Appendice 3.
A PROPOSITO DI RIFORMA.
La realtà del nostro sistema carcerario è brutale e fascista; a livello teorico, di convegni, inchieste, eccetera, insigni magistrati, penalisti, studiosi, sono tutti concordi nel condannare questa realtà e nell'auspicare l'attuazione dei princìpi costituzionali e internazionali rispetto alla esecuzione delle pene.
Il progetto di legge sulla riforma, in ballo da anni (e già approvato dal senato) è un aborto (basti pensare che non considera nemmeno un problema cardine, quello sessuale), e comunque giace insabbiato alle soglie della camera, e non si sa se andrà in porto prima della fine della legislatura. Comunque una qualsiasi riforma, anche quella ottimale, una volta applicata non risolverebbe il problema, anzi lo peggiorerebbe dal punto di vista del “controllo politico-culturale” del sistema sul detenuto. Quando i detenuti in massa ed in rivolta chiedono la riforma, è giusto che la chiedano, perché per loro “riforma” equivale a “star meglio”, e quindi nessuno nega la giustezza della richiesta di “star meglio”, soprattutto se fatta con metodi, forme di organizzazione e di protesta che non sono certo riformistiche.
Ma chi, all'esterno, con chiara consapevolezza politica, chiede ed auspica “riforma e rieducazione” per il detenuto, o chi, pur essendo detenuto, ha raggiunto una maturità politica tale da distinguere la differenza “tecnica” tra il termine “riforma” ed altre generiche come “cambiamento”, “star meglio”, “migliorie”, commette un grave servizio al sistema, consapevolmente o meno il risultato non cambia: infatti, chiedere la riforma del carcere, nel contesto di una più generale riforma dello stato e della società significa porre come fine e come tappa strategica (una società socialdemocratica) ciò che dal marxismo può essere indicato come momento tattico. Infatti “riforma” intesa come miglioramento delle condizioni di vita (sulla base delle richieste dei detenuti) è una cosa giustissima, e si può inserire, è inserita, in un progetto più ampio, quello di prendersi sempre maggiori spazi anche all'interno delle istituzioni, sulla base di precisi rapporti di forza, e per usare questi spazi non solo come vantaggio immediato, ma per consolidare la propria volontà, organizzazione, coscienza rivoluzionaria, quindi per risolvere con la rivoluzione comunista ogni problema. Intesa invece come sbocco finale e risolutivo, senza nessuna prospettiva di sviluppo della lotta di classe all'interno delle carceri, ma sostituendo ad essa dei raffinati criteri di integrazione e di asservimento, la “riforma” è reazionaria come qualsiasi cosa che serve gli interessi della borghesia.
I riformisti citano gli Usa, il Regno Unito, l'Urss come paesi dove certe brutalità nelle carceri non avvengono più. Ma queste persone poi non si spiegano perché in determinate occasioni negli Usa e nel Regno Unito vengono ripristinati i campi di concentramento (vedi marcia per la pace in Vietnam, in Usa, vedi Irlanda del Nord), non si spiegano le numerose rivolte nelle carceri di questi paesi, non si spiegano Jackson, a cui una “avanzatissima” riforma negava da anni ed anni la libertà, solo perché era un compagno; queste persone non si spiegano Attica.
In ogni caso, questa riforma, questo progetto rieducativo non si farà, resterà “un monumento giuridico di carta”, anche nel caso che sia approvato al più presto dal parlamento. E questo perché? Perché è impossibile applicarlo! Perché applicare certe norme, anche minime, significherebbe: abbattere quasi tutte le carceri esistenti e farne delle nuove (=centinaia di miliardi), rifare ex novo l'attrezzatura delle stesse (= miliardi + miliardi), ristrutturare tutto il settore burocratico che riguarda la giustizia e l'esecuzione delle pene (= ancora miliardi + centinaia e centinaia di intoppi e resistenze), rinnovare quasi completamente il personale (impossibile per due motivi: uno, per le resistenze di quello attuale; due, perché quello specializzato non c'è, e per fare del personale specializzato ci vogliono scuole, ristrutturazione di molti corsi di studio: spesa di miliardi, tempo di anni e anni).
