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La storia di Elsa Oliva (Elsinki)
Da "la resistenza taciuta
dodici vite di partigiane piemontesi",
a cura di Bruzzone e Farina.
Ed. La Pietra, 1975
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Appartengo a una famiglia di antifascisti di Piedimulera,
un piccolo paese non lontano da Domodossola, dove sono nata nel
1921. Mio padre e mia madre si sono sempre rifiutati di iscriversi
al partito fascista....mio padre, dopo il 1929, è stato privato
del posto di lavoro.....Forse mio padre, che non era molto politicizzato,
piuttosto che andare incontro a tanti guai avrebbe anche ceduto
e preso la tessera. Ma c'era mia madre. E mia madre è sempre
stata una socialista, proveniente da una famiglia di socialisti:
un fratello fuoriuscito in Francia, un altro morto molto giovane
perché picchiato dai fascisti.....
Da noi l'elemento forte della famiglia è sempre stata la
mamma.....Era una donna molto umile, una donna che, guardandola,
nessuno avrebbe detto che avesse tanta personalità.
Rimasto senza lavoro, mio padre s'era messo a fare il viaggiatore,
con la bicicletta. Andava in giro per vendere l'olio di una ditta
di Oneglia. Una piccola rappresentanza, per cui noi figli abbiamo
tutti dovuto lavorare fin da bambini. Io, ad esempio, tempo per
giocare ne ho avuto fino ad otto anni. Più tardi, dovevo
scappare per giocare, buscandomi naturalmente tutto quello che mi
dovevo buscare. Bisognava lavorare, sicuro.
Mi ricordo che andavo in seconda elementare quando ho iniziato il
mio primo lavoro: fare le pulizie in casa dei signorotti del paese.
Una volta ogni due settimane gli dovevo lucidare tutto il rame giù
nel fiume...Ogni tanto volava qualche pignatta in mezzo al fiume,
perché proprio mi arrabbiavo. E poi lucidare i pavimenti
con la "galera". Allora non c'erano gli elettrodomestici
e con questo spazzolone chiamato "galera" dovevo tirare
a cera i pavimenti di tutta la casa che era molto grande. Avevano
ragione a chiamarlo "galera", perché era così
pesante, così pesante! Bisognava muoverlo in senso sempre
dritto, solo così i pavimenti venivano lucidi. Tutto per
cinquanta centesimi la settimana. Allora nessuno regolava il lavoro.
Sotto i dodici anni si andava a lavorare e poi ti davano quello
che volevano.
Vera istruzione dalla scuola non ne ho avuta molta...a Piedimulera
c'era solo fino alla quarta elementare, poi si doveva venire a Domodossola.
Quindi potevano andare avanti nelle scuole solo quelli che avevano
i mezzi finanziari, almeno per pagarsi il trasporto. Ma a parte
il problema economico, credo che ci sarebbero state anche altre
difficoltà, perché noi non eravamo ben accetti nella
società fascista. La scuola a Piedimulera era retta da una
maestra di nome Felicina, e da una suora, suor Olimpia. La maestra
era sempre vestita da gerarca. Noi fratelli la chiamavamo "il
carabiniere" e la seguivamo per tutto il paese, facendole burle
a non finire. Sentivamo per lei istintivamente un certo rancore.
E lei ci trattava molto male a mio fratello Renato una volta hanno
dovuto dare tre punti di sutura sulla testa, perché l'aveva
picchiato con la bacchetta...Mio fratello Aldo, il maggiore, quello
che poi è morto da partigiano, è stato addirittura
cacciato da tutte le scuole del regno per un rapporto di Felicina........
Nel nostro ambiente familiare c'è stata certamente una preparazione
politica, anche se indiretta, nel senso che mia madre era molto
prudente e non ci aizzava, non commentava apertamente. Non ci esortava
apertamente all'antifascismo neanche quando mio padre veniva a casa
gonfio di botte e sanguinante...
Siamo cresciuti, si può dire, di fronte a una realtà
che non ci sembrava giusta. Quando vedevamo mio padre massacrato
di botte,la bicicletta con i pacchi tutta fracassata, stavamo ad
origliare quello che dicevano i nostri genitori e capivamo che c'era
qualcosa che non quadrava.
Con i due fratelli maggiori, Aldo e Renato, sono sempre andata daccordissimo.
Io ero la più grande delle femmine, la terza, anche se cono
la quinta nata, perché due fratellini sono morti nell'infanzia.
