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La terzomondizzazione della società statunitense
La situazione interna degli USA oggi
Relazione svolta da Bruno Cartosio, 15 dicembre 2001
C.S.O.A. Cox 18 - Archivio Primo Moroni - Libreria Calusca City Lights
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Marco: Prima di dare la parola a Bruno Cartosio vorrei farvi alcune comunicazioni rispetto allo svolgimento della giornata. Contiamo di finire con la relazione di Bruno e col dibattito entro le sette e mezzo, perche poi è prevista la proiezione di un film di Harun Farocki I Thought I Was Seeing Convicts (Pensavo di vedere dei prigionieri), su di un carcere di massima sicurezza in California. Finito questo video, ci saranno un buffet e poi un'altra proiezione: Law and Order (Legge e ordine), un film di Frederick Wiseman sulle istituzioni repressive americane.
Vorrei ricordarvi altre due cose: la prima è che l'incontro Il diritto della forza, previsto per giovedì scorso, è stato rinviato per ragioni di forza maggiore, cioè la neve, e si terrà nel mese di gennaio; la seconda è che giovedì prossimo, 20 dicembre, alle ore 21.30 ci sarà un'altra riunione intitolata: "Non passa lo straniero!": la Fortezza Italia dalla legge Turco-Napolitano al progetto Bossi-Fini in materia d'immigrazione.
Diamo ora la parola a Bruno Cartosio, che c'illustrerà la situazione sociale interna degli Stati Uniti, un po' prima, durante e dopo l'11 settembre.
Bruno: Grazie. È come se fosse una seconda puntata, dal momento che qualche settimana fa insieme con Federico Romero abbiamo parlato della politica estera statunitense, e più precisamente della posizione e del ruolo degli USA nel mondo odierno, analizzando la complessità delle ragioni per cui gli Stati Uniti hanno contribuito a creare proprio quella situazione della quale incolpano forze esterne a loro. Ora dovremmo parlare della situazione sociale interna, di cui si continua a tacere o quasi. Si continua a fare come se le cose andassero bene per tutti, il che non è proprio vero. E nonostante io sia uno di coloro i quali da anni si sforzano di mettere in circolazione qualche informazione un po' meno colorata di rosa, la gran parte di quelli che parlano o scrivono degli Stati Uniti sui vari giornali continua a raccontare un'altra storia. Allora, se io dovessi dare un titolo al discorso di oggi, un po' provocatoriamente ma con forti elementi di concretezza, questo sarebbe: La terzomondizzazione della società statunitense.
La volta scorsa avevo fatto alcuni riferimenti al fatto che quello che avviene negli Stati Uniti oggi corrisponde in modo sostanziale - e più di quanto s'immagini - a quello che avviene in giro per il mondo. La polarizzazione sociale all'interno degli Stati Uniti corrisponde cioè largamente a quella che si è prodotta fra ricchi e poveri nel resto del mondo durante gli ultimi 30-40 anni, in particolare durante gli ultimi 25-30. E dal momento che la distanza tra ricchi e poveri si è approfondita in tutto il mondo, diventa ancora più importante notare come all'interno degli Stati Uniti si sia determinato un processo analogo. Paul Krugman, un economista liberale che scrive su vari giornali e riviste, tra cui il New York Times, in un libro intitolato L'età delle aspettative diminuite scrive che, a partire dagli anni Ottanta, il fatto centrale della vita economica degli Stati Uniti è la questione della diseguale distribuzione dei redditi, cioè della divaricazione nella loro distribuzione. È una cosa talmente evidente che ha finito per non essere neppure più discussa. Non c'è dubbio, aggiunge Krugman, che nessuna delle politiche recenti o prevedibili riuscirà a invertire la tendenza in atto. Dunque possiamo dire tutto il peggio possibile e immaginabile di Bush, ma non dobbiamo dimenticare che tutti gli ultimi vent'anni sono stati caratterizzati da questo processo, iniziato brutalmente con la presidenza Reagan e poi proseguito con quelle di Bush padre, di Clinton, di Bush figlio.
Se si guarda al quadro internazionale, non c'è dubbio che le grandi istituzioni sovranazionali - cioè l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con il supporto dei grandi accordi regionali come il NAFTA, l'ASEAN e in prospettiva anche l'FTAA - hanno avuto come obiettivo primario quello di garantire il libero movimento dei capitali attraverso i confini nazionali. Sul piano globale queste istituzioni sono tra gli agenti principali della globalizzazione capitalistica e finanziaria. Ora, se si parte da qui e si guarda sia al piano generale e globale, sia a quello interno agli USA, si vede che gli effetti dell'attività di queste grandi organizzazioni - le cui decisioni sono sintonizzate sulla lunghezza d'onda del grande capitale, non di quella della maggioranza delle popolazioni mondiali - sono essenzialmente gli stessi su entrambi i piani. Attraverso la loro azione vengono ridotte le autonomie decisionali degli stati nazionali in ambiti decisivi come le scelte di politica economica, finanziaria e commerciale, riducendo il "peso politico" dei singoli stati e facendo del controllo sociale la loro funzione in buona misura prevalente ed essenziale. (Un piccolo "a parte", su un aspetto che non possiamo trattare qui: quanto appena detto vale in generale, ma nel caso degli Stati Uniti le cose stanno un po' diversamente: è come se a capo dell'amministrazione fosse stato messo un rappresentante diretto del grande capitale, il cui compito è quello di imporre sul proprio paese i dettati delle istituzioni sovranazionali che gli stessi USA contribuiscono a decidere e sugli altri paesi le politiche che gli USA ritengono più convenienti per i propri interessi o consonanti con la propria visione del mondo.)
Emerge qui un punto importante: i capitali e le merci possono girare indisturbati per il mondo (naturalmente sotto la tutela delle organizzazioni che sono espressione degli interessi economico-politici egemonici); l'unica "cosa" che non può farlo sono le persone, nei confronti del cui movimento transnazionale esistono quasi dappertutto forti blocchi e preclusioni. Gli sbarramenti non riescono a impedire il movimento delle decine di milioni di migranti che attraversano i confini, ma un risultato l'ottengono: quello di far sì che altrettanti milioni di uomini e donne, grazie alle condizioni in cui avviene il loro ingresso nei Paesi d'accoglienza, siano costretti all'illegalità e alla marginalità; che siano costretti cioè a entrare, quando vi riescono, nel mercato del lavoro in condizioni totalmente non protette e non assicurate, totalmente prive di paracadute sociali, di previdenza, di assistenza e così via.
Questi migranti - clandestini e non, perche la condizione di chi è legale tende a essere socialmente assimilata a quella di chi è ancora più debole (e questo avviene comunque, anche prima della legge Bossi-Fini) - vengono emarginati socialmente e tuttavia utilizzati nel mercato del lavoro in condizioni di assoluta precarietà, di salari inferiori, di lavoro nero, cioè in condizioni che sono destinate ad avere effetti deleteri prima di tutto su di loro ma anche sul mercato del lavoro nel suo complesso. È per questo che questa gente non è amata? Forse sì, ma soprattutto è su questi dati di fatto di cui essi sono vittime che vengono innalzate le costruzioni ideologiche di attacco e di discriminazione, di xenofobia e razzismo. Si è ben contenti di utilizzarle nei luoghi di lavoro perche costano poco, anche se - dicono - contribuiscono a rendere più insicura la condizione sociale generale; ma su questa "insicurezza" viene costruita una mobilitazione ideologica che permette di invocare "legge e ordine", ridurre libertà e diritti, precarizzare il lavoro, creare discriminazioni. Il tutto utilizzando quelli che sono le maggiori vittime dell'intero processo: in inglese si dice blaming the victim, dare la colpa alla vittima per l'oltraggio che subisce.
Su questo si potrebbe fare però un altro tipo di ragionamento di carattere più ampio e meno contingente. Le migrazioni di popoli hanno sempre caratterizzato tutte le rivoluzioni industriali: la prima (dal Settecento fino ai primi dell'Ottocento), la seconda (tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento) e la terza (quella degli ultimi venticinque anni). La prima ha avuto per epicentro l'Inghilterra; la seconda ha avuto per epicentro gli Stati Uniti e, diversamente dall'altra, si è allargata rapidamente a zone molto più ampie. Quella che stiamo vivendo avviene contemporaneamente in varie aree del mondo.
La prima rivoluzione industriale comportò in Inghilterra un grosso spostamento di popolazioni dalle campagne alle città e il trasferimento di alcune decine di milioni di africani che, in rapporto con le trasformazioni in corso in Inghilterra, venivano presi dall'Africa e deportati come schiavi nelle Americhe a lavorare e a produrre quei profitti che poi servivano per finanziare la rivoluzione industriale in senso proprio nella madrepatria. Marx dice: non si spiega la "schiavitù del salario" in Europa senza la "schiavitù senza aggettivi" nel Nuovo mondo. Nell'arco di 70-80 anni vennero spostati dalle campagne alle città e dall'Africa alle Americhe 30 o 40 milioni di persone.
Al tempo della seconda rivoluzione industriale gli Stati Uniti divengono bacino d'attrazione per un'immigrazione che si allarga e che proviene da gran parte del resto del mondo, soprattutto dall'Europa ma anche dall'Asia. E in periodo che va dal 1880-85 fino alla prima guerra mondiale, cioè in un arco di tempo pari alla metà o poco più di quello della prima rivoluzione industriale, lo spostamento di persone è grosso modo lo stesso, 30 o 40 milioni, ma con un bacino di provenienza assai più grande, comprendente l'Europa, l'Asia e le Americhe.
