12 dicembre 1969 - 12 dicembre 2019

Quel ferrovecchio di Gladio
di Primo Moroni
1992

Gladio stragi riforme istituzionali
Intervento di Primo Moroni
1991

Gladio stragi riforme istituzionali
Conclusioni di Primo Moroni
1991

1969 - 1972
Dalla strage alle elezioni
Sapere edizioni - 1972
 

Strage di Stato
a cura del comitato
di lotta sulla strage di Stato
- Soccorso Rosso -1972

Venga con noi
Dagli attentati del '69
a piazza Fontana
Colibrì edizioni - 2019

La bomba e la finestra
Calusca - APM - Cox8
2018

I vetrini di Valpreda
Carlo Oliva
La Caccia
1999

 
 
APM


Quel ferrovecchio di “Gladio”

di Primo Moroni

da La notte dei gladiatori. Omissioni e silenzi della Repubblica, a cura di Mario Coglitore e Sandro Scarso, Calusca Edizioni, Padova 1992

Si può cominciare con un’osservazione di carattere generale che è applicabile alle vicende più o meno occulte che hanno attraversato le democrazie occidentali nell’epoca della “guerra fredda”. La constatazione, cioè, del ruolo svolto dagli accordi segreti tra Stati dell’Alleanza atlantica per limitare l’agibilità politica interna delle varie parti conflittuali, cioè in definitiva le sovranità nazionali, e rendere i governi “compatibili” con le esigenze di controllo e dominio della potenza egemone e cioè gli Stati Uniti. Tutto ciò è molto ovvio ma assume in ogni singolo Paese caratteristiche originali che possono essere indagate separatamente.

La seconda osservazione preliminare riguarda la tendenza-necessità da parte degli Stati di inventarsi un’“epica” della “tradizione” funzionale alle esigenze del controllo interno o del dominio esterno (ad esempio il colonialismo). Questa tendenza-necessità è magnificamente indagata da Eric Hobsbawm nel suo L’invenzione della tradizione per ciò che riguarda le vicende dell’impero britannico e – su un altro piano – dal regista John Ford nei suoi film sulle “guerre indiane” ovvero sull’epopea della Guerra di Secessione.

Nel Caso Italia l’invenzione della tradizione che ha dominato l’orizzonte storico-culturale del dopoguerra riguarda senza dubbio la vicenda relativa alla “vittoriosa resistenza partigiana contro l’occupazione nazista e il governo fascista”. Invenzione della tradizione tanto più originale in quanto condivisa sia dalle forze di governo (per ben 18 anni consecutivi Democrazia Cristiana e partiti di centro) che da quelle di opposizione (Pci e Psi). La questione è di grande rilevanza storica e politica ma, nei limiti di questo intervento, si può osservare che il suo mancato “chiarimento” ha inciso e continua ad incidere su molte delle vicende che riguardano gli ultimi quarant’anni della storia nazionale.

Per molti anni, infatti, la chiave di lettura che definiva la Resistenza come “secondo Risorgimento” e non già, come in effetti si trattò, guerra civile, ha accomunato, nella difesa di questa griglia interpretativa, sia gli storici dell’ufficialità comunista che quelli di parte democristiana o laica. Alla base di questa specularità strumentale e menzognera coesistevano sia la necessità del Partito comunista di legittimarsi all’interno del nuovo assetto democratico, sia quella democristiana di ribadire il ruolo occidentale e “atlantista” del Paese Italia. Entrambi aderenti o, viceversa, “limitati” dagli accordi di Yalta sulle sfere d’influenza assegnate alle due massime potenze (USA e URSS), scelsero concreta mente uno schema “consociativo” che garantiva al Pci la legalità democratica e alla DC il rapporto privilegiato con gli americani. Aspetti fondanti di questo accordo non scritto possono essere considerati la togliattiana “svolta di Salerno” che delegittimava la componente rivoluzionaria della Resistenza nel mentre si impegnava ad un’epurazione soft degli apparati dello Stato fascista e l’abilità-ambiguità tutta democristiana di stipulare continuamente accordi segreti con i servizi alleati per consolidare il proprio potere.

Resta il fatto che intere generazioni di comunisti hanno lottato per realizzare la cosiddetta “Costituzione nata dalla Resistenza” (che come è noto non è stata mai attuata, che non poteva essere applicata e proprio per questo oggi la si vuole radicalmente cambiare), che intere generazioni di comunisti hanno creduto veramente all’esistenza della “doppia linea” togliattiana (prendiamo il potere con le elezioni (?) ma poi non lo restituiremo mai più), che sulla base di questi sentimenti vissuti la componente rivoluzionaria della “Resistenza tradita” ha attraversato le vicende dei militanti della Volante Rossa fino ai tardi figliocci delle Brigate Rosse, che la dirigenza comunista da allora fino alla sua attuale e desiderata dissoluzione ha pervicacemente perseguito l’obiettivo dell’accordo con l’arco costituzionale del sistema dei partiti: ciò quasi sempre contro una parte rilevante della sua base, globalmente contro i movimenti antagonisti. Ogni qualvolta il Pci si è trovato a dover scegliere tra movimenti, istanze democratiche di base e istituzioni borghesi, il suo apparato burocratico (partitico o sindacale) si è richiuso come una cappa di ferro sui movimenti consegnandoli al nemico di classe. Ingenuità, tragica incompetenza, costrizioni internazionali della dirigenza comunista? Forse tutte queste cose messe insieme. La questione in sé ci riguarda relativamente per ciò che attiene la verità storica. Ci riguarda invece enormemente perché riteniamo la dirigenza comunista responsabile della distruzione fisica e dell’incarcerazione di migliaia di compagni di strada; come è ovvio che l’abbia praticato la Democrazia Cristiana (può far parte delle cosiddette ciniche regole del gioco) da parte dei “comunisti” è debito storico incancellabile.

Dopo queste prime e per necessità schematiche ed emotive riflessioni, possiamo ritornare al nostro tema di fondo tentando di avere “sguardo freddo” e possibilmente di offrire alcune chiavi o strumenti interpretativi sulle vicende di Gladio, della strategia della tensione, della politica dell’emergenza e dei corpi separati dello Stato.

La scelta di unità resistenziale fu sostanzialmente una conditio sine qua non per molte delle sue componenti (sicuramente per i democristiani e i filo-monarchici). Condizione non esente da laceranti contraddizioni interne e da frequenti contrasti sanguinosi sulle cui cause e responsabilità è stata operata una sistematica falsificazione. In realtà la supposta unità e armonia del CLN è una finzione storica su cui pochi ricercatori militanti hanno operato una difficile e contrastata rivisitazione. Come risultato di questo patto interno tra i protagonisti della Guerra di Liberazione, è stato trasmesso ad intere generazioni di militanti una versione oleografica e deformata di quelle vicende storiche. Una versione che assegnava valori indistinti di democraticità ed eticità a tutto il ceto politico in formazione nell’immediato dopoguerra. Qui si può osservare che è indubbio che una componente consistente della Resistenza si mosse in stretto accordo con i “servizi d’informazione” (OSS) statunitensi e che già a partire dal 1944-45 questa componente elaborava piani separati per la ricostruzione post-bellica senza informare la componente comunista e socialista.

La seconda questione riguarda la sostanziale continuità tra Stato fascista e Stato democratico soprattutto per ciò che riguarda le burocrazie alte e intermedie. In effetti l’epurazione delle burocrazie fasciste fu molto limitata e Togliatti per primo, con la famosa amnistia, contribuì a limitarne la portata contro il parere di una parte rilevante della dirigenza partigiana. Del resto questo problema è stato ampiamente indagato dagli storici di parte borghese o liberale. Questa continuità assume evidenza clamorosa se si pensa che per venti anni i capi della polizia provenivano dalla mussoliniana RSI (Repubblica Sociale Italiana) o dalle carriere del ministero degli Interni fascista. Giovanni Carcaterra, che sarà capo della polizia dal 1953 al 1960 (quando dovrà abbandonare travolto insieme al golpista governo Tambroni), proviene dalla segreteria personale del ministero degli Interni fascista (dal 1927) e Angelo Vicari – che lo sostituirà dal 1960 al 1973 – costituisce un campione della continuità dello Stato all’interno degli apparati repressivi. Inizia, infatti, la carriera nella segreteria particolare del Duce, prosegue sotto Badoglio per scoprirsi, negli anni del dopoguerra, simpatie socialiste.