Ero sempre in mezzo ai maschi, a fare giochi da maschi, spalleggiata
dai miei due fratelli. Facevamo dei bellissimi giochi, suggeritici
da alcuni libri sulla Rivoluzione Francese e dalla "divina
commedia" che la padrona di casa aveva lasciato in soffitta.
Nel gioco della Rivoluzione francese noi eravamo i poveri che impiccavano
i ricchi.....
Un giorno, quando eravamo più grandicelli, di 14 anni io
e di 15 mio fratello Renato, stanchi di quella vita di lavoro e
per seguire la nostra passione per il disegno, per la pittura, siamo
scappati di casa. Siamo andati in Valsesia, e lì, per vivere,
abbiamo cominciato a dipingere e a vendere i nostri quadri....
Questa è stata la nostra infanzia. Forse anche per questa
vita, ci è stato più facile inserirci nella lotta
partigiana e combattere contro.
Nei mesi di fuga in Valsesia sfuggivamo i carabinieri e mia madre,
poverina, non sapeva niente di noi. Ma non volevamo tornare a quella
vita di lavoro massacrante. Dopo mesi ci hanno trovato. Nell'ambiente
dei pittori ci eravamo fatti tanti amici in quei mesi e non siamo
più tornati alla vita di prima. Io ho trovato tra questi
amici anche il mio compagno, Omero Solaro, il padre del mio primo
bambino. Omero è stato partigiano ed è morto a Mauthausen.
Per ragioni di salute io sono poi andata sul lago di Garda: avevo
la tubercolosi. Venuta l'estate, ho pensato di passare a Ortisei
e vedere la val Gardena. Nel frattempo mio fratello Renato era stato
chiamato alla leva militare e aveva dovuto partire. Il bambino l'avevo
dato a balia. Pensavo di rimanere un mesetto a Ortisei, ma poi vedendo
lì certi oggetti di legno grezzo che due fabbriche producevano,
ho pensato di dipingerli e di farli vedere in giro per poterli vendere.
Sono piaciuti e mi hanno fatto un contratto di lavoro molto buono.
Allora ho raccolto dei ragazzi e ho messo su una scuola, sarebbe
meglio dire una fabbrichetta perché, tutto sommato, sfruttavi
i miei allievi. Ma li pagavo anche, e bene!......Io avevo allora
19 anni......
Si era nel primo anno di guerra, i viveri cominciavano a scarseggiare
e noi andavamo spesso a fare merende in una frazione di Ortisei,
nello chalet di una certa Lise che aveva molta simpatia per noi.
Una domenica pomeriggio....sento parlare in ladino due o tre allogeni
che erano seduti al bancone bevendo del vino caldo. Uno di loro
pronuncia delle parole di insulto contro noi italiani. Io avevo
appreso qualche parola di dialetto e avevo capito cosa stava dicendo.....Allora
sono andata di fronte a quell'uomo e ho detto: "Scusi da quanti
anni vive in Italia? Conosce l'italiano? Mi vuole ripetere in italiano
quello che ha detto?"....E quello, dopo un momento di esitazione
mi ha detto che i soldati italiani erano tutti porci e che Hitler
avrebbe pensato a mettere a posto anche loro. Sono rimasta come
cieca, mi è caduta una nuvola di fronte agli occhi: gli sono
volata addosso, l'ho graffiato, l'ho rovinato. Non ci vedevo più.
L'uomo ha avuto almeno un mese dal medico per le ferite al viso,
perché gli ho conficcato le unghie nella carne. Avevo le
unghie lunghissime, per il lavoro.
Sono stata mandata via da Ortisei. Il federale di Bolzano ne è
stato felicissimo.....avevano scoperto che non avevo la tessera
del partito fascista.
Dopo la scena da Lise sono andata dal podestà (un buzzone)
per spiegargli com'era andata 'sta faccenda, per chiarirgli che
io ero stata provocata. E lui, mentre stava a sentire, ha tentato
degli approcci, per cui gli ho lasciato andare un ceffone che gli
ha girato la faccia dall'altra parte. Così poi è risultato
che avevo picchiato anche il podestà! Hanno imbastito tutta
una storia a modo loro e mi hanno mandato via da Ortisei.
Mi sono trasferita a Laion, un paesino a pochi chilometri, a meditare.
A meditare quello che avrei dovuto fare per far sentire le mie ragioni.