La terza rivoluzione industriale, di questi ultimi 25 anni, si è allargata al di fuori degli Stati Uniti e ha i suoi centri nei "centri" più avanzati dell'economia mondiale, distribuiti nei diversi continenti. Finora essa ha mobilizzato almeno altri 30 o 40 milioni di persone, che si spostano attraverso i confini di tutti gli Stati del mondo in risposta al gioco di spinte (push) e attrazioni (pull) che coinvolge i "centri" e le "periferie" mondiali. Il processo con cui siamo costretti a fare i conti sul piano locale e di cui vediamo i segni in molti ambiti della nostra società travalica largamente il problema dei confini dell'Italia. È ridicolo pensare di poter bloccare un processo di dimensioni mondiali come questo con una legge, per quanto infame essa possa essere, come quella Bossi-Fini. Per quanto riguarda gli Stati Uniti bisogna dire che in questi ultimi anni, dal 1985 in avanti, l'immigrazione è maggiore che nel periodo che va dall'ultimo decennio dell'Ottocento fino alla Grande Guerra, il periodo cioè dell'immigrazione "storica", cui parteciparono e contribuirono, fra gli altri, anche gli italiani. Benche la situazione sociale degli Stati Uniti sia peggiorata, e in modo molto sostanziale, le dinamiche socioeconomiche nelle nazioni dell'ex Terzo mondo sono talmente distruttive che milioni di persone, piuttosto che morire di fame nei loro Paesi, partono e vanno a vivere in miseria o povertà negli Stati Uniti.
In sostanza le trasformazioni indotte anche negli USA da questa terza rivoluzione industriale - che è stata avviata alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta dalle grandi potenze economiche del Paese, in parte in risposta alla protesta sociale e di classe interna e in parte in risposta alla crescita del Giappone e dell'Europa - hanno creato un vero e proprio terremoto sociale, che ha dato vita alla fase che ho definito prima di "terzomondizzazione" degli Stati Uniti. E' di questa che dobbiamo parlare ora.
Gli elementi essenziali di questo terremoto consistono in una generale perdita di reddito delle famiglie. Per l'80 per cento delle famiglie statunitensi i redditi degli anni Novanta sono rimasti al di sotto dei livelli che erano stati raggiunti alla metà degli anni Settanta; nel 2000 i redditi dell'80 per cento delle famiglie si sono riportati al livello del 1989. Però nel 2001 è anche cominciata la recessione, per cui quest'anno i redditi e i salari sono di nuovo in calo, la disoccupazione è in aumento e quindi, probabilmente, ci sarà di nuovo un arretramento. C'è stato un crollo verticale dei salari: oggi i salari negli Stati Uniti sono più bassi di quanto fossero nel 1973, anno in cui hanno raggiunto l'apice di una fase di crescita protrattasi, con qualche ondulazione, dal 1945 al '73. Fra il 1973 e il '79 c'è stata una sostanziale difesa dei livelli salariali, che dal 1979 ai primi anni Novanta hanno invece subìto un calo costante. Durante quei famosi dieci anni di benessere economico clintoniano, i salari hanno ripreso a salire, ma molto lentamente e oggi sono ancora alquanto lontani dai livelli del '73. In breve, c'è stata una perdita brutale, resa possibile anche dalla distruzione scientifica delle organizzazioni sindacali.
Ho scritto di quanto i sindacati statunitensi, nel corso degli anni, si fossero burocratizzati, allentando i rapporti con la classe operaia che avrebbero divuto rappresentare. Tuttavia, fatte tutte le critiche possibili al sindacato statunitense - che negli ultimi anni ha deciso d'invertire rotta e di ricercare un contatto con la base, ricreando le possibilità d'un sindacato di movimento -, detto quindi tutto il male possibile dei sindacati statunitensi fino alla metà degli anni Novanta, bisogna ricordare una caratteristica di quel modello sindacale: la difesa del salario. Per questo il perseguimento dei tagli salariali si è accompagnato con un'offensiva antisindacale senza precedenti, condotta con tutti i mezzi. Ancora oggi, nonostante il declino sindacale e salariale, i lavoratori sindacalizzati, a parità di collocazione lavorativa, di livello e di mansioni, prendono il 30 per cento in più dei lavoratori non sindacalizzati. Questa forte diversità ci fa capire perche la politica di distruzione dei sindacati sia stata così decisamente perseguita dalle grandi imprese e dalle presidenze Reagan- Bush e, meno apertamente, anche da quella Clinton. Semplicemente, distruggere i sindacati vuol dire eliminare ogni benche minima, residua possibilità d'autodifesa e quindi abbassare drasticamente il costo del lavoro. Oggi i sindacati rappresentano solo il 13 per cento dei lavoratori nel settore manifatturiero e il 9 per cento nel settore privato nel suo complesso, quindi è facile capire quanto i lavoratori statunitensi siano alla merce delle imprese che tagliano i salari.
Naturalmente questi due elementi combinati contribuiscono all'altra grande trasformazione, quella riguardante i rapporti di lavoro, sempre meno a tempo indeterminato, sempre più precari, a tempo parziale, a tempo determinato. Il part-time caratterizza in particolare il lavoro delle donne, che sono entrate massicciamente nel mercato del lavoro: due lavoratrici su cinque sono costrette al part-time. Dico costrette, perche il loro lavoro domestico e di cura deve supplire alla mancanza di servizi sociali. Il lavoro fuoricasa è complementare a quello in casa, e con quest'ultimo deve "spartirsi" la giornata.