Fu tuttavia soprattutto il democristiano Mario Scelba, divenuto peraltro ministro degli Interni con il beneplacito di Palmiro Togliatti già nel gennaio 1947, a fare cadere qualsiasi illusione sulla possibilità che l’Italia divenisse uno Stato democratico e fu proprio allora che si compì una assoluta restaurazione del fascismo nel ceto chiamato a esercitare la repressione statuale. Molti anni dopo lo stesso Mario Scelba scriverà: «Allontanai, con buonuscite o con trasferimenti nelle isole, per tutto il 1947, gli ottomila comunisti infiltratisi nella polizia, e assunsi diciottomila agenti fidatissimi… Si diceva che i comunisti avessero un piano insurrezionale, il famoso piano K, che sarebbe scattato nell’autunno ’47 dopo la partenza degli angloamericani. Ed io che a quel piano non ho mai creduto, mi comportai come se effettivamente ci fosse. Perciò adottai le mie contromisure, sulle quali ritengo di dover ancora mantenere il riserbo… Posso aggiungere che non mi limitai a reclutare forze di polizia affidabili, ma creai una serie di poteri per l’emergenza, una rete parallela a quella ufficiale, ma ad essa superiore, che avrebbe assunto automaticamente ogni potere in caso di insurrezione, lasciando che questa si dirigesse contro i poteri formali». [1]

Il dispositivo di polizia per tutti gli anni ’50 è interamente nelle mani di funzionari di provenienza fascista. Dei 64 prefetti di primo grado, 64 prefetti non di primo grado e 241 prefetti, soltanto 2 prefetti di primo grado non hanno fatto parte dell’ingranaggio fascista. Dei 135 questori e 139 vicequestori, che hanno tutti iniziato la loro carriera con il fascismo, solo 5 vicequestori hanno avuto rapporti con la Resistenza. Dei 603 commissari capo e 1039 tra commissari, commissari aggiunti e vicecommissari anche se molti sono entrati nella polizia dopo la Liberazione, solo 34 hanno avuto rapporti con la Resistenza.

La continuità del ceto che esercita le funzioni repressive dello Stato tra fascismo e post-fascismo, quindi, non potrebbe essere più netta. [2]

Non diverse – anche se col tempo assai più sofisticate – appaiono le vicende dell’Arma dei carabinieri (che assumeranno nel tempo un ruolo strategico nella storia nazionale). In questo caso gli elementi di continuità sono rappresentati prima dal generale Giovanni Pièche, che è comandante fino al 1944 per poi trasformarsi in collaboratore del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, poi dal generale Taddeo Orlando che comanderà l’Arma nell’immediato dopoguerra. Giovanni Pièche prima al servizio del regime fascista, poi del governo badogliano, quindi della restaurazione democristiana, meriterebbe una storia tutta sua. Qui si può dire che ha lavorato per l’OVRA (la polizia segreta fascista), poi in Spagna in appoggio a Franco e al capo ustascia Ante Pavelic per raggiungere il punto più alto quale collaboratore personale di Mussolini nel controllo degli apparati di spionaggio del regime, di “spia delle spie”. Nel dopoguerra, su incarico di De Gasperi, diventa collaboratore del ministro Mario Scelba, favorendo la costituzione dei gruppi neofascisti, infiltrando informatori nei partiti di sinistra e ricostruendo il casellario politico centrale del ministero degli Interni. Il generale Taddeo Orlando è figura persino più impresentabile. Già sottosegretario alla Guerra nel Governo Badoglio, ha un passato di massacratore di partigiani e di fucilatore negli anni dell’occupazione italiana della Jugoslavia, la quale chiederà invano la sua estradizione come criminale di guerra: nel 1948, sull’onda della “guerra fredda”, l’Orlando riuscirà a chiudere la carriera militare come segretario generale del ministero della Difesa, passando tranquillamente sopra le centinaia di partigiani fucilati e le migliaia di oppositori e civili fatti deportare nei campi di concentramento. [3]

A fronte di queste figure non si può dimenticare che migliaia di carabinieri si sono schierati a fianco delle forze partigiane, che altrettanti sono stati deportati dai nazisti, che molti ufficiali superiori hanno comandato formazioni partigiane; ma non si può avere chiaro il quadro successivo se non si tiene presente che le forze democristiane nella prima fase del dopoguerra hanno privilegiato il riciclaggio di quegli ufficiali della “Benemerita” più pesantemente coinvolti con il fascismo e con la monarchia sabauda. Hanno tentato in concreto di ripetere con i carabinieri la stessa brillante operazione riuscita con le forze di polizia. Ma in questo caso l’operazione non era esente da pericoli e contraddizioni stridenti, sia perché permaneva il fondato sospetto che all’interno dell’Arma esistessero correnti golpiste filo-monarchiche, sia perché la partecipazione massiccia dell’Arma alla Guerra di Liberazione invece che dare garanzie creava sospetti ancora maggiori nelle élites democristiane. Fatto sta che il ruolo dell’Arma dei carabinieri viene fortemente ridimensionato agli inizi degli anni ’50. Significativamente questa svolta viene conosciuta dagli addetti ai lavori come “accordo Carcaterra” (dal nome del capo della polizia che se ne fece promotore su incarico politico democristiano). Sostanzialmente questo accordo concerneva le competenze dei due corpi nella lotta alla criminalità e nell’opera di controllo del Paese. In pratica la polizia riservava alle proprie direttive la sicurezza delle grandi e medie aree metropolitane lasciando ai carabinieri il compito di provvedere alle campagne e ai piccoli centri. Unico incarico di prestigio lasciato all’Arma (non poteva essere diversamente) veniva ad essere il compito di riorganizzazione del Servizio informazioni delle Forze Armate (Sifar) e cioè uno dei servizi segreti. Incarico questo che con il tempo si sarebbe rivelato strategico soprattutto per il fatto che il funzionamento del Sifar non poteva che essere coordinato con gli apparati NATO e con i servizi segreti statunitensi. In ogni caso, al vertice dell’Arma vennero posti – negli anni del centrismo – alcuni generali presentabili in quanto a garanzie di democrazia, ma di stretta osservanza filo-americana. Ai comunisti questa sembrò una vittoria politica e pur contrastando duramente il ministro di polizia Mario Scelba, accettarono di fatto la totale eliminazione dei propri quadri dalle istituzioni burocratiche e dagli apparati repressivi.

Si può ipotizzare che per i comunisti l’esistenza ai vertici dell’Arma e dei servizi segreti di ufficiali che avevano partecipato alla Guerra di Liberazione fosse una garanzia che le regole del gioco democratico sarebbero state rispettate, che la dinamica della “democrazia consociativa” tra governo e opposizione garantisse quell’evoluzione – anche conflittuale – verso la realizzazione della Costituzione nata dalla Resistenza che, come uno dei pilastri della politica comunista, avrebbe dovuto assicurare quella “lunga marcia dentro le istituzioni” agli apparati del Pci. È ovvio che, anche in questo caso, la fedeltà all’interpretazione storiografica a carattere unitario della Resistenza diventava nel contempo condizione e progetto politico.

In realtà questa fiducia nella lealtà della dirigenza democristiana viene totalmente smentita proprio dalle rivelazioni sulla vicenda Gladio. Rivelazioni “governate” dai democristiani e in quanto tali, ma non solo per questo, frutto di una colossale operazione di depistaggio.

In realtà, è proprio in quegli anni del “centrismo” (tutti gli anni ’50) che i democristiani si rendono conto che la propria egemonia esclusiva non potrà durare a lungo, che occorreranno per restare al comando del Paese diverse e più estese alleanze. Molti sono i fattori che confermano questa necessità sia sul piano internazionale che sul piano interno. All’Est alla guida dell’impero sovietico è venuta a mancare la figura di Stalin ed è in corso una complessa lotta per il potere che porterà, fra l’altro, a stroncare con i carri armati la democratica rivolta ungherese; nei Paesi coloniali cominciano a svilupparsi le guerre di liberazione (l’esercito francese è sconfitto in Indocina, la rivoluzione algerina muove i primi passi, in Kenia e nel centro Africa vi sono fermenti profondi di indipendenza, ecc.). All’interno l’ideologia della Ricostruzione pare avere completato il suo ciclo utile a contenere i conflitti e gli operai cominciano a muoversi in modo nuovo e fortemente conflittuale nel mentre gli stessi industriali avvertono la necessità di passare ad una fase ulteriore dello sviluppo industriale per reggere la concorrenza internazionale.