Mi ero portata dietro tutti i miei colori, i miei pennelli, tutta
la mia roba personale. Il resto me lo avevano confiscato. Un bel
giorno vado a Bolzano, con il mio cane san bernardo e la mia pistola.
Me l'ero fatta dare non ricordo più da chi, perché
la baita in cui vivevo era isolata e mezzo diroccata. Con cane e
pistola mi sentivo più sicura.
Ho preso il trenino della val gardena, ero vestita in modo molto
sospetto per la polizia fascista: avevo dei pantalonacci, con la
chiave di casa, di ferro, grande così, legata alla cintura;
i capelli lunghi, proprio come una beat di oggi delle più
vestite male; con il mio cane che, pur essendo al guingaglio, mi
trascinava un po' dove voleva, perché era più grosso
di me. Mi ferma la polizia e mi domanda i documenti. Io non li avevo,
perché quel giorno ero uscita non pensando di andare a Bolzano.
Che è, chi non è, mi tengono in questura. Riesco a
farmi rilasciare solo perché mi viene in mente il colonnello
de Chicca del corpo d'armata di Bolzano. Ero amica di lui e di sua
moglie, grandi appassionati di pittura.....
.....Mi hanno trattenuta a Bolzano, a domicilio coatto. Dovevo uscire
all'ora tale e rientrare all'ora tale, e comunicare subito il mio
indirizzo. Vado dal federale e dico: "Per mangiare, vengo alla
sua mensa o devo andare a rubare?" Allora mi hanno procurato
un posto negli uffici comunali, all'anagrafe.
Lì in Bolzano mi sono ricreata una cerchia di amici. Tutti
sapevano che ero stata condannata a domicilio coatto, per cui c'erano
degli antifascisti che di nascosto mi mostravano la loro simpatia
e con i quali potevano parlare liberamente, e alte persone con cui
parlavo a monosillabi. C'era, ad esempio, la signora Salvatori,
emigrata dalla Francia, che era un'autentica antifascista. Poi ho
conosciuto Libera, bolognese, anche lei a domicilio coatto. Era
comunista e aveva conosciuto Togliatti. È da lei che ho cominciato
a sentire parlare di comunismo.
....Il 25 luglio è stato un momento proprio di grande liberazione.
io mi sono sentita rivivere, rinascere. Caduto il fascismo, mi sembrava
che tutto fosse finito, che tutti dovessimo tornare a casa. .....Forse
per me il 25 luglio è stata la presa di coscienza completa,
perché ho avuto chiaro che bisognava fare qualcosa. Mi sentivo
libera di rendermi effettivamente libera.
La sera dell'8 settembre, mentre stavo per incontrarmi con un gruppo
di giovani con cui avevo allestito rappresentazioni teatrali, sentiamo
il comunicato dell'armistizio per radio. Ci siamo resi conto che
stava succedendo veramente qualcosa. ho invitato subito i miei compagni
militari a non rientrare in caserma.
Alle 3 del mattino i tedeschi hanno sparato dal monte Calvario la
prima cannonata......
Avrei potuto benissimo servire la resistenza come informatrice,
come staffetta, restando all'anagrafe. Invece ho capito che io volevo
combattere con le armi in mano.
A Bolzano i nostri soldati, prigionieri, erano stati radunati come
animali in un campo di concentramento sul bordo del fiume Talvera,
in attesa di essere caricati sulle tradotte e deportati in Germania.
Sono riuscita a parlare con alcuni di loro e a farli scappare parecchi.......
Non volevo più andare in ufficio. Un mattino però
viene la polizia tedesca in casa. A questo non avevo pensato. La
lotta di liberazione è stata tutta un'inesperienza, tutto
un inventare, un creare al momento quello che dovevi fare. C'è
stato un bando che invitava tutti a riprendere i posti di lavoro,
stabilendo pene per i trasgressori. Spiego ai tedeschi che non sono
andata in ufficio perché ero spaventata dai bombardamenti.
Mi consigliano di presentarmi con certificato medico.
Per qualche giorno sono andata in ufficio, allo sportello numero
6, per dare documenti a quelli che scappavano e distribuire tessere
annonarie e certificati di "congedo illimitato"....Poi
ho dato fuoco all'anagrafe, perché non scoprissero la falsità
di quei certificati. Nel tafferuglio dell'incendio sono scappata
fuori anch'io e me ne sono andata. Non m'hanno più ripresa.
...ho fatto la commedia, facendo credere a tutti che partivo per
tornare a casa. Sono andata invece in un appartamento in via Milano....