Bisogna ragionare: una certa dose di flessibilizzazione nei rapporti di lavoro, soprattutto in materia di orario, è stata anche ricercata dai lavoratori e dalle lavoratrici, ma naturalmente bisogna tenere conto della diversità che corre tra flessibilità e precarizzazione. Negli Stati Uniti, ciò che è stato offerto in una certa misura è stata la flessibilità, ma quello che è stato attuato nella stragrande maggioranza dei casi è stato la precarizzazione. Questa, a sua volta, porta con se la distruzione di quel poco di welfare che esisteva. Tutte le forme di protezione sociale istituite tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta sono state drasticamente ridotte, se non proprio distrutte, e questo ha contribuito a creare un aumento della precarietà sociale senza proporzioni e senza precedenti.
Il risvolto di questa politica è stato l'aumento della libertà delle imprese - libertà d'azione, libertà di movimento, libertà di evadere le tasse (la quantità di imprese che non pagano le tasse o pagano molto meno di quanto dovrebbero è aumentata enormemente negli ultimi decenni). Sono stati pubblicati studi in cui si mostra che, così come le imprese avevano messo in piedi uffici legali il cui scopo primario era quello di distruggere o ostacolare il sindacato, esattamente la stessa cosa è stata fatta riguardo la questione del prelievo fiscale. Infatti, nonostante l'aliquota sia stata abbassata e portata al 35 per cento - era più alta all'inizio dell'era Reagan - le imprese hanno trovato il modo di eludere il pagamento delle tasse, riuscendo a ridurlo o eluderlo. All'interno del discorso sulla liberalizzazione dei movimenti economici e fiscali e sulla libertà di movimento delle imprese - che oltre tutto non è vincolata da controlli o dalla contrattazione con i sindacati - c'è anche, naturalmente, la possibilità di andare a investire fuori dei confini USA, in Messico per esempio, dove il costo del lavoro è un terzo di quello statunitense, oppure in altre parti del mondo, dove i costi del lavoro sono ancora più bassi.
Sotto questo riguardo, esistono tuttavia analisi diverse. Per esempio, Business Week, una tra le riviste economiche che vanno per la maggiore negli Stati Uniti, qualche anno fa faceva un ragionamento secondo il quale i costi unitari di produzione nei Paesi dell'ex Terzo mondo non sono di molto inferiori a quelli negli Stati Uniti; e ciò perche è vero che i salari sono a volte molto bassi, ma anche la produttività del lavoro è bassa. I lavoratori, cioè, costano meno ma producono anche meno; negli Stati Uniti costano di più ma producono anche di più. Ciò che rende comunque convenienti questi trasferimenti è il fatto che negli ultimi 15-20 anni le imprese USA hanno trovato il modo, attraverso un sistema di scatole cinesi, di evitare di pagare le tasse sia nei Paesi in cui hanno spostato la produzione, sia nel Paese da cui provengono. Di fatto, la logica dello spostamento degli impianti di produzione nei Paesi dell'ex Terzo mondo si spiega col fatto che permette di non pagare le tasse o di pagarle in misura ridotta alla fine di lunghe trafile legali, di controlli fiscali ecc. e solo dopo 10, 15 o più anni.
L'insieme dei processi qui molto schematizzati ha condotto, come dicevo all'inizio, a una polarizzazione spaventosa della ricchezza. Al riguardo, cito alcuni dati di assoluta evidenza. Il 20 per cento più ricco della popolazione negli Stati Uniti detiene l'83 per cento della ricchezza delle famiglie, il che equivale a dire che l'80 per cento delle famiglie si divide il 17 per cento della ricchezza nazionale. Questa divaricazione è senza precedenti: prima dell'inizio di questa fase, e cioè negli anni Sessanta, la distanza dei ricchi dal resto della società era inferiore della metà.
Ecco altri dati sui redditi: negli anni Ottanta e nei Novanta, i redditi dei più poveri sono diminuiti, la fascia centrale nota come middle class ha visto i suoi redditi crescere del 2 per cento; il 5 per cento superiore della società statunitense li ha aumentati del 27per cento. Osserviamo ora la distanza fra le retribuzioni dei lavoratori e quelle dei dirigenti: nel 1980 lo stipendio di un dirigente era 42 volte più alto di quello di un lavoratore, nel 1990 era salito a 84 volte e nel 1999 era a 475 volte.
Qualche altra piccolissima indicazione: il numero dei senza casa negli Stati Uniti è aumentato in tutti questi anni e oggi questa condizione coinvolge all'incirca l'1 per cento della popolazione statunitense (essendo gli americani circa 280 milioni, l'1 per cento significa quasi 3 milioni di persone). Potrei continuare a elencarvi elementi di questo tipo: per esempio le persone totalmente prive di qualsiasi forma di assistenza sociale sono oggi più di 40 milioni. Si tratta di fasce non così povere da avere accesso all'assistenza dei poveri e non così anziane da avere accesso a quella degli anziani, che si ritrovano quindi senz'alcuna forma di assistenza malattia, assistenza infortuni, pensione eccetera, eccetera. Fra l'altro, ovviamente, l'aumento del precariato e del lavoro nero hanno come risvolto la perdita della possibilità di accedere al sistema pensionistico. Questa gente non avrà una pensione quando ne avrà l'età, e non può nemmeno pensare di farsi un programma privato di pensione o un programma d'assistenza malattia, perche questi programmi costano almeno 300-400 dollari al mese. Sono dati, quindi, che non riguardano solo l'oggi, ma si proiettano negativamente anche sul futuro.
Una situazione di questo tipo presenta ovviamente risvolti sociali negativi, ai quali si collegano quelle funzioni di controllo sociale da parte dello Stato cui ho accennato all'inizio. Questo non solo vale anche per gli Stati Uniti, ma ha una rilevanza negli Stati Uniti senza uguali negli altri paesi toccati dalla rivoluzione industriale attuale. Negli Stati Uniti odierni - a parte il movimento "di Seattle", che ha una fisionomia particolare e di cui bisognerebbe parlare a parte - non sono presenti grossi fenomeni di rivolta o di antagonismo, e questo perche i movimenti sociali che avevano continuato a esprimersi fino ai primi anni Settanta sono stati distrutti da una repressione senza precedenti, i cui effetti si sono prolungati nel tempo e sono stati rafforzati dalla successiva distruzione dei sindacati, nonche dall'abbassamento dei redditi e dei salari, dal taglio del welfare e dei servizi. L'obiettivo della massima possibile passivizzazione sociale è stato perseguito in molti modi diversi - bisognerebbe parlare anche del ruolo dei media e dell'informazione - e largamente raggiunto.
La gente, con tutti i problemi che ha a cercare di sbarcare il lunario, non riesce a organizzare una risposta politica attiva, se non episodicamente. Non si pensi che quanto più le persone stanno male tanto più sono portate alla ribellione: l'equazione malessere=protesta non è così scontata. In ogni caso, non funziona negli Stati Uniti; non è così che vanno le cose. Questa gente, che vive un rapporto lavorativo sempre più precarizzato, è costretta a fare due, tre o più lavori per riuscire a mettere insieme i soldi necessari per mandare avanti la famiglia. A volte il marito e la moglie devono fare due o tre lavori ciascuno per raggiungere livelli di reddito familiare che permettano di arrivare al limite della povertà o di starci appena sopra (e vi assicuro che non sto esagerando). Questa gente è talmente impegnata a sbarcare il lunario da non avere il tempo per fare altro. All'interno della società esistono fermenti, forme dirette o indirette d'insubordinazione, antagonismo e insoddisfazione, ma buona parte di queste manifestazioni di non accettazione dell'esistente sono atomizzate, e quindi vengono più facilmente carcerizzate.
Oggi gli Stati Uniti sono il Paese più carcerario di tutto l'Occidente e forse di tutto il mondo; perfino la Repubblica, il 14 dicembre 1999, titolava L'America nazione di carcerati e Vittorio Zucconi era costretto a raccontare l'America delle prigioni, 2.000.000 dietro le sbarre (venivano forniti anche i dati comparativi: negli USA ci sono 735 detenuti per ogni 100.000 abitanti, in Italia ce ne sono 86, in Francia 90, in Germania 90, nel Regno Unito 120, in Spagna 113, in Portogallo 145).
Allora: non ci sarà una grande insubordinazione sociale, ma quel poco che c'è, in atto o in potenza, viene sistemato anche in questo modo, oltre che con i mezzi di cui abbiamo già detto: impoverimento, emarginazione, repressione, precarizzazione. È inutile sottolineare che, dal punto di vista sociologico, la maggioranza relativa della popolazione carceraria è costituita dai più poveri, dai meno istruiti, da quelli che provengono dagli ambienti sociali più degradati: cioè neri, ispanici e appartenenti ad altre minoranze e bianchi poveri. Quell'elemento di prosecuzione del vecchio razzismo istituzionale che ha caratterizzato gran parte della storia degli Stati Uniti, e che si era abbassato significativamente tra l'inizio degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo, è ritornato a esercitare un ruolo significativo all'interno della società. Anche sul sistema carcerario, sulla sua prosecuzione nella società "civile" attraverso i prolungamenti della libertà condizionale o su cauzione e sulle sue trasformazioni in senso privatistico (e capitalistico) bisognerebbe fare un discorso a parte.
A tutto questo naturalmente va aggiunto un dato contingente - contingente solo perche motivato a partire dalla guerra attualmente in corso in Afghanistan, ma destinato forse a diventare permanente -, ovverosia le leggi speciali che sono state varate negli ultimi mesi. Sulla base delle prime, il governo di Washington ha potuto mettere in carcere, almeno per quello che si sa, 1200 o forse 1300 persone senza darne notizia a nessuno e al di fuori di ogni procedura legale. Sono persone, in gran parte appartenenti a Paesi del Nordafrica, del Medio Oriente e dell'Asia, nei confronti delle quali sono stati messi in moto meccanismi di sospensione dell'habeas corpus senza precedenti. Essendo una parte di queste persone rappresentata da studenti, i governatori dei vari Stati hanno quindi chiesto alle università e alle scuole di schedare tutti loro studenti provenienti da quelle aree geografiche, di raccogliere informazioni (sulle persone e i luoghi di socializzazione che frequentano, gli interessi che hanno, i giornali che leggono, le materie che seguono all'università ecc.) e di passarle alla polizia e quindi al FBI. (Alcuni giornali hanno riportato che la polizia di Detroit - peraltro non propriamente famosa per essere all'acqua di rose - e quella di Portland, nell'Oregon, si sono rifiutate di fare un simile spionaggio domestico.) Inoltre, il trattamento dei prigionieri di guerra nella base di Guantanamo avviene al di fuori delle convenzioni internazionali e, ancora, sono state adottate procedure del tutto autoritarie e senza controlli per la detenzione e il giudizio di persone ritenute responsabili di progetti terroristici. Infine è stata istituita una nuova agenzia per la sicurezza interna con funzioni di polizia politica.
In sostanza, non soltanto esiste tutta una struttura di repressione e di carcerizzazione senza eguali nel mondo occidentale, ma sono stati ora messi in moto ulteriori meccanismi di controllo destinati a svolgere un ruolo molto pesante nella società degli anni a venire. A ciò si aggiunge tutta una serie di altri elementi generici di controllo sociale diffuso che sono già presenti strutturalmente nella società statunitense, benche se ne parli poco.
Dovunque nel paese, istituzioni, società, imprese, catene di negozi, scuole, college e università hanno le loro polizie private. In molte città, gli abitanti di singoli isolati si pagano il "loro" poliziotto stanziale; i residenti di certe vie si mettono d'accordo e chiudono la loro via al traffico, cioè agli estranei. Continua ad aumentare il numero delle gated communities, gli insediamenti suburbani circondati da mura e con gli ingressi controllati come gli antichi borghi medievali. Nelle strade dei suburbs, quelle zone suburbane formate da villette monofamiliari in mezzo agli alberi, con il pezzettino di verde davanti e dietro, non si può nemmeno parcheggiare l'automobile, perche se ci si ferma e si fanno due passi c'è qualcuno che chiama la polizia, la macchina viene sequestrata, la persona multata e magari portata dentro, dopo di che potrà uscire pagando la multa o la cauzione. Tutto questo perche esiste un ben preciso meccanismo di controllo reciproco; alle entrate di questi sobborghi, infatti, ci sono dei cartelli con un grosso occhio bianco, una pupilla blu e un numero di telefono: se vedete estranei o cose anormali, telefonate a... È un meccanismo sociale in cui le persone si tengono d'occhio a vicenda.
Gli esempi potrebbero continuare. Questi costituiscono però il livello elementare, ormai così diffuso e metabolizzato da passare inosservato a chi lo pratica, un po' meno a chi lo subisce. Il carcere e le leggi speciali recenti sono l'altro estremo del ventaglio. In mezzo esiste un'intera rete di controlli di altro tipo, di cui ogni tanto si parla: le telecamere a circuito chiuso, le carte di credito e le tessere magnetiche, i cellulari e la posta elettronica (che, Echelon a parte, le aziende possono controllare quando e come vogliono), gli antifurto satellitari eccetera.
Questo non significa che localmente non esistano forme d'organizzazione dal basso: in tutte le città ci sono gruppi di resistenza e opposizione; anche nelle zone più disastrate sono presenti agglomerati di cittadini legati alla difesa di pezzi di quartiere o di territorio, alla rivendicazione di diritti sociali, al sostegno dei carcerati, o attivi in opere di solidarietà o di recupero culturale e politico incentrati sulle chiese (quelle nere, in particolare, hanno una funzione di coagulo solidaristico e di autorganizzazione sociale). Esistono dunque una quantità di organismi di base, ma manca un tessuto in grado di trasformare queste microattività in iniziative politiche generali. Mobilitazioni come quella di Seattle - se si esclude il contributo portato dalle organizzazioni sindacali - sono caratterizzate dalla confluenza del tutto eccezionale di una molteplicità di piccole organizzazioni. Ma la rete, strumento fondamentale in quel caso, non è ancora uno strumento universale, in grado di collegare tra loro le migliaia di realtà antagonistiche o di resistenza, spesso povere e senza programmi di carattere generale. Solo da molto poco, ad esempio, un'organizzazione delle dimensioni del sindacato sta cercando di immettere nelle proprie pratiche organizzative e di comunicazione l'impiego della rete; non ci si può sorprendere se non lo fanno i microgruppi locali che magari non hanno neppure una sede.
La diffusione di questa situazione di malessere si manifesta anche nell'allontanamento dal voto, puramente e semplicemente. Per il presidente vota la metà degli aventi diritto; per eleggere il Congresso, negli ultimi venticinque anni, la percentuale è intorno al 35 per cento, mentre per l'elezione dei sindaci vota ancora meno di un terzo. Semplicemente, la "gente comune" che non vota - e l'astensionismo è tanto più elevato quanto più si scende nella scala sociale - è talmente scoraggiata che si allontana dai processi politici e vive la propria emarginazione con piccoli tentativi d'autodifesa locali e marginali. Può succedere che quest'autodifesa prenda anche la forma della microcriminalità - quindi con il carcere come destinazione - e tutto ciò si somma e si spiega se lo si colloca a sua volta in un ulteriore contesto.