Si è, insomma, alla vigilia di grandi cambiamenti che rischiano di far saltare tutti gli equilibri interni. Come è noto la stessa diversa posizione delle forze di sinistra (Pci e Psi) sulla tragedia ungherese avrà conseguenze enormi sul panorama politico italiano.

Ci pare di poter dire (in assenza di documentazioni veritiere visto che la Cia si oppone a rendere noto l’accordo intercorso nel 1956 con il Sifar) che è a questo punto che una parte rilevante della dirigenza democristiana, appoggiata da larghi settori dell’imprenditoria e da forze massoniche, decide di strutturarsi anche in previsione di una svolta autoritaria. In questo scenario l’Arma dei carabinieri viene di nuovo ad assumere un ruolo determinante.

Siamo alla fine degli anni ’50. Gli anni che segnano il passaggio da un’economia industriale in “ricostruzione” a un’economia in espansione. Una transizione che prevede enormi spostamenti di forza-lavoro all’interno del Paese, che modifica in profondità la composizione sociale delle grandi metropoli industriali del Nord. Anni che fanno prevedere – e così avverrà – un forte avanzamento elettorale delle sinistre nel mentre si possono prevedere profonde modifiche nei costumi e nei comportamenti collettivi. La stessa tendenziale svolta democratica del Psi, con la conseguente rottura del “patto di unità d’azione” con il Pci, invece che rappresentare un allargamento dell’area democratica viene vissuta da una parte rilevante delle dirigenze democristiane come un pericolo concorrenziale. Sostanzialmente si può con relativa certezza ipotizzare che è proprio in quel periodo che vengono gettate le basi, i fondamenti strutturali e politici di una tendenza golpista (appoggiata e finanziata dalla Cia) all’interno della Democrazia Cristiana che gode degli appoggi di rilevanti settori degli apparati repressivi (principalmente il Sifar e l’Arma dei carabinieri), della compiacenza di settori imprenditoriali e della capacità “manovriera” ed occulta di altre forze (massoneria e simili). In questo senso, la tematica riguardante l’azione dei cosiddetti “corpi separati” dello Stato e la conseguente – più tardi emersa – strategia della tensione con tutti i suoi tragici contorni stragistici, non può essere compresa senza andare alle origini storiche che l’hanno determinata e che negli avvenimenti dei primi anni ’60 trovano la sua ragione d’essere.

Esempio clamoroso di questo ragionamento può essere considerata la vicenda del governo presieduto dal democristiano Tambroni nel 1960. Su questo ultimo tentativo “palese” di parte democristiana di instaurare un governo autoritario è stato detto molto; qui si può ricordare che il tentativo di far entrare i fascisti dell’MSI nel governo fallì per merito di un’estesa rivolta di piazza che costò la vita a decine di militanti comunisti. Rivolta che venne bloccata dalla dirigenza comunista prima che rischiasse di tramutarsi in un’autentica insurrezione dagli esiti imprevedibili.

Abbiamo detto che su questa vicenda storica è stato scritto molto, ma ci sembra che in realtà molto sia ancora da chiarire soprattutto per ciò che riguarda la compattezza o le divisioni all’interno della Democrazia Cristiana stessa. Qui ci interessa sottolineare che in quel momento era presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, un democristiano eletto onorevole nel collegio elettorale di Massa Carrara nel quale forte era stata la Resistenza di tendenza anarchica e comunista, ma dove altrettanto rilevante, o comunque molto consistente, era stata la compagine democristiana. La figura di Giovanni Gronchi è molto contraddittoria soprattutto per i presunti scandali che hanno accompagnato il suo settennato ma, ai fini della nostra ricostruzione, ha anche un significato particolare perché è sotto la sua presidenza che diventa noto alle cronache il generale Giovanni de Lorenzo. De Lorenzo è un ufficiale superiore dotato di considerevole preparazione professionale. Durante la Seconda Guerra mondiale fa parte del corpo di spedizione italiano contro l’URSS; rientrato in Italia nel 1943 milita nelle formazioni partigiane romagnole e successivamente fa parte del centro militare informativo del fronte clandestino della Resistenza di Roma. Con l’arrivo degli Alleati diventa ufficiale di collegamento tra lo Stato Maggiore italiano e la 92ª divisione USA operante sul fronte tirrenico. Nel dopoguerra ricopre svariati incarichi di comando nell’esercito per approdare a metà degli anni ’50 ai vertici del Sifar. In questo suo ruolo è fortemente apprezzato dai vari generali che si susseguono alla carica di capo di Stato Maggiore della Difesa non meno che dalla dirigenza comunista, che vede nel suo passato partigiano – e per di più romagnolo – una garanzia assoluta di lealtà.

In realtà è proprio sotto la dirigenza di de Lorenzo che si sviluppa e prende forma l’oscura – e tutt’oggi non chiarita – vicenda denominata “operazione Gladio”. Oggi ci viene comunicato che l’origine di questa vicenda va collocata nell’anno 1956 sulla base di un accordo intercorso tra il Sifar e la Cia, ma che il testo di questo accordo deve rimanere segreto per esplicita richiesta della Cia. Possiamo invece riflettere su un successivo documento (vedi appendice) che porta la data del 1959. Il documento classificato “segretissimo” è allegato agli atti parlamentari dopo lo sblocco sul segreto deciso dalla presidenza del Consiglio. Noi non sappiamo se anche questo documento faccia parte della strategia del depistaggio, possiamo però osservare che nel suo primo capoverso si parla esplicitamente di creare una struttura segreta atta a fronteggiare sia “forze militari di invasione” che emergenze dovute a “sovvertimenti interni”… Nei capoversi successivi di tale documento si parla diffusamente di una struttura clandestina ma regolare (nel senso che è conosciuta dai comandi militari?) adatta a condurre “operazioni di guerra non ortodossa” sul territorio nazionale. Questa struttura che prevede il reclutamento di uomini (tra cui molti specializzati) dislocati in molte regioni del Paese, viene posta sotto il comando del capo di Stato Maggiore della Difesa, compiti di controllo e reclutamento sono assegnati al Sifar sulla base clandestina “Stay Behind” italo-statunitense operante fin dal dopoguerra nel quadro degli accordi tra i servizi segreti dei due Paesi.

Gladio rappresenterebbe quindi un’evoluzione, determinata da nuove necessità di controllo e repressione, di accordi segreti preesistenti. Una delle caratteristiche originali di questo nuovo accordo consisterebbe nella creazione di una base di addestramento dei “gladiatori” in Sardegna. In questo senso il Servizio Informazioni USA precisa che l’appoggio alla base “è considerato nei piani di guerra degli Stati Uniti d’America”.

Fin qui alcune citazioni dal documento (che merita di essere letto per intero) indipendentemente dalla sua importanza o dalla veridicità che gli deriva dall’essere rivendicato come tale dalla presidenza del Consiglio.

In realtà in assenza del documento del 1956, quello che ci viene offerto dà un lato riduttivo dei fatti reali e in seconda istanza induce il sospetto che ci si trovi di fronte ad uno dei consueti giochi di prestigio dello stregone Giulio Andreotti.

A questo punto ci può venire in soccorso un testo prezioso che da tempo è stato “opportunamente” tolto dal mercato. Il testo in questione si intitola Il Malaffare (autore Roberto Faenza con la collaborazione di Edward Becker, Mondadori, 1978). Le vicende di questo libro meriterebbero una storia a sé. Qui ci limiteremo a osservare che la sua pubblicazione fu assai contrastata, che rimase in commercio pochi mesi per poi non essere più ripubblicato. Il libro consiste essenzialmente in una ricognizione documentaria commentata sui documenti ufficiali e segreti del governo americano principalmente nella sfera della loro politica di potenza mondiale. A questi documenti venne tolto il vincolo del segreto dopo lo scandalo del Watergate e la conseguente “bonifica” degli apparati Cia. Alle vicende italiane vengono dedicati due lunghi capitoli (a cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti) che offrono particolari illuminanti ai fini dei fatti odierni.

