IL DIRITTO DELLA FORZA

"Il decennio 1990/2000, che l'ONU aveva proclamato decennio del diritto internazionale, si è aperto con una guerra in nome del diritto (la guerra del Golfo) e si è chiuso con una guerra in nome dei diritti umani (la guerra del Kosovo), così preparando la guerra al terrorismo che del diritto e dei diritti umani fa strame. I giuristi non sono innocenti".
(Salvatore Senese, in "Questione Giustizia", 2/2002)

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Un altro titolo immaginato per questa serata era Il fascino discreto del diritto, che bene suggerisce la difficoltà che si ha, anche a sinistra, a liberarsi dall'idea del diritto come possibile efficace strumento di risoluzione dei conflitti, interni e internazionali.
Il diritto ha un effetto soporifero sulle coscienze e le acquieta; rappresenta una apparente soluzione, di comodo ed ipocrita, perché chi delega ad altri il giudizio (e le sanzioni conseguenti) è consapevole (o, almeno, dovrebbe esserlo) dei limiti del giudizio stesso e della effettiva applicabilità delle eventuali sanzioni.
Ciononostante, si va a cercare sempre un giudice, a Berlino o altrove, oppure ora itinerante, come i Tribunali militari USA in corso di allestimento con giurisdizione ovunque, su tutto e su tutti, eccettuati, ovviamente, i cittadini USA.
Poiché per questi Tribunali non è previsto appello, l'istruttoria è segreta (fatta dai servizi) ed è immediata l'esecuzione della sentenza, che può essere ovviamente anche a pena capitale, è verosimile che i giudici viaggeranno con il boia a seguito.


Noi che viviamo di questo mestiere ci sentiamo spesso ripetere dai giudici: avvocato, sappiamo che noi possiamo al più cercare la verità processuale, consapevoli che questa è cosa ben distinta dalla verità vera, cioè quella storica, non mediata dai meccanismi processuali di accertamento.
Il giudice, quindi, giudica, consapevole della parzialità del suo giudizio; sennonché un giudizio parziale è inevitabilmente un giudizio falsato.
Se questo vale per la routine giudiziaria interna, a maggior ragione vale per i Tribunali internazionali, chiamati, per definizione, ad occuparsi di gravi vicende internazionali.
La commistione delle ragioni politiche e pseudopolitiche "garantirà", (comporterà inevitabilmente) un giudizio sicuramente parziale ed uso questa volta questo termine nella sua duplice accezione: contrapposto ad intero (cioè la verità storica) e di parte (cioè corrispondente agli interessi di una parte e quindi fazioso).
Ma se la collettività subisce il fascino del diritto, i giudici subiscono il fascino del potere e di buon grado si sono sempre prestati a svolgere quello che comunemente viene definito ruolo di supplenza.
Hanno, cioè, cercato di risolvere in sede giudiziaria vicende dalla ridotta implicazione giuridica e invece dalla rilevantissima implicazione politica.
La mente torna ai processi per lotta armata negli anni Ottanta o al più recente fenomeno detto "Mani pulite".
Nei processi politici per banda armata si è appieno rivelata la schizofrenia dello Stato, complice una accomodante magistratura: da un lato si doveva negare la politicità del fenomeno, che doveva essere ridotto il più possibile a mero evento criminale, sia pure aggravato dalla finalità di terrorismo (introdotta con legge apposita), termine questo che voleva sbrigativamente risolvere, negandola, la valenza politica della condotta illegale; dall'altro, la politicità delle condotte e dei soggetti imputati bene era tenuta presente al momento della sanzione penale, perché il giudizio era graduato in base al livello di antagonismo sociale di cui era ancora portatore l'imputato e non alla gravità del reato contestato.
Questo ha consentito di punire più severamente chi aveva ospitato un latitante o diffuso un volantino, ma si dichiarava pronto a rifarlo, che non un assassino pentito o dissociato.