Lì abbiamo organizzato qualche colpo contro i tedeschi. Il
mio gruppo iniziale è stato però eliminato presto.
Uno l'ho trovato fucilato dietro a una tomba del cimitero, altri
li hanno presi e mandati ad Innsbruck da dove non sono più
tornati, altri sono andati in montagna. Abbiamo fatto delle belle
azioni, dei buoni colpi. Abbiamo messo bombe sulle porte delle caserme
di polizia, nella hall dell'albergo dov'erano alloggiati gli ufficiali
tedeschi, poi abbiamo pensato di far saltare una delle "macchine
fantasma", cioè le macchine con tutta l'attrezzatura
radio ricevente e trasmittente per comunicare con il Comando supremo
a Berlino.....
I compagni mi hanno preparato l'ordigno. Come altre volte l'ho posto
dentro una scatola vuota a forma di libro che tenevo sotto il braccio
come se fossi una studentessa....Intanto, facendo gli occhi dolci
a un tedesco, Willy; mi ero fatta dare un lasciapassare per entrare
in caserma. Raggiunti il cortile, ho visto la "macchina fantasma".
Col cuore in gola vi ho posato la scatola e poi me ne sono andata.
Dopo circa cinque minuti ho sentito un boato: operazione compiuta.
Verso la fine di novembre sono stata arrestata. Me lo sentivo che
mi prendevano. A volte, quando si sente qualcosa, bisognerebbe dare
ascolto a quella voce intima. Sono uscita un pomeriggio tardi e
la polizia mi ha fermato sul ponte Druso....
M i hanno tenuta dentro sette, otto, dieci giorni. La prima cosa
che capita in galera, che c'è stato lo sa, è quella
di perdere la nozione del tempo. Io ho negato tutto, sono stata
sempre sulla difensiva. Solo quando mi hanno detto che avevano fucilato
Giovanni, mio carissimo compagno, ho gridato a chi mi interrogava:
"bastardo!". Da quel momento non mi hanno più interrogata:
dovevo comparire davanti al tribunale di Innsbruck.
Mi hanno fatta salire su una tradotta per il Brennero. ...Proprio
presso Vipiteno, a pochi chilometri dal confine, ci hanno fatto
scendere perché la linea era interrotta, e ci hanno messi
provvisoriamente in un recinto come le bestie. C'erano con me tanti
poveri ragazzi che da giorni erano in tradotta. Io avevo cominciato
a tossire continuamente, giorno e notte. Sentendo l'aria mi son
detta: "Se non scappo ora, non vado più. È meglio
tentare. Tanto, se rimango, muoio lo stesso". Mi guardo intorno
e dico: "Qui, se vogliamo, la metà di noi può
scappare". C'era una sentinella solo ogni 30-40 metri.
Questi uomini mi hanno lasciata allibita, non si muovevano, piangevano,
non avevano più spirito di niente. Un alpino mi fa: "ma
anduva ti ve?
"Mi vaghi, mi scapi, ti voret minga che mi lassi purtà
in germania!" Ho cominciato a parlare con quell'alpino. Non
c'erano sbarre da aprire o pali da togliere; bastava avere un po'
di coraggio, studiare il movimento delle guardie tedesche e trovare,
di notte, il momento adatto. Ci siamo messi d'accordo in sette,
dandoci appuntamento al ciglio della ferrovia.
....Siamo ritornati verso Bolzano. Alle porte della città
ci siamo salutati e ognuno ha preso la sua strada.
Sono riuscita ad infilarmi sul treno per Verona. Sono andata a casa
di Luciano, uno degli amici che ero riuscita a salvare l'8 settembre
.....Rientrata a Bolzano ho saputo che Randino, il compagno con
cui avevo già lavorato, si era messo in contatto con alcune
bande di ex militari costituitesi sulle montagne del Trentino. Ma
io ero ormai troppo nota alla polizia locale per poter collaborare
con lui e le mie condizioni di salute non erano buone. Così
ho deciso di tornare a casa, a Domodossola.
Qui trovo che non sono la sola della famiglia ad aver combattuto
contro i tedeschi. Mio fratello Aldo, fatto prigioniero dai tedeschi,
era scappato ed era arrivato a Domodossola vestito da prete. Aveva
cominciato la lotta clandestina, organizzando con Omero e anche
con l'aiuto di mia mamma il gruppo "Libertà" di
Domodