materiale di “uomini coscienti”... nel significato che diamo noi all'essere coscienti. Si tratta insomma di proporre il carcere come momento di “coscientizzazione”, e un uso del carcere alternativo a quello proposto e attuato dal “dominio”. Ciò implica una serie di iniziative a tutti i livelli e una azione diretta verso il detenuto, parallela ad una azione chiarificatrice, e demistificatrice, diretta verso il pubblico (proletario).
Ti prego di tenerci al corrente di ciò che fate, è molto importante.
- Lettera di un compagno edile – Regina Coeli.
Roma, 12 novembre 1971.
Come se niente fosse è già un mese e mezzo che sono in galera. Compagni vi dico subito che non è tempo perduto per me né per il proletariato. Ho imparato un sacco di cose...
Sai il fatto del “mostro” che ha ucciso quelle bambine? Oggi un ladro stava leggendo il giornale e a un tratto ha esclamato: “Porco, vigliacco”. “Che cosa è successo?” ho chiesto. “Senti – ha detto – cosa scrive questo porco di giornalista: “Perfino i detenuti condannano il mostro”. Perfino, capisci? Porco, come dire che persino dei sotto-uomini come noi condannano il mostro”.
Questa sensibilità da ladro di professione mi ha colpito. È nato un dibattito politico nella cella e che dibattito, caro compagno. Gente che sembrava insensibile tira fuori la rabbia dentro; sono uscite cose impensabili: il discorso si è approfondito, si è arrivato alla nostra infanzia e ognuno ha scoperto la miseria, la fame, le botte, la discriminazione. C'è uno che aveva già fatto dodici anni di prigione. L'ultima condanna, quattro anni e cinque mesi, per aver rubato una catenina d'oro e duecentomila lire in un appartamento. Lui fino ad ora era stato sempre taciturno e oggi mi ha raccontato la sua infanzia infelice e il suo primo furto; piangeva ricordando la sua infanzia.
Ho incontrato un ragazzo, vent'anni, riformatorio, padre in galera, madre con l'amico. Ha una croce uncinata tatuata sul polso sinistro. Ci credi? Siamo diventati amici. Ogni giorno giura che si brucerà il tatuaggio con la sigaretta ma ha paura del dolore e non lo fa. Gli dico: “Perché continui a portare quel marchio di infamia? Il marchio dei padroni e degli sbirri? Dei tuoi carnefici?” “Questa sera lo brucio”. Dice che vuole diventare comunista ma che non capisce niente di politica. La croce se l'è tatuata nel riformatorio. Quando l'ho vista mi sono arrabbiato e gli ho detto il fatto suo. Lui si era offeso. Poi un giorno mi ha chiesto una sigaretta. Abbiamo parlato. Ora sono suo amico. Mi ha raccontato tutto di lui. Vuole venire a Lotta Continua (senza tatuaggio – gli ho detto). “Me lo brucio, me lo brucio, però fa male, mi viene la piaga”. “Così impari”, gli rispondo. Quando andiamo all'aria mi prende sotto braccio e camminiamo e parliamo. Gli ho fatto scrivere da una ragazza che conosco, un'amica di mia figlia (a lui non gli scrive nessuno), una compagna. Quella gli ha scritto una lettera bellissima. Gli ha detto che gli scriverà sempre, che vuole essere sua amica e che vuole alleviare la sua prigionia se lui lo desidera (figurati se lo desidera). È rimasto stupefatto e commosso: quella lettera lo ha messo letteralmente in crisi. “Perché?” mi ha chiesto. “Scemo, siamo compagni, così sono i comunisti!”. “Ma se non mi conosce, e poi sono un ladro”. “Tu non sei un ladro, per noi sei solo un proletario”. Ti dico che sembra non crederci, è la prima parola amica che ha sentito in vita sua. Ha smesso di fare il bulletto.