In che modo questi obiettivi vengono raggiunti? Attraverso una serie di sistemi, come per esempio la quasi distruzione del sistema scolastico pubblico, attuata negli ultimi trent'anni. Le scuole sono state chiuse, concentrate e ridotte di numero; ci sono istituti con 1500-2000 studenti, in cui hanno dovuto mettere il metal detector all'entrata perche ovviamente sono diventati luoghi di microcriminalità giovanile, perche chi arriva in queste scuole proviene da quartieri disastrati e quindi trascina con se il tipo di situazione da cui proviene. Dunque ci sono magari 40-50 studenti per classe e nessun possibile percorso di apprendimento, perciò il risultato è che, conseguito il diploma alla fine degli anni di permanenza richiesti, le persone sono sì e no capaci di leggere e scrivere. Un dato di cui ho già parlato è quello relativo all'analfabetismo. La gente che esce dalla scuola e che sa sì e no leggere e scrivere, 5-10 anni dopo ha completamente dimenticato quel poco che aveva appreso e non è più capace di capire: guardando la televisione capisce le singole parole ma non il discorso. Oggi, qualcosa più del 50 per cento della popolazione adulta degli Stati Uniti è analfabeta di ritorno o gravemente handicappata dal punto di vista della comunicazione.
Ecco allora in che modo si legano questi elementi: questa gente che non sa ne leggere ne scrivere, e che è emarginata socialmente, non ha stimoli ne possibilità di agire diversamente all'interno della società, perche oltre tutto viene sempre di più passivizzata, spinta ai margini, costretta a lottare per riuscire a mangiare.
Nel libro di Charles Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano - un'opera molto più seria di quanto il titolo lasci pensare - viene descritta la politica estera statunitense con gli occhi di uno dei maggiori esperti d'Estremo Oriente. Una delle cose che Johnson sottolinea in merito ai fatti della politica USA nell'Estremo Oriente e nel Sudest asiatico è lo stato d'ignoranza in cui è regolarmente tenuta la popolazione in patria. E' un punto importante, che credo si riesca a connettere con tutto quanto detto finora. La popolazione non sa, sia perche non è in grado di sapere - nel senso che non ha gli strumenti cognitivi per utilizzare le fonti d'informazione -, sia anche perche è tenuta nell'ignoranza: gli organi d'informazione, di fatto, non informano. Benjamin Barber, in Jihad contro MacMondo analizza l'"infotrattenimento": i notiziari che servono a intrattenere i telespettatori, non a informarli (in un mondo in cui la TV è il principale strumento di accesso all'informazione).
Per spiegare quanto sto cercando di dire, ho portato due giornali di Filadelfia del 12 settembre 2001, cioè il giorno dopo gli attentati di New York e Washington.
Il primo si chiama Philadelphia Enquirer e si rivolge a un pubblico medio-alto. E' un giornale tipo New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, Los Angeles Times, Boston Globe, dunque tra i dieci o dodici giornali seri. C'è la fotografia delle Torri, naturalmente, il titolo Gli Stati Uniti sono attaccati, e poi la descrizione degli avvenimenti: "Aerei dirottati distruggono le torri del WTC e colpiscono il Pentagono. Si teme che migliaia di persone siano morte". L'interno è cronaca e commento elementare dei fatti, a caldo, nel tentativo di cercare di capire e di spiegare che cos'è successo.
Ora, lo stesso proprietario, la stessa catena di giornali, produce anche il Daily News, nella stessa Filadelfia. Si tratta di un tabloid: nella tradizione anglosassone il tabloid indica il giornale popolare, che si rivolge a un pubblico "popolare", e infatti il sottotitolo è "The people's paper". Blood for blood (Sangue chiama sangue) è il titolo sulla prima pagina; ma mentre nel Philadelphia Enquirer gli editoriali e i titoli di testa sono raziocinanti, nel Daily News l'editoriale s'intitola Ora è il nostro turno ed esordisce con: "Vendetta! Tenetevi questo pensiero nella testa. Andate a dormire pensando a questo, svegliatevi ripetendovelo, perche niente di meno della vendetta è quello di cui c'è bisogno oggi", proseguendo poi su questi toni.
Lo stesso editore ha quindi due linee di discorso: una è per i pochi "raziocinanti" - che poi sono anche i votanti - e un'altra per i molti di più cui si chiede di mobilitarsi solo sulla base di una pura e semplice reazione emotiva. Teniamo presente che quei 10 o 12 giornali che ragionano, indipendentemente dalla lettura politica dei fatti che ognuno di essi ha, sono letti da 9-10 milioni di persone, mentre gli altri sono letti da 140-160 milioni di persone. I meccanismi di formazione dell'opinione pubblica sono diversificati; certo negli USA gli intellettuali hanno tutto ciò che vogliono: il ragionamento, l'informazione, i commenti "alti" (che a volte sono stati tradotti sui giornali italiani negli ultimi due mesi e mezzo); ma la gran parte della popolazione statunitense riceve quest'altro tipo di messaggio, quello tipo Daily News (o dei tanti altri giornali che nella grande provincia statunitense parlano solo dei fatti locali e l'informazione "sul mondo" non la danno mai o la danno nei modi semplificati ed emotivi che sono più vicini a quelli dei tabloids che a quelli del Washington Post).
Oggi Mario Maffi doveva essere qui a parlare con me; mi spiace che non ci sia perche da parte sua sarebbe potuto venire un resoconto della sua esperienza recente (lui era negli Stati Uniti l'11 settembre ed è tornato a metà ottobre). In questi ultimi cinque minuti vi riporto quindi alcune delle sue considerazioni.
Maffi è passato solo alla fine da New York; gran parte della sua permanenza negli Stati Uniti si è svolta nella zona centrale degli Stati Uniti, nella parte meridionale e settentrionale di quello che è noto come Midwest, lungo il corso del Mississippi, per ragioni di ricerca. Mi diceva: "Arrivavo a sera e sentivo l'impossibilità di discutere in modo ragionevole con qualcuno, perche la cappa del conformismo, la cappa della disinformazione, la cappa dell'ignoranza, la cappa della reazione emotiva e del patriottismo sciovinistico esasperato mi serravano la gola. Una cosa da togliere il respiro. Naturalmente, arrivato a New York sono giunto nell'epicentro del dramma, nel cuore della tragedia, ma almeno lì avevo la possibilità di parlare con persone che ragionavano sulle cose, che non reagivano solo emotivamente allo stimolo, che non dicevano soltanto: "Vendetta, vendetta"".
Ecco, la situazione sociale che ho definito come "terzomondizzazione" degli Stati Uniti passa attraverso elementi molto forti e concreti, misurabili statisticamente, d'impoverimento diffuso, marginalizzazione, polarizzazione sociale, perdita d'ogni tipo di potere da parte di chi è più povero, espulso dalla produzione, precarizzato e costretto a una vita insicura ecc. Tutto ciò non potrebbe avvenire senza l'altro versante; in altre parole, questa gente è resa sempre più ignorante e succube, incapace di prendere iniziative, e riceve sempre più questo tipo di prodotto mediatico e di sollecitazione o al conformismo passivo o alla mobilitazione emotiva sciovinistica.
Il quadro è molto negativo, per certi versi senza speranza. A me è capitato di parlare in altre occasioni degli anni Sessanta, di quando esisteva un movimento di librazione che colorava di politica gran parte di quello che avveniva all'interno dei ghetti neri ed esistevano movimenti sociali diffusi nella società. Poi, però, ho assistito anche al progressivo deterioramento di quella situazione e ho verificato quanto il degrado fisico e sociale avesse distrutto le aggregazioni, la capacità d'iniziativa, la possibilità stessa di pensare al proprio futuro. Tra gli anni Ottanta e i primi Novanta la classe operaia è stata distrutta; lo stesso è poi successo anche a una fetta consistente di colletti bianchi, vale a dire di quel mondo impiegatizio che negli anni Ottanta aveva guardato all'attacco antioperaio pensando di esserne immune: "Ragazzi sono fatti vostri". Oggi, per tutta questa gente dalla classe media in giù il quadro è disperante.
Ciò non significa che non succederà mai più niente, perche, in realtà, con una nuova dirigenza sindacale che ha ripreso a fare politica e cerca di rivitalizzare il corpo indebolito del sindacato e con il movimento antiglobalizzazione proveniente dagli interstizi di questa società e da componenti che non hanno quasi niente a che fare con gli strati sociali inferiori, qualcosa ha ripreso a muoversi. Al fondo di questo tipo di movimento non ci sono l'analisi della società statunitense e l'organizzazione dal basso di forze sociali di contestazione all'interno, bensì un'analisi interessante, importante e necessaria dei movimenti globali e delle istanze di solidarietà nei confronti di fette di mondo che non sono quelle statunitensi. Sono istanze di solidarietà che guardano all'ingiustizia economica e sociale diffusa sul pianeta e che cercano di organizzare qualcosa avente per obiettivo il mondo e non le realtà locali. Data l'importanza di questo movimento, che come sappiamo è cresciuto negli ultimi due anni negli Stati Uniti e non solo, data l'enorme importanza del rapporto che questo movimento ha istituito con il nuovo sindacalismo (e viceversa), ritengo che si stiano facendo i primi passi.
Si potrebbe discuterne a lungo, ma penso che il movimento contro la globalizzazione non sia ancora diventato, e chissà se lo diventerà mai, un movimento chiaramente anticapitalistico, perche se lo diventasse sarebbe costretto a occuparsi di quanto sta succedendo negli Stati Uniti, e ciò è più difficile, pone problemi più immediati e in un certo senso complessi che occuparsi di quanto avviene in giro per il mondo. In questi ultimi anni, anche nelle università si è rimesso in moto qualcosa, che è stato però messo in gravi difficoltà - come tutti, del resto, anche in altre parti del mondo - dopo l'11 settembre, e in difficoltà ancor più grosse di fronte al richiamo al conformismo, al patriottismo, allo schieramento dietro la bandiera che s'è dato (negli Stati Uniti più che altrove) dopo l'inizio della guerra in Afghanistan.
Allora, se questo è lo stato reale delle cose negli Stati Uniti, non c'è speranza? No, perche come ama dire e ripetere il nostro vecchio amico Marty Glaberman: non si sa mai cosa succederà domani e quale sarà la scintilla in grado di trasformare radicalmente una situazione che fino a quel momento appariva senza speranza.
Poscritto: Vorrei dedicare queste parole proprio a Marty Glaberman, scomparso a Detroit il 17 dicembre 2001, due giorni dopo l'occasione in cui questa presentazione ha avuto luogo.
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