Scusate la digressione ma serviva per meglio spiegare i meccanismi di esondazione dal ruolo istituzionale e quindi il relativismo e l'opportunismo della funzione giudicante, proporzionali alla gravità del fatto giudicato e alla sua rilevanza sociale e politica (per uno scippo le regole possono essere rispettate).
Se ciò vale per il diritto interno, pensate a livello internazionale.
Eppure illustri giuristi hanno firmato un appello sul Manifesto del 10.11.01 così riassunto nel sottotitolo: "La guerra iniziata il 7.10 non è giuridicamente legittima; l'attacco dell'11.9 non è stato fatto da uno stato contro un altro stato".
A livello di proposte si dice "Si riformi l'ONU, le si diano poteri forti, si istituisca la Corte penale internazionale".
L'appello ricorda che l'attacco aereo dell'11.9 non è definibile atto di guerra e quindi non consente la guerra come reazione di legittima difesa; ricorda che per l'art.42 Statuto ONU solo il Consiglio di Sicurezza può rispondere militarmente; per l'Italia, ricorda ovviamente la violazione dell'art.11 Cost. nonché, proceduralmente, il mancato rispetto degli artt. 78 e 87 Cost. che dicono come si deve fare a dichiarare una guerra (la procedura da seguire).
Denunciato tutto ciò, sarebbe stato logico attendersi una coerente conclusione: i trattati sono carta straccia, idem la Costituzione, prendiamone atto e riconosciamo che l'unico diritto vigente è quello della forza (militare, economica, politica).
Invece no: occorre riformare l'ONU e in particolare il suo Consiglio di Sicurezza (che ha competenza esclusiva sull'uso della forza) ed occorre introdurre la Corte penale Internazionale, supremo giudice mondiale.
Questi giuristi si rendono conto di fare riferimento ad armi spuntate: dicono che l'ONU ha troppo spesso abdicato al suo ruolo e, testuale, "ha omesso di svolgere il proprio ruolo istituzionale in dispregio delle norme pattizie" (d'obbligo a questo punto il riferimento alla Palestina); dicono che la Corte Penale Internazionale deve avere "maggiore autonomia ed imparzialità dei Tribunali sino ad oggi costituiti", attribuendo così a questi giudici faziosità e asservimento agli interessi politici (il pensiero va al processo in corso contro Milosevic).
Ciononostante, quelle dette sono le loro conclusioni.
Una lettera di critica a questo appello non è stata pubblicata, a dimostrazione di quanto lavoro ci sia da fare, anche a sinistra, non solo in tema di diritto ma anche di informazione.
A dire il vero, un articolo di Rossanda "Fine delle regole" sembra dare una risposta indiretta a queste critiche, ribadendo l'importanza delle regole.
Si dice: "Affermare che non ci possono essere regole è una maniera di legittimare uno stato di guerra di tutti contro tutti, o della guerra del più forte contro chi lo è meno".
Mi sembra facile replicare: affermare che ci sono le regole, nella consapevolezza che sono però quotidianamente irrise e disprezzate, e affermare che solo queste regole, benché irrise e disprezzate, sono l'ancora di salvezza per il ripristino della legalità, vuol dire ingannare e disarmare, relegando il problema in un ambito dichiaratamente perdente come quello del diritto.
Devo sciorinare a titolo di esempio per l'ennesima volta tutte le risoluzioni ONU disattese sulla Palestina? 181/47, 242/67, 338/73 sino alle ultime due recenti del Consiglio di sicurezza?
Dobbiamo attendere la Corte belga per essere certi che Sharon è un criminale le cui mani grondano sangue da Shabra e Chatila a ieri?
Intanto, per prudenza, i testimoni scomodi vengono fatti saltare in aria con l'autobomba il giorno prima della loro audizione.
Ogni anno l'Assemblea Generale dell'ONU ha votato risoluzioni sulla Palestina; contro gli insediamenti nei territori occupati (e Israele li ha sempre ampliati, anche dopo Oslo e soprattutto sotto i laburisti, con una politica di immigrazione e demografica che la dice lunga sul progetto del Grande Israele); in favore dell'Intifada (salvo oggi chiamare terroristi coloro che, disperati, giungono a sacrificare se stessi come sola arma disponibile e soldati quelli che, in divisa, sparano ai bambini tra le braccia dei genitori o quando tirano pietre contro i carri armati o alle donne quando vanno a raccogliere acqua); a favore del ritorno dei profughi (che ancora affollano i campi in Libano e in Giordania o sono dispersi nel mondo ed ora anche imprigionati a migliaia in Israele).
Nel 1988 e nel 1990 l'Assemblea generale ONU si è dovuta spostare a Ginevra per ascoltare Arafat, perché gli USA gli avevano negato il visto per New York, a dimostrazione del dominio anche territoriale degli USA sull'ONU.
In una Assemblea ONU Bush non ha neppure salutato Arafat: eppure gli USA sono indicati come i soli mediatori possibili per il Medio Oriente, nel complice silenzio dell'Europa.
Ai primi di dicembre i paesi firmatari della 4È Convenzione di Ginevra hanno stabilito, senza più le reticenze degli anni precedenti, che la 4È Convenzione si applica al conflitto Israele/Palestina e che Israele è, a tutti gli effetti, una potenza occupante e gli insediamenti sono illegali.
L'uccisione dei civili viola la Convenzione. Ma non per questo non prosegue a ritmo massiccio.
Quando si vuole fare rispettare una risoluzione, se ne hanno gli strumenti: ricordiamo la risoluzione 660 del 2.8.90 di condanna dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, poi quella sull'embargo, e infine quella n. 678 del 29.11 che ha consentito l'aggressione contro il popolo iracheno e il milione e mezzo di morti per embargo.
Non pretendo il bombardamento di Tel Aviv, ma vi immaginate le conseguenze anche solo di un blocco economico dei beni israeliani? O un embargo sui loro prodotti?
Domanda ridicola, prima che retorica, perché avremmo ripercussioni dirette sull'economia USA vista la forza economica e politica della lobby ebraica (ma il mediatore non dovrebbe essere imparziale?).
Invece si sequestrano (congelano) i patrimoni di ONG o fondazioni sospettate di collegamenti con Hamas.
E le violazioni della Convenzione di Ginevra?
L'ONU le ha denunciate più volte; attualmente abbiamo 160 minori palestinesi (14-17 anni) detenuti in attesa del giudizio delle Corti militari israeliane; 194 ragazzi (dato di fine Novembre) sotto i 18 anni sono stati uccisi dalla passeggiata di Sharon in poi; 7.000 sono i feriti (su 1000 uccisi e 20.000 feriti complessivamente).
Questi erano i dati di dicembre.
Ora si aspetta il conto della Croce Rossa Internazionale.
Ž di oggi (18/4/02) l'opposizione USA a una indagine su Jenin.
A proposito di diritto e di Corti militari israeliane, vogliamo fermarci un attimo sul garantismo dei processi in Israele?
Mi limito a una veloce lettura. Cito, come sempre, ebrei israeliani per evitare la consueta accusa di antisemitismo. Dal libro di Felicia Langer "La repressione di Israele contro i palestinesi" "Il principale strumento repressivo impiegato contro i palestinesi dalle autorità israeliane sono le leggi eccezionali ["Defence (Emergency) Regulations"] introdotte dagli inglesi nel 1945 per far fronte alla resistenza ebraica in Palestina, e mantenute nella legislazione israeliana dopo la creazione dello Stato ebraico. Da rilevare, tuttavia, il fatto che le leggi eccezionali sono impiegate esclusivamente contro gli arabi, dato che l'ultimo caso di un ebreo colpito da queste leggi risale al 1951. Si tratta di un complesso di norme fasciste, brutalmente repressive, che tra l'altro autorizzano la famigerata "detenzione amministrativa", cioè la possibilità di imprigionare illimitatamente e senza nessuna motivazione qualsiasi cittadino. Che si tratti di norme apertamente e inequivocabilmente fasciste lo hanno detto per primi proprio quelli stessi che oggi le applicano. Nel corso di un'assemblea di giuristi ebrei svoltasi a Tel Aviv il 7 febbraio 1946, il dottor Jakov Shapira, che in seguito sarebbe stato procuratore generale dello Stato di Israele e ministro israeliano della giustizia, affermava: "Il regime instaurato con la promulgazione delle Defence Regulations in Palestina non ha il suo equivalente in nessun paese civile. Nemmeno nella Germania nazista esistevano leggi del genere; ... .
Il trasferimento di una gran parte della giurisdizione civile a una giurisdizione esclusiva o parallela dei tribunali militari significa la negazione della stessa legge....".
A conclusione della riunione in cui il dottor Shapira pronunciava questa durissima condanna veniva adottata la seguente risoluzione: "L'assemblea dei giuristi ebrei in Palestina, riuniti il 7 febbraio 1946 a Tel Aviv, constata che: 1. Le Defence Regulations privano i cittadini delle loro libertà fondamentali; 2. Le Defence Regulations minano i fondamenti della legalità e delle leggi e costituiscono una minaccia grave contro la libertà dell'individuo e contro la sua vita. Esse instaurano un regime di arbitrarietà senza alcun controllo giuridico. L'assemblea chiede la loro abolizione".
Queste leggi mostruose che giustamente suscitavano l'indignazione dei giuristi ebrei di Palestina e del dottor Shapira sono state mantenute in vigore e massicciamente impiegate per schiacciare la resistenza palestinese. Quanto al dottor Shapira, divenuto procuratore generale e poi ministro della giustizia di Israele, si è macchiato della non lieve colpa di aver concorso consapevolmente all'applicazione di quelle norme contro cui tanto eloquentemente aveva saputo parlare nel 1946".
Ecco le leggi. Ecco i giudici. E c'è chi ancora parla di Israele come di uno stato democratico e di diritto.
Questo passo è di estrema attualità benché il libro dell'avvocatessa Langer sia del 1976.
Guardate la legislazione che si sta affermando negli USA e in Inghilterra: competenza dei tribunali militari, detenzione di persone, di cui non è rivelato il nome, senza processo e senza accusa (attualmente 1100 negli USA), ripristino della tortura come legittimo strumento di interrogatorio (lungo è stato in Israele il dibattito sulla quantità di tortura applicabile legittimamente e molti sono stati i processi rinviati per "impresentabilità" dell'imputato).
Tutto questo, naturalmente, in deroga (e quindi in violazione) della Convenzione europea sui diritti umani.
E non cado nel tranello di andare a verificare a quali paesi si applica questa convenzione: sono norme talmente elementari a garanzia di diritti che, recepite o meno formalmente, dovrebbero comunque essere assicurate in qualsiasi stato che si definisca di diritto.
Tutto ciò è poca cosa se si pensa alla licenza di uccidere.
Sinora era consentito farlo legalmente solo agli Stati per esecuzione di pena.
Ora si allarga il campo: i servizi USA hanno ricevuto ufficialmente la licenza di uccidere nel corso delle operazioni; gli omicidi mirati di dirigenti palestinesi sono rivendicati da Israele come legittimi; i prigionieri in Afghanistan sono stati massacrati (con il pretesto della ribellione, che vedeva forse all'origine la tortura ad opera dei due agenti segreti della CIA e della SAS; mi riferisco al carcere di Mazar i Sharif, circa 600 morti, in buona parte ancora legati).
Per quelli che credono al diritto ricordo le norme violate: protocollo del 1949 alla Convenzione di Ginevra e le leggi di guerra dell'Aia del lontano 1907 (forse nel '15-18 saranno state più rispettate).
Si discute ora della loro applicabilità ai prigionieri detenuti a Guantanamo.
Naturalmente nessuno incrimina per istigazione al genocidio Rumsfeld, segretario alla difesa USA, che invita a non fare prigionieri.
A proposito di Rumsfeld: la competenza ad esercitare l'azione penale con i nuovi tribunali militari USA è di Bush e di Rumsfeld, quanto di meno giuridico è possibile immaginare.
Poi l'istruttoria è fatta dai servizi, eventualmente con la tortura; il giudizio è affidato ai militari. Segue il boia. E si continua a parlare di diritto.
L'esperienza in tema di garanzie e diritti agli USA non manca: si sono sempre presentati come baluardo di pace e di democrazia anche in Guatemala, Santo Domingo, Salvador, Cile, Vietnam, Nicaragua, Granada, Panama.
Qualche volta si sono pentiti: Clinton ha chiesto scusa al Guatemala!
Gli USA sono sempre stati uno Stato penale, cioè in grado di fornire ai problemi di ordine pubblico e di criminalità, favoriti dalle grandi sperequazioni sociali di quel Paese, solo risposte repressive.
Hanno oltre 2.milioni di detenuti (triplicati negli ultimi 15 anni).
Ora giustamente Danilo Zolo (peraltro firmatario dell'appello prima ricordato) parla di Impero penale: i nemici sono eliminati, oltre che militarmente, anche attraverso meccanismi giudiziari ad hoc.
Un mio amico ex BR che la sa lunga sulla propria pelle in tema di repressione (è detenuto da 24 anni) osserva che è meno pericoloso un esercito che agisce alla luce del sole che un sistema poliziesco che agisce nella nebbia.
La polizia allarga la sua sfera di operatività, dotata dei necessari strumenti (segretezza e licenza di uccidere).
Se le guerre sono operazioni di polizia, il dissenso e la lotta politica diventano crimine: si veda qualche difficoltà nella redazione dell'elenco dei gruppi terroristi (Batasuna e Gestoras pro amnistia?) e nella stessa definizione di terrorismo.
Perché i ceceni sono terroristi e gli nighuri (islamici di etnia turca che vivono in Cina) no? Entrambi lottano con armi contro il governo centrale. Ma gli USA non possono incrinare i buoni rapporti con la Russia mentre hanno interesse a mantenere un contenzioso con la Cina.
Gli Nighuri, quindi, non sono terroristi e i cinesi sono criminali se li reprimono. C'è poco di giuridico in tutto questo.
La definizione data il 6 dicembre dall'Unione Europea all'azione terroristica si adatta perfettamente alla strage dei civili in Afghanistan, all'embargo contro l'IRAQ recentemente rinnovato per altri 6 mesi e, ovviamente, a tutta la politica israeliana che potrebbe quindi portare anche tecnicamente alla qualificazione di Israele come Stato terrorista.
Questa la definizione: "un'azione che ha l'obiettivo di intimidire gravemente una popolazione; di obbligare indebitamente i poteri pubblici o una organizzazione internazionale a fare o astenersi dal fare qualcosa; di destabilizzare gravemente o distruggere le fondamentali strutture politiche, costituzionali, economiche o sociali di un paese o di una organizzazione internazionale".

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Un inciso, visto che forse l'Italia tornerà in Somalia: le nostre truppe di invasione in Etiopia erano chiamate "polizia coloniale": nulla cambia.
Torniamo al tema: sembra difficile contestare che il diritto della forza è tutto; la forza del diritto è nulla.
Ho fatto prima un accenno al processo in corso contro Sharon avanti al Tribunale penale di Bruxelles.
Vale la pena di tornarci per un'altra considerazione: la giustizia è, sovente, forte con i deboli e debole con i forti.
Questo stesso Tribunale ha condannato, sulla base della stessa contestata legge del 1993 che gli attribuisce giurisdizione e competenza su chiunque abbia commesso delitti in violazione della Convenzione di Ginevra, 4 civili ruandesi per un massacro di Tutsi (sentenza di giugno 2001).