Dalle molto credibili analisi di Roberto Faenza – suffragate da solide basi documentarie – si ricava un quadro di grande complessità sia per ciò che riguarda le divisioni interne alla Democrazia Cristiana sul finire degli anni ’50, che del parallelo imbarazzo dell’amministrazione Kennedy nel dover decidere se appoggiare o contrastare la partecipazione al governo del Paese Italia del Partito Socialista Italiano. Le vicende esaminate sono di grande complessità e non possono certamente essere riassunte in breve, ma ciò nonostante alcune linee generali sono enucleabili e così riassumibili:

a) che sull’ipotesi di un Governo di centrosinistra in Italia concordavano sia il presidente Kennedy che il suo consigliere speciale Schlesinger nel mentre esistevano altri settori dell’apparato che erano contrari e che tra questi ultimi si possono citare vasti settori della Cia;

b) che viceversa all’interno della Democrazia Cristiana e dei partiti alleati lo scontro era altrettanto aspro. Sinteticamente si può dire che Fanfani, Moro e i loro alleati erano favorevoli all’apertura a sinistra anche in funzione anticomunista, mentre Codacci, Pisanelli, Segni e altri erano decisamente contrari. Qui si può ricordare che l’on. Segni aveva presieduto un governo di centrodestra proprio negli anni che precedono il tentativo Tambroni;

c) che gli americani avevano grande interesse a ridimensionare la figura di Enrico Mattei (presidente dell’Ente petrolifero italiano, ENI) perché danneggiava con la sua intraprendenza gli interessi delle grandi corporation del petrolio (dette le “Sette Sorelle”). Enrico Mattei verrà ammazzato qualche anno dopo (il suo aereo “cadrà” misteriosamente vicino a Milano) e si può pensare che la sua scomparsa rientri nella parte oscura della trattativa sul centrosinistra.

Fin qui si potrebbe parlare di “normale amministrazione”, ma è invece a questo punto che nei documenti ex segreti compare con tutta la sua importanza la figura del generale de Lorenzo. Di lui si parla quando – dopo essere stato nominato generale di corpo d’armata dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti – si appresta a diventare comandante dell’Arma dei carabinieri. A questa carica de Lorenzo arriva dopo essere riuscito a minare – con l’ausilio della Cia – il prestigio del predecessore generale De Francesco. La tecnica di eliminazione è la più semplice e scontata. De Lorenzo nelle sue funzioni di capo del Sifar fa pedinare a lungo De Francesco e poi tramite giornalisti compiacenti riesce a divulgare “notizie tendenti a danneggiare la sua correttezza sul piano morale”.

Dai documenti americani risulta con chiarezza che de Lorenzo è un uomo strettamente legato alla Cia, che deve la sua carriera a questo legame e che da quello ne è determinato nel suo muoversi ai vertici degli apparati repressivi.

La sua vicenda si intreccia con quella del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel senso che la Cia, preoccupata per l’elezione alla massima carica della Repubblica (nel 1956 e cioè lo stesso anno dell’accordo segreto tra Cia e Sifar) dell’esponente democristiano sospetto di “sinistrismo”, attiva il dirigente della stazione Cia in Italia (al tempo William Colby, che negli anni ’70 – sotto Nixon – diventerà direttore generale della Cia stessa) per prendere delle contromisure precauzionali. Il compito viene affidato a Giovanni de Lorenzo, che anche per questo motivo diviene capo del Sifar. «Ottenuto il consenso dell’allora ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, de Lorenzo si insedia al comando dei servizi segreti italiani. Conquista la fiducia del nuovo presidente della Repubblica e si appresta a divenire – con l’appoggio determinante della Cia – l’eminenza grigia delle trame politiche italiane, seminando i germi di quelle tragiche deviazioni che costituiranno l’ossatura di un cancro destinato a durare per oltre vent’anni». [4]

I sistemi usati da de Lorenzo per ottenere la fiducia di Gronchi assumono spesso toni esilaranti (fra tutti vedi gli episodi citati da Giorgio Boatti nel suo L’Arma già citato) ma comunque molto efficaci se si pensa che la sua frequenza al Quirinale diventerà pressoché giornaliera.

Ovviamente sarebbe dare troppa importanza al mediocre Giovanni Gronchi se ci limitassimo a constatare una preoccupazione statunitense nei confronti di un presidente della Repubblica sospetto o sgradito; in realtà tutta l’operazione della Cia ha un respiro più ampio ed è la conseguenza di accordi generali che riguardano tutta l’alleanza occidentale nell’epoca post-bellica.

La parola chiave in questo quadro è “Demagnetize” e si riferisce ad un “piano” sottoscritto dagli alleati occidentali che impegna i vari servizi segreti a rispettare gli obiettivi di una strategia permanente di offensiva anticomunista nei [rispettivi] Paesi.

«Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche atte a ridurre la presenza del partito comunista in Italia. Una versione analoga è in vigore in Francia e in altri Paesi europei.

Al generale de Lorenzo – appena nominato – [è questo l’accordo segreto del ’56?] viene fatto sottoscrivere dalla Cia l’obbligo di aderire alle finalità del piano “Demagnetize” senza informare i suoi superiori al governo».

Roberto Faenza nel commentare questi documenti (provenienti da un memorandum del “JCS”, Joint Chief of Staff, ovvero Stato Maggiore statunitense) scriverà: «È la prima vera deviazione dei servizi segreti italiani, rimasta segreta sino a questo momento».

Il documento del “JCS” così prosegue: «L’obiettivo ultimo del piano è quello di ridurre le forze dei partiti comunisti, le loro risorse materiali la loro influenza sul governo italiano e francese e in particolare nei sindacati, di modo da ridurre al massimo il pericolo che il comunismo possa trapiantarsi in Italia e in Francia, danneggiando gli interessi degli Stati Uniti nei due Paesi. La limitazione del potere dei comunisti in Italia e in Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo […] del piano “demagnetize” i governi italiano e francese non devono essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale». [sottolineatura mia]

Ci sembra a questo punto del tutto evidente che l’operazione Gladio (con i suoi patetici – e non per questo meno pericolosi – 620 patrioti rincoglioniti) è al massimo solo un tassello del mosaico delle trame occulte. Un tassello piuttosto utile e probabilmente programmato, per depistare il più possibile le verità reali. Nel documento allegato (dello Stato Maggiore della Difesa italiano) c’è un particolare divertente che non sappiamo se addebitare all’ignoranza dei redattori o a una sottile operazione linguistico-politica. Ci riferiamo alla traduzione che viene fatta del termine “Stay Behind” con “restare indietro” volendo in questo modo rafforzarne la concettualità difensiva in previsione di invasione nemica; in realtà si tratta di una espressione figurata inglese che significa piuttosto “stare dietro le quinte”. E qui le “quinte” – se riferite a quanto abbiamo fino ad ora scritto – sono molteplici come le false prospettive del teatro palladiano perché contemplano la presenza del Sifar, dell’Arma dei carabinieri, della Cia, di forze politiche, ecc. ecc. A ciò si può aggiungere che il piano “demagnetize” e la rete “Stay Behind” sono strettamente collegati fino ad essere praticamente la stessa cosa.

Tornando al generale de Lorenzo, non c’è dubbio che i suoi superiori statunitensi possono ritenersi soddisfatti ampiamente della sua efficienza. De Lorenzo infatti dissemina di microfoni le stanze del Quirinale e quelle della biblioteca del pontefice in Vaticano (a quel tempo al soglio pontificio è insediato Giovanni XXIII che come è noto non è stato mai gradito agli statunitensi). Per quanto concerne i microfoni impiantati al Quirinale, essi rimarranno durante la presidenza di Gronchi, di Segni, di Saragat e di Leone, a volte a insaputa del presidente in carica, a volte grazie al suo stesso consenso. Nel caso delle registrazioni in Vaticano, il Sifar e la Cia si troveranno a fare i conti con i collaboratori di Giovanni XXIII che, scoperti i microfoni, li faranno smantellare. [5]

Ma questo è solo un aspetto del lavoro di de Lorenzo e del Sifar.

A partire dal 1959 infatti – sotto l’allora ministro della Difesa Segni – il Sifar inizia una sistematica schedatura di tutti i leader politici, sia di destra che di centro che di sinistra, ai fini di eventuali ritorsioni e ricatti. Responsabili americani di questa operazione sono il capo stazione Cia William Colby e l’addetto militare dell’ambasciata, colonnello Vernon Walters. [6]

In uno spazio di tempo relativamente breve i fascicoli delle schedature supereranno i 100.000 nomi. La cifra, chiaramente sproporzionata in rapporto al numero dei “politici”, diventa comprensibile sulla base di una serie di circolari Sifar che estendono l’area dei controllati a “prelati, vescovi e sacerdoti delle varie diocesi” e a chiunque altro possa svolgere compiti di fiancheggiamento dell’“apertura a sinistra” o appartenga all’area comunista.