Ma la ragione principale dell'inapplicabilità di una riforma “liberale” nel nostro sistema carcerario fascista è questa: la riforma presuppone che le masse detenute stiano buone buone, calme e tranquille a farsi osservare, curare, psicanalizzare, socializzare, reintegrare... E, proprio per il motivo che la situazione politica interna riflette quella politica a livello sociale, una riforma carceraria presuppone la pace sociale a tutti i livelli: insomma, è pensabile un carcere tranquillo e sereno solo all'interno di una società tranquilla e serena. Tutti ci rendiamo conto, invece, che la situazione politica attuale, in Italia, è quella dello scontro aperto in ogni campo tra borghesia e proletariato, e la situazione si andrà ancor più deteriorando (per i padroni): in questo quadro il riformismo – riforma casa, sanità, università, eccetera – è già saltato, non perché sulla carta queste riforme non si sono fatte, ma perché nei fatti già fin d'ora si dimostrano impotenti a risolvere i problemi, e soprattutto perché il proletariato (e non solo con le sue continue lotte) le rifiuta come non sue, come antipopolari, aborti politici del centro-sinistra e del riformismo in generale. La riforma carceraria non si è ancora fatta nemmeno sulla carta; e forse non si farà, perché lo scontro sociale in atto, suscitando una forte reazione di destra, ha portato queste forze ad arroccarsi su posizioni ultrareazionarie rispetto alla giustizia (basti ricordare la campagna per la pena di morte) spostando di riflesso tutto lo schieramento politico parlamentare su posizioni di destra o moderate su questo problema. Così si spiega un P.C.I. che non solo non fa nulla per la riforma carceraria e dei codici, ma addirittura auspica un rafforzamento delle misure repressive contro i cosiddetti delitti comuni. È probabile, comunque, che prima o poi sulla carta la riforma carceraria si farà. E in pratica? In pratica i detenuti non staranno con le mani in mano, e sicuramente la riforma “vera” la strapperanno loro, pezzo per pezzo, al prezzo di lotte, magari durissime, ma vincenti, come lo sono state la maggior parte di questi ultimi anni. Infatti pur rimanendo bestiale, la condizione dei detenuti oggi è lievemente, e a volte di gran lunga, migliore di qualche anno fa.
Questo non perché i direttori delle carceri si siano illuminati di colpo, ma perché le lotte, le rivolte, ben precisi rapporti di forza, hanno costretto il potere a cedere spesso e a migliorare abbastanza; queste lotte sempre più positive si sono sviluppate e si svilupperanno per la crescita politica del proletariato a livello sociale, cioè i proletari in prigione sono cresciuti di pari passo coi proletari fuori. Ma adesso non basta più la spontaneità, l'autonomia oggettiva dal revisionismo deve tradursi in autonomia soggettiva, organizzata in partito rivoluzionario; non si tratta quindi di stimolare nelle carceri rivolte su rivolte, lotte su lotte, slegate l'una dall'altra, ma nemmeno di favorire una organizzazione autonoma dei carcerati, una specie di sindacato degli esclusi e degli infelici: si tratta di stimolare un processo di crescita, di maturazione politica di centinaia e centinaia di detenuti, organizzati all'“interno” del partito rivoluzionario che sta crescendo, si tratta cioè di far passare il “sottoproletario” a persona cosciente dei propri diritti, certo, ma anche e soprattutto a comunista, cosciente dei diritti di tutti i proletari, di tutti gli sfruttati.
È chiaro che, in carcere, una pratica rieducativa borghese, ancorché avanzata, non solo non può fare questo, ma è proprio quello che deve impedire sul nascere.
Quale rieducazione dunque nelle galere? La risposta è ovvia: una scuola quadri rivoluzionari.
- Lettera di P. C. – San Vittore.
Milano, 10 maggio 1971.
... Tutto quanto viene detto oggi sulla “rieducazione”, il “trattamento”, eccetera, è fasullo. Non perché ci siano metodi errati, perché manchino i mezzi, o perché il detenuto sia irrecuperabile o psicopatico, o in esso “alberghi il maligno”, ma perché il presupposto da cui parte è errato (parlo delle proposte borghesi, naturalmente). Infatti l'esistenza di frange asociali e delinquenti è un dato ineliminabile, in una società classista. Anzi, vengono artificialmente prodotte e riprodotte. Questo la classe dominante lo sa benissimo. Per i gonzi ci sono gli articoli divulgativi, la “posta dei lettori”, i commenti della cronaca nera, e poi “i nuovi regolamenti”, le migliorie, Civitavecchia, Rebibbia, Alessandria, eccetera. Una sola cosa non viene mai detta, dai dotti criminologi e penitenziaristi, che la risocializzazione non è un fatto esterno, imposto, insegnato meccanicamente. Deve essere conquistato dall'individuo, come soggetto e non oggetto, e come appartenente ad una collettività. Questo significa che solamente acquistando coscienza sociale, di classe, il detenuto può rompere con la delinquenza, ma ciò porta ad una sola via d'uscita: quella di diventare un rivoluzionario. Ecco perché il sistema borghese blocca questa soluzione, e favorisce la produzione di criminali nelle carceri. Quindi siamo d'accordo su tutto. Anche sul fatto che qui dentro gli “unici” rieducatori possiamo essere noi, cioè quei detenuti che hanno coscienza di classe.