Le cose con Sharon stanno andando diversamente.
Tutto è fermo ancora alla fase di ammissibilità del giudizio, tra eccezioni varie. Ma, soprattutto, è in atto un duro attacco politico contro il Belgio da parte di Israele che considera il processo in corso non un atto di giustizia ma un attacco politico ad Israele.
Qualcuno spera nell'autonomia della magistratura belga. Io no e comunque basterebbe modificare la legge, come è stato già ipotizzato, reintroducendo l'esenzione per immunità diplomatica (i miei dubbi sono sorretti anche dalla recente ordinanza del giudice istruttore Collignon sulla eccezione di incompetenza sollevata dalla difesa di Sharon).
Un'ultima osservazione: la panacea di tutti i mali dovrebbe essere il neo costituito Tribunale penale internazionale.
Intanto si deve osservare che si è giunti alla 60È ratifica grazie al Liechtenstein, S. Marino, Andorra, Cipro, Lussemburgo, Trinidad e Tobago, ƒ . Non aderiscono invece USA, Russia, Cina, Israele.
L'avvio non è dei più incoraggianti. Gli stessi sostenitori parlano di funzione deterrente, di mezzo di denuncia, di utile sponda per le vittime più che di reale strumento di accertamento di verità.
La Corte è competente, inoltre, solo sui cittadini degli Stati che hanno aderito oppure su chi commette crimini di guerra, genocidio e crimini contro l'umanità nel territorio di questi Stati.
Considerati gli Stati che ne hanno accettato la giurisdizione, l'eventualità appare remota.
Gli USA hanno dichiarato che mai aderiranno e mai collaboreranno (lo ha vietato il senato con 78 voti contro 21). Le ragioni sono evidenti: evitare il fastidio di un giudizio penale su tutti i crimini commessi (alcuni peraltro anche riconosciuti, come nel caso ricordato del Guatemala).
Gli USA non hanno mai ratificato alcuna convenzione internazionale sui diritti umani e neppure il Patto Internazionale ONU sui diritti civili e politici del 1966.
Questo patto, tra l'altro, non avrebbe consentito l'istituzione degli attuali Tribunali militari, perché speciali, riservati, cioè, solo a una categoria di persone (i non cittadini).
Domenico Gallo (altro giurista firmatario dell'appello ricordato) così si esprime sui Tribunali militari USA: "Ci troviamo di fronte più che a una struttura giudiziaria, ad uno strumento per la prosecuzione della guerra con altri mezzi: una sorta di attrezzatura legale che consente all'apparato di continuare l'azione offensiva intrapresa con i bombardamenti".
Giusta e condivisa osservazione (che accresce il rammarico per le conclusioni dell'appello dei giuristi).
Ž il potenziale imputato a decidere se, quando e da chi farsi giudicare; le risposte che dà sono: mai e da nessuno.
Ed è ben comprensibile.
Nello stesso tempo, istituisce propri tribunali che giudicano tutti, ovunque.
I soliti governi servi si stanno già adeguando: si è detto dell'Inghilterra; in Italia è significativo il progetto di riforma dei servizi segreti: tutti i crimini sono consentiti tranne l'omicidio; sono consentite perquisizioni e intercettazioni preventive, tutto senza transitare dalla Autorità giudiziaria, per evitare il rischio di qualche fastidioso controllo.
Si delinea un futuro in cui una sorta di terrorismo poliziesco-giudiziario governerà il mondo.
E c'è chi parla ancora di diritto quando assistiamo a un progetto imperiale che passa attraverso una pesante involuzione autoritaria e un nuovo totalitarismo che include il riarmo atomico, chimico, batteriologico: il tutto in piena legalità perché la disdetta del trattato ABM del 1972 che lo vietava è stata tempestiva: sei mesi prima, come un contratto di locazione di immobile.
Milano, dicembre 2001 / aprile 2002

(avv. Ugo Giannangeli)