Per portare avanti questo compito de Lorenzo – in procinto di passare al comando generale dell’Arma dei carabinieri – si dota di collaboratori fidatissimi come il generale Viggiani (che lo sostituisce al comando del Sifar), il colonnello Allavena (che insieme al “tecnico” colonnello Guerrazzi aveva piazzato i microfoni al Quirinale), il colonnello Tagliamonte (responsabile dell’ufficio amministrativo del Sifar e poi, contemporaneamente, del bilancio dell’Arma dei carabinieri) e il colonnello Renzo Rocca (responsabile della divisione REI – Ricerche Economiche e Industriali – del Sifar) che verrà misteriosamente “suicidato” negli anni ’70.

Siamo a questo punto nell’anno 1962 e lo scenario politico può essere così sintetizzato:

1) La situazione politica nazionale è apparentemente bloccata con un governo di transizione presieduto dall’on. Amintore Fanfani. Dietro le quinte si svolge invece un complesso gioco politico che vede la dirigenza statunitense contraddittoriamente agitarsi per decidere se appoggiare o meno l’apertura politica alle forze del Psi. In questo quadro il gruppo de Il Mulino (Fabio Luca Cavazza, Pietro Rescigno, Luigi Pedrazzi e Giorgio Galli) svolge il compito di collegamento e aggiornamento politico tra la “sinistra” democristiana e la presidenza Kennedy. [7]

2) La Cia ed altri apparati segreti statunitensi ritengono “pericolosa” l’apertura a sinistra in Italia e in questa prospettiva attivano contemporaneamente una rete “golpista” e una serie di operazioni per indebolire il Psi (fino a finanziare addirittura una scissione di sinistra). L’alternativa all’ipotesi golpista consiste in una notevole riduzione delle possibilità di riforme profonde determinata dalla presenza dei socialisti nel governo. In questo schema la minaccia del golpe dovrebbe convincere i socialisti a svolgere un ruolo di semplice supporto al perdurare della centralità della dirigenza democristiana. [8]

3) Pilastri di questa strategia sono il Sifar (oramai saldamente nelle mani degli uomini di de Lorenzo e quindi della Cia) e l’Arma dei carabinieri di cui de Lorenzo è appena diventato comandante. Come è ovvio le forze di polizia non sono un problema, come abbiamo ampiamente dimostrato nello svolgersi di questa nostra ricostruzione.

4) Gabbia d’acciaio in cui si è inserita questa strategia sono sia il piano “Demagnetize” che “Stay Behind”.

Mentre l’onorevole Antonio Segni diventa presidente della Repubblica (portando in alto con sé il “pupillo” on. Francesco Cossiga), il generale de Lorenzo al comando dei carabinieri trasferisce – in un solo giorno – in sedi periferiche decine di ufficiali superiori (la lista degli emarginati fornita in copia al colonnello Walters ne elenca oltre 80, tra ufficiali e sottufficiali) impadronendosi sia dei vertici che di parte delle sedi periferiche dell’Arma e ponendo al posto degli emarginati dei propri ufficiali fidatissimi in parte provenienti dal Sifar.

A completare questo quadro interviene la decisione di William Harvey (divenuto il nuovo responsabile della Cia per i rapporti con il Sifar) di attivare il colonnello Rocca per realizzare una serie di azioni di disturbo nei confronti di quelle correnti della Democrazia Cristiana (particolarmente l’area di Aldo Moro) intenzionate a realizzare l’apertura al Psi. Sono necessarie, suggerisce Harvey, “squadre d’azione” per compiere attentati contro le sedi della Democrazia Cristiana e di alcuni quotidiani del Nord, da attribuirsi alle sinistre; sono necessari altresì gruppi di pressione che chiedano, a fronte di questi attentati, misure di emergenza al governo e al capo dello Stato. In ogni caso questi gruppi “arruolati e coperti” potranno essere utili per qualsiasi evenienza. Negli archivi della stazione Cia di Roma vi sono alcune liste di formazioni paramilitari di estrema destra che da tempo banno offerto i loro servizi in funzione anticomunista. I nominativi – oltre 2.000 – contenuti nelle liste in possesso di Harvey si riferiscono a uomini capaci di uccidere, piazzare bombe e ordigni incendiari, fare propaganda. Nelle liste compaiono altresì nominativi di alcuni industriali del Nord – un ingegnere edile, un petroliere, un commendatore e un patrizio lombardo – che fungono da finanziatori del gruppo più consistente operante soprattutto in Lombardia, Liguria e Piemonte. [9]

Harvey chiede a Rocca di riesumare i contatti con i gruppi eversivi arruolati attraverso i fondi della divisione REI del Sifar. L’operazione può essere coperta e resa legittima da un accordo segreto preesistente che prevede il reclutamento di civili in funzione di difesa a seguito di invasione di forze militari straniere o di gravi pericoli derivati da sovvertimenti interni.

Ci sembra evidente che Harvey si riferisce più o meno al documento che alleghiamo e che intuisce le formazioni Gladio che in questo quadro – indipendentemente da quello che poi tali formazioni hanno realmente fatto – oltre ad essere niente più che un tassello di un’operazione enormemente più vasta, sono utili come copertura in quanto contemporaneamente segrete ma “legittime”.

Il colonnello Rocca, comunque, si muove subito con grande efficienza e decisione. Parte per Genova, Savona, Torino e Milano e si mette in collegamento con alcune formazioni di estrema destra. Una di queste comprende nientemeno che i redivivi della “X MAS”, la squadra fascista comandata dal principe Valerio Borghese ai tempi della Repubblica sociale. Vengono tutti arruolati e stipendiati in massa per organizzare “milizie regolari” e “nuclei d’azione”. Un altro gruppo con cui Rocca entra in contatto è costituito da alcuni individui “preparati, tenuti pronti e finanziati” principalmente da Vittorio Valletta e dalla Confindustria. [10]

Ma la formazione più consistente alla quale Rocca decide di appoggiarsi è quella di Luigi Cavallo, un misterioso personaggio esperto in provocazioni politiche. Per una scheda più esauriente sulle attività di questa singolare figura di provocatore per anni al servizio della FIAT, rinviamo al n. 9-10 di Controinformazione del novembre 1977. Ai fini della nostra ricostruzione possiamo invece dire che Cavallo viene regolarmente reclutato dal colonnello Rocca con l’incarico di infiltrarsi nelle file del Partito Socialista, al fine di fornire informazioni e creare problemi alle ali di sinistra: l’obiettivo è inquinare il partito di Nenni per portarlo all’incontro con la Democrazia Cristiana in stato di debolezza.

De Lorenzo dal canto suo non perde tempo. Potenzia in ogni settore l’Arma dei carabinieri dotandola di un centro di telecomunicazioni completamente autonomo, potenziandone l’armamento e moltiplicando le alleanze all’interno delle Forze Armate. Ma il suo capolavoro è la creazione della oramai famosa XI Brigata meccanizzata che dovrebbe costituire la struttura portante del cosiddetto “Piano Solo” (“Solo” nel senso che può essere attuato autonomamente dall’Arma dei carabinieri). L’XI Brigata ha caratteristiche di grande potenza e flessibilità. Harvey, informando il quartier generale della Cia, sottolinea come le caratteristiche di questa brigata corazzata consentano il suo rapido spostamento in parti diverse del territorio nazionale e come la dotazione di mezzi corazzati da 50 tonnellate non lasci dubbi sul suo effettivo uso politico visto che tali mezzi non si capisce a che dovrebbero servire nei soli servizi d’ordine pubblico.

A questo punto il quadro è completo ed è del tutto rassicurante per le dirigenze al Cia in Italia e negli Stati Uniti. Antonio Segni, presidente della Repubblica, è decisamente contrario al centrosinistra e si lega a doppio filo al generale de Lorenzo [11], il Sifar ha attivato e potenziato il piano “Demagnetize” e i provocatori al servizio della divisione REI del colonnello Rocca; nel mentre l’enorme mole di fascicoli e schedature raccolte dal Sifar costituiscono una efficace arma di ricatto che tocca a tutto campo i maggiori esponenti della politica italiana.

Il centrosinistra di Aldo Moro e Pietro Nenni prende il suo avvio con sospesa sopra la testa come una spada di Damocle la costante e reale minaccia di un colpo di Stato. Minaccia che diventerà esplicita quando il Psi manifesterà (tra il ’64 e il ’65) l’intenzione di ritirarsi dalla compagine governativa. Nenni dirà poi nelle sue memorie di aver deciso di restare al governo riducendo le istanze riformiste, perché gli era stato fatto sentire “il rumore di sciabole” (cioè il simbolo dei carabinieri) mentre Aldo Moro dopo un incontro con il generale de Lorenzo (presenti Zaccagnini, Rumor, Silvio Gava e il capo della polizia Vicari) opererà una faticosa mediazione con questo imponente apparato ricattatorio nominando il generale de Lorenzo capo di Stato Maggiore dell’esercito. A questo punto il generale dispone (apparentemente) del controllo del Sifar al cui comando è salito il fidatissimo Allavena (dopo la morte di Ciglieri), dell’Arma dei carabinieri – che è passata al Generale Ciglieri – e di un rilevante controllo sulle formazioni dell’esercito. Dietro le varie reti clandestine hanno raggiunto completezza ed efficienza infiltrandosi nei partiti, negli organi della stampa (almeno 34 giornalisti risultano nei fogli paga della Cia) e in molti altri settori della società civile.

Si può logicamente supporre che a questo punto la Cia si ritenga soddisfatta dei risultati raggiunti. L’operazione iniziata nel ’59 con le schedature Sifar [12] e proseguita con la strutturazione degli apparati segreti è riuscita perfettamente. Non occorre quindi più attivare l’operazione golpista. Il Piano Solo viene bloccato – non potrebbe riuscire senza l’aiuto della Cia – e la stessa nomina di de Lorenzo a capo di Stato Maggiore dell’esercito è più una riduzione del suo grande potere personale che non la sua estensione. Lo stesso presidente della Repubblica Antonio Segni rimarrà non poco spiazzato da questi mutamenti di prospettiva. [13]

Si può quindi a questo punto affermare che l’apparato dei cosiddetti “corpi separati” dello Stato – su cui intere generazioni di militanti della controinformazione degli anni ’70 si sono scervellati (intuendone – unici fra tutti nel panorama politico italiano – la pericolosità e il profondo radicamento nel sistema politico e militare nazionale) e che non è esagerato affermare possa essere considerato la fonte di tutte le deviazioni stragistiche e di tutte le trame nere od oscure – è completato e interamente coperto dai servizi segreti americani che hanno raggiunto l’obiettivo di condizionare totalmente il quadro politico italiano.

Il centrosinistra, come è noto, vivacchierà per alcuni anni fino a dissolversi lasciando il Psi in una grave crisi di progettualità politica mentre all’interno dell’Arma dei carabinieri, del Sifar, degli Stati Maggiori dell’esercito, si svilupperà una lotta accanita [14] per impadronirsi dell’eredità del generale de Lorenzo (compresi i segreti di cui è depositario per conto della Cia), nel frattempo travolto nello scandalo sul Sifar e i fatti del ’64 rivelato dai giornalisti de L’Espresso.[15]

Si può qui supporre che questa eredità passi nelle mani del generale Vito Miceli che dirigerà il SID (e cioè il Sifar riformato) fino al 1974. Anno in cui su iniziativa di Andreotti verrà defenestrato e incarcerato. Il generale Miceli deve le sue disgrazie all’essere pesantemente coinvolto nel tentativo di golpe detto della “Rosa dei venti”. Il tentativo, svelato dal giudice veneto Tamburino, vedeva coinvolti molti ufficiali superiori del III Corpo d’armata di Padova [16] (tra cui il famoso colonnello Amos Spiazzi), ma vedeva anche il coinvolgimento della medaglia d’oro della Resistenza Edgardo Sogno e del sempiterno provocatore Luigi Cavallo, già reclutato dall’ufficio REI del colonnello Rocca per conto della Cia e del generale de Lorenzo. Il gen. Vito Miceli era arrivato ai vertici nel 1970 sostituendovi l’ammiraglio Eugenio Henke. Collaboratori diretti di Miceli saranno Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna entrambi coinvolti per anni nei vari processi sulle stragi a partire da quella di Piazza Fontana. Il capitano Labruna inoltre è l’autore tecnico materiale degli omissis fatti apporre dall’allora sottosegretario alla Difesa Francesco Cossiga sui documenti relativi all’inchiesta Sifar Piano Solo. Un tragico riscontro che dimostra che le reti create nei primi anni ’60 continuano a funzionare può essere, inoltre, dimostrato dal fatto che nel 1974 le stragi di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus si verificano puntualmente dopo lo smascheramento del complotto della “Rosa dei venti” e a pochi mesi dalle previste avanzate elettorali del Pci (Amministrative 1975 e Politiche 1976).

Si può osservare che però – se paragonato al clima dei primi anni ’60 – il gioco si è fatto più pesante e tragico. Ma bisogna tenere presente che in mezzo c’erano stati il ’68, l’“autunno caldo”, i movimenti di massa e che in ogni caso l’elaborazione del “compromesso storico” (cavallo di battaglia del Pci di Berlinguer) era – dal punto di vista degli apparati segreti statunitensi – ben più preoccupante dell’allargamento a un debole Psi dell’area governativa.

Si intuisce anche (purtroppo non ci sorreggono più le documentazioni riportate da Roberto Faenza che si fermano ai tardi anni ’60) che è mutata una parte dello schema ideologico di fondo. Non più il colpo di Stato (sempre possibile) in funzione di condizionamenti del quadro politico, ma piuttosto uno schema che viene definito dalla rivista Monthly Review di “regressione selettiva”. Si passa, cioè, dalla teoria della conservazione o restaurazione reazionaria (tipica dello schema Cia degli anni ’60) a una teoria della “sovversione reazionaria”. La base sociale di questa nuova tendenza non è costituita dagli strati borghesi decaduti o emarginati ma proprio dalle forze economiche in pieno sviluppo. [17]

Non c’è dubbio che è proprio a partire dal 1974 che le dirigenze industriali italiane danno corso a quel profondo processo di ristrutturazione produttiva che durerà molti anni e i cui obiettivi contemplano la completa distruzione dell’autonomia politica del “corpo centrale della classe operaia”.

Ma un obiettivo così rilevante non era certamente raggiungibile facilmente se si tiene conto della forza e del radicamento del movimento dei Consigli di Fabbrica (CdF) della loro consistente indipendenza dai vertici sindacali e dal Pci; della diffusa presenza nel sociale di forti movimenti antagonisti dotati di sedi, strumenti di comunicazione e radicamento nel territorio, nei servizi, nelle scuole e nelle Università.

Di questi problemi che riguardano il Paese Italia (ma non solo) [18] sono perfettamente coscienti sia le élites industriali e politiche nazionali che quelle internazionali che dispongono però – a differenza dei primi anni ’60 – (quando per comprendere la situazione italiana dovettero ricorrere all’allora sconosciuto gruppo de Il Mulino) di un efficace organismo sovranazionale denominato “Trilateral Commission”.

L’organismo nasce negli Stati Uniti nel 1973 ed è composto, all’inizio, da 250 membri, più o meno segreti, scelti fra gli opinion’s leaders (industriali, giornalisti, uomini politici, membri delle forze militari, banchieri, ecc.) di tre continenti (Europa, Giappone, Stati Uniti) e vuole essere (citiamo da uno dei testi di fondazione): «Un’organizzazione politicamente orientata, l’espressione della politica di quelle regioni del nostro pianeta che si autoproclamano democratiche e industrializzate». L’organismo fu fortemente voluto e appoggiato da Rockefeller e nasceva dalla constatazione che la situazione a livello mondiale era estremamente grave (crisi recessive, crisi petrolifera con i Paesi produttori, crisi politiche interne dei Paesi occidentali) e che «le tendenze e gli spostamenti del sistema internazionale sono globali come trilaterali nello scopo». S.P. Huntington, uno dei suoi membri, affermò significativamente, che «le cause immediate dell’espansione dell’attività e, al tempo stesso, del declino dell’autorità del governo [inteso in senso generale – NdR] vanno ricercate nell’onda democratica degli anni 1960-70. Come governare questo marcato aumento della coscienza politica, della partecipazione, dell’impegno sui valori democratici ed egualitari?».

Occorre, aggiunge Huntington, ammettere «che ci sono limiti potenzialmente auspicabili alla crescita economica. [19] E così ci sono pure limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica».

Ma Huntington non si ferma qui e si spinge a disegnare un futuro di nuovi scenari istituzionali: «Si potrebbe sostenere che i partiti rappresentano una forma politica particolarmente adatta alle esigenze della società industriale e che quindi l’avanzata di una fase post-industriale implica la fine del sistema dei partiti politici quale finora l’abbiamo conosciuto […] il funzionamento di un sistema politico democratico richiede, in genere, una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione marginale, di dimensioni più o meno grandi, che non ha partecipato attivamente alla politica. In sé, questa marginalità da parte di alcuni gruppi è intrinsecamente antidemocratica, ma ha anche costituito uno dei fattori che hanno consentito alla democrazia di funzionare efficacemente. La loro attuale diffusa partecipazione sovraccarica il sistema politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano l’autorità».

Possiamo terminare qui la lunga citazione da dove risulta evidente la lucidità di analisi della Trilateral. Specialmente se si pensa che queste riflessioni venivano elaborate nel 1975 e che, se applicate alla situazione italiana permettono suggestive considerazioni sui tardi anni ’70 e su tutti gli anni ’80.

Tornando, appunto, alla situazione italiana, non c’è dubbio che gli anni 1974-77 sono un periodo di cambiamenti strategici. Le élites democristiane si trovano di nuovo di fronte al dilemma di come mantenere la propria centralità al rischio di allargare nuovamente a sinistra l’area di governo. Ma questa volta non sarebbe più sufficiente il ricorso ai soliti socialisti e ciò non soltanto per motivi numerici, ma perché il Psi non rappresenta oramai più nessuna garanzia di controllo della conflittualità operaia e sociale. A questa considerazione occorre aggiungere che le solite profonde divisioni all’interno della Democrazia Cristiana tra chi vuole un coinvolgimento del Pci (soprattutto la corrente di Aldo Moro) e chi la ostacola (la gran parte dei notabili), è ingigantita a dismisura dalla presenza e moltiplicazione delle azioni di provocazione messe in atto proprio da quelle “organizzazioni clandestine” attivate negli anni ’60 come risposta all’“allargamento a sinistra” del quadro politico. Volendo assegnare una parvenza di “coscienza responsabile” ad alcuni settori della dirigenza democristiana (soprattutto Andreotti e ovviamente Moro) non si può non riconoscere che l’esistenza di tutti questi “corpi separati” potesse rappresentare un pericolo grave anche per loro nel mentre la situazione interna e le indicazioni della Trilateral segnalavano piuttosto la necessità di una vasta e complessa operazione politica piuttosto che l’uso spregiudicato del ricatto golpista-militare. Crediamo sensato collocare in questa fase e in queste contraddizioni il passaggio dalla “strategia della tensione” alla “politica dell’emergenza”. In questo quadro l’arresto del generale Miceli e lo smascheramento del complotto della “Rosa dei venti”, assumono significati emblematici se paragonati alla tolleranza nei confronti delle trame di de Lorenzo ai tempi della progettazione del centrosinistra. Ma non poteva certo essere facile emarginare o scaricare un così vasto apparato militare e ricattatorio come quello messo in piedi dalla Cia e dal Sifar, e infatti questo apparato continuerà ad esistere e troverà nelle attività della Loggia massonica P2 il suo punto di coagulo, la sponda politica che durerà fino ai primi anni ’80 (?).

Questa volta il Pci di Berlinguer pare più attrezzato per inserirsi nel quadro politico generale (la stessa partecipazione del suo responsabile degli esteri, Sergio Segre, ad uno dei convegni della Trilateral nel 1976, pare denotare che i dirigenti comunisti hanno capito da quale parte tira il vento) e decide di giocare tutte le proprie carte. I comunisti si rendono conto, infatti, che le dirigenze industriali e quelle politiche hanno l’estrema necessità di imprimere una svolta profonda sia al sistema produttivo che al quadro politico complessivo. Ma queste necessità sono ostacolate dai motivi politici e conflittuali sopraelencati. Ed è in questa contraddizione che si inserisce la strategia di Berlinguer. La politica del “compromesso storico” più che fare riferimento ai banalizzanti tragici eventi cileni, trae alimento e progettualità dal quadro politico nazionale.

Da quel momento in avanti viene dispiegato in funzione di questi obiettivi (cioè possedere un’adeguata merce di scambio politico con gli industriali e con la Democrazia Cristiana) tutto l’apparato del Partito Comunista: viene riconosciuta la NATO; vengono pesantemente delegittimati i Consigli di Fabbrica; viene iniziata una forsennata campagna giornalistica contro i movimenti antagonisti (campagna che si tradurrà in inchieste giudiziarie condotte per la gran parte da magistrati vicino al Pci); viene propagandata la cosiddetta “politica dei sacrifici”; si elabora la teoria della necessità di un “patto tra produttori” (esemplare in questo caso il libro di Bruno Trentin, Da sfruttati a produttori, De Donato, 1978). Berlinguer dirà più tardi che «il terreno della produttività non è un’arma del padronato, ma un’arma del movimento operaio per mandare avanti la politica di trasformazione» e Sylos Labini (approvato entusiasticamente da Lama) affermerà addirittura che «la sinistra deve deliberatamente e senza cattiva coscienza aiutare la ricostruzione di margini di profitto [per gli industriali – NdR] anche proponendo misure onerose per i lavoratori» e che «queste scelte possono essere un passo nella direzione dell’omogeneità gramsciana» (!).

Gli strademocristiani e gli industriali non potrebbero certo pretendere di più.

Non ci sarebbe neanche più bisogno di trame occulte visto che il Pci in questo modo si suicida di fatto da solo mentre H. Kissinger – uno dei grandi capi della Trilateral e molto altro ancora – ribadisce il veto americano all’ingresso del Pci al governo.

Alla fine degli anni ’70 il lungo percorso tra restaurazione e riforme iniziato nei primi anni ’60, appare completato o comunque avviato sui binari voluti dalla dirigenza statunitense occulta o palese. Vi sarà un ultimo tragico sussulto dei “corpi separati” con la strage di Bologna (pochi mesi dopo la strage l’attuale sindaco comunista di Bologna, Renzo Imbeni dichiarerà che per il Pci bolognese il convegno del Movimento del ’77 e la strage rappresentavano un eguale livello di provocazione al sistema democratico cittadino), ma con il nuovo protagonismo del Psi craxiano la strada verso la modifica radicale dei fondamenti della democrazia italiana appare tracciata. Le libertà individuali sono sotterrate dalla legislazione di emergenza e premiale, il Diritto del Lavoro stravolto, ecc. ecc. Le necessità istituzionali delle democrazie post-industriali elencate dal “trilateralino” Huntington paiono avviate verso un avvenire luminoso. Si è indubbiamente trattato di golpe “strisciante democratico” come alternativa a quello militare. Il Pci, come al solito, non ci ha capito nulla ed ha contribuito a seminare disastri senza ottenere nessuna ricompensa.

In questo scenario il presidente della Repubblica Francesco Cossiga può a buon diritto ritenersi orgoglioso di aver coperto e organizzato per quarant’anni la struttura Gladio. Ma in realtà cosa ha coperto e diretto? Una struttura di “patrioti” piuttosto sgangherata o invece i più alti vertici dei carabinieri, parte della forze armate e un’accozzaglia di agenti segreti dediti alla pratica dell’assassinio legalizzato? Ha forse protetto le trame dei servizi segreti americani che hanno insidiato e continuano a insidiare la tanto proclamata “sovranità” nazionale senza preoccuparsi di renderne partecipe lui, né la tragica banda di “marginali” ricattabili a cui appartiene?

Primo Moroni

Note

[1] C. Bermani, “La democrazia reale”, in 625. Libro bianco sulla legge Reale, a cura del Centro d’iniziativa Luca Rossi, Milano, 1990. Le affermazioni di Scelba sono fatte dall’intervista “Ecco come difesi la libertà degli Italiani”, uscita sulla rivista Prospettive nel Mondo, gennaio-febbraio 1988 (sottolineature mie).

[2] C. Bermani, cit.

[3] G. Boatti, L’Arma. I carabinieri da de Lorenzo a Mino, Feltrinelli, Milano, 1978.

[4] R. Faenza, Il Malaffare, Mondadori, Milano, 1978.

[5] Cfr. R. Faenza, cit.

[6] Il colonnello Vernon Walters ha sempre sostenuto nelle riunioni con i vari responsabili a Roma che gli americani non avrebbero dovuto esitare ad invadere l’Italia se il Psi fosse entrato al governo.

[7] Secondo i documenti consultati da R. Faenza (cit.) il presidente Kennedy a partire dal ’61-62 non aveva più nessun controllo sugli apparati di sicurezza nel mentre aveva decisamente schierato contro di lui il Dipartimento di stato.

[8] Nelle elezioni italiane del 1963, Karamessines decide di finanziare le correnti di centro e di destra della Democrazia Cristiana. I conti correnti e gli istituti di credito attraverso i quali la Cia fa pervenire i propri sussidi finanziari sono: lo IOR Vaticano, il Banco di Roma, la National City Bank, ecc. Gli esponenti della DC (quelli rilevanti) che si sono dichiarati contrari all’apertura a sinistra in quegli anni sono: Giuseppe Codacci Pisanelli, Guido Gonnella, Giuseppe Pella, Mario Scelba, Giulio Andreotti (quest’ultimo negli anni ’70 passerà da una posizione di destra a una posizione di apertura a sinistra). Thomas Karamessines sostituisce alla guida della Cia in Italia William Colby (che diventerà capo generale dell’agenzia sotto Nixon) alla fine degli anni ’50 per rimanervi fino al ’63 quando sarà sostituito da William Harvey. Vale la pena di notare che Karamessines avrà più tardi un ruolo rilevante nell’oscuramento delle prove documentali concernenti l’assassinio del presidente Kennedy.

[9] R. Faenza, cit.

[10] Cfr. Commissione Parlamentare di Inchiesta sugli eventi del Luglio 1964, CPI, Roma, 1971.

[11] Il presidente della Repubblica Antonio Segni appoggia interamente l’ascesa e le trame di Giovanni de Lorenzo, lancia continui allarmi sui pericoli incombenti per la “democrazia” italiana (in questo lavorando “di sponda” con le strategie del dirigente della Cia Harvey e del colonnello Rocca). Culmine del suo coinvolgimento “pubblico” può essere considerato il famoso numero del settimanale Epoca che nel luglio 1964 esce con una copertina tricolore chiedendo “al capo dello Stato un Governo energico e competente”.

[12] Alla fine degli anni ’60, e ancora negli anni ’70, una volta rivelata l’esistenza di decine di migliaia di schedature, i vari ministri della Difesa e i presidenti del Consiglio succedutisi alla guida dei governi, daranno ampie assicurazioni in merito alla distruzione dei fascicoli. Dai documenti Cia risulta che copie di tali fascicoli vennero inviati alla divisione Pastrengo di Milano e ai carabinieri di Napoli. Sicuramente una copia in microfilm esiste negli archivi di Langley della Cia. Come è noto, inoltre, copie di migliaia di questi fascicoli vennero trovati nella villa di Licio Gelli in occasione delle vicende connesse alla Loggia P2.

[13] Il presidente della Repubblica Antonio Segni verrà colto da paralisi (in linguaggio popolare “coccolone”) nel 1965 proprio in concomitanza del “cedimento” di Pietro Nenni (cedimento dovuto al “rumore di sciabole”) e la conseguente rinuncia momentanea da parte della Cia a proseguire il progetto “golpista”. In realtà la Cia riteneva di aver ottenuto il risultato “politico” di svuotare di qualsiasi vigore riformista il governo di centro-sinistra. De Lorenzo veniva “calmato” con la nomina a capo di Stato Maggiore dell’esercito mentre tutti gli apparati segreti rimanevano peraltro in piedi e funzionanti. Antonio Segni veniva “dimesso” dalla carica di capo dello Stato e al suo posto veniva eletto l’ultra-filoamericano Giuseppe Saragat.

[14] Dimostrazione più evidente della guerra clandestina tra gli apparati militari può essere considerata la sequela di “vicende oscure” che accompagnano per vent’anni la nomina del nuovo comandante dell’Arma dei carabinieri. Nomina che prevede – di fatto – ogni volta una complessa rotazione che riguarda i comandanti dei servizi segreti, dei capi di Stato Maggiore dell’esercito e della difesa, ecc. Come non pensare che la posta in gioco (oltre al prestigio personale) fosse – e sia tutt’oggi – il rapporto privilegiato con gli apparati segreti statunitensi e l’accesso alla documentazione “top secret” sulle trame oscure e sui cosiddetti “corpi separati”? Come non pensare all’enorme potenziale ricattatorio derivato dall’accesso a questa documentazione?

[15] Di questa vicenda ci sembra inutile parlare perché è stata materia di ampia informazione giornalistica in occasione delle rivelazioni sul piano Gladio.

[16] Le vicende del III Corpo d’armata di Padova sono lunghissime; è però opinione comune degli storici che sia sempre stato un focolaio di tentazioni golpiste e nazionaliste. L’armata di Padova ha anche caratteristiche assai particolari nello schieramento militare italiano. In tempo di guerra al comandante della III armata compete la guida di tutto l’esercito di campagna, in tempo di pace gli si chiede di elaborare le dottrine militari sulle quali potrebbero svilupparsi nuovo compiti dei reparti operativi. Molti generali e ufficiali poi coinvolti in trame golpiste hanno rivestito cariche rilevanti in questa armata (fra tutti il citato colonnello Amos Spiazzi e il generale Nardella coinvolti nella “Rosa dei venti”). Il generale Ciglieri (ex uomo di de Lorenzo) approda al comando di Padova dopo la defenestrazione del suo protettore. Qui Ciglieri morirà misteriosamente nel ’69, mentre sparisce una borsa contenente vari documenti. Poco dopo il governo italiano abolirà del tutto la struttura militare anche in seguito alle proteste jugoslave che avevano scoperto progetti aggressivi contro la SFRJ [Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia] elaborati da ufficiali di detta struttura.

[17] Si può dire che lo schema di appoggiarsi a strati delle borghesie in decadenza sia stato uno degli aspetti della “strategia della tensione” da Piazza Fontana in avanti. La “maggioranza silenziosa” era espressione visibile di quella strategia.

[18] Dei problemi connessi alla necessità di un nuovo ordine economico si occupa in profondità la “Trilaterl Commission”. A puro titolo indicativo possiamo citare che alcuni collaboratori di questa struttura riferendosi alla situazione francese così si esprimevano: «La prospettiva di un successo della Sinistra in Francia, seguito dall’ingresso al governo dei comunisti è sempre più realistica […] Il potente movimento popolare del 1968 segnò il primo grande scontro postbellico in Francia fra le masse dei salariati e il sistema politico-economico operante in quel tempo […] Quel movimento espresse, anche se confusamente, un ovvio desiderio di cambiamento. Un cambiamento profondo di tutta la società [...] Per la prima volta, un numero significativo non solo di ingegneri ed executives dell’industria, ma anche di impiegati statali partecipò alle lotte di popolo». Nel prosieguo dell’articolo si fa intendere che bisogni così profondi devono essere governati (Jen Kanapa, A New Policy of the french comunist?, in Foreign Ajfairs, January 1977).

[19] In questa espressione vanno ricercate le origini strategiche e politiche della tematica sui “limiti dello sviluppo” che verrà terroristicamente portata avanti dal Club di Roma di Aurelio Peccei a metà degli anni ’70. Il testo del rapporto del Club di Roma (intitolato appunto I limiti dello sviluppo) ipotizzava prospettive catastrofiche sul futuro delle risorse (dava per esempio per esaurite le riserve petrolifere entro il 1990. Se si pensa alle recenti vicende belliche della Guerra nel Golfo, questa previsione fa tragicamente sorridere). Risulta chiaro che questa propaganda apocalittica era funzionale al panorama di crisi intervenuta con la richiesta dell’OPEC (l’organismo dei Paesi produttori di petrolio) di modificare il regime dei prezzi e di ridefinire le reciproche competenze. Ma era altresì funzionale a contenere le masse operaie attraverso una “politica di sacrifici” giustificata dalla sfavorevole “congiuntura internazionale” e dalle necessità di ristrutturazione produttiva. È curioso che questa tematica venga fatta propria dal Partito Comunista Italiano.

dal libro (PDF) il testo (PDF)


Quel ferrovecchio di Gladio
di Primo Moroni
1992

Gladio stragi riforme istituzionali
Intervento di Primo Moroni
1991

Gladio stragi riforme istituzionali
Conclusioni di Primo Moroni
1991

1969 - 1972
Dalla strage alle elezioni
Sapere edizioni - 1972
 

Strage di Stato
a cura del comitato
di lotta sulla strage di Stato
- Soccorso Rosso -1972

Venga con noi
Dagli attentati del '69
a piazza Fontana
Colibrì edizioni - 2019

La bomba e la finestra
Calusca - APM - Cox8
2018

I vetrini di Valpreda
Carlo Oliva
La Caccia
1999

 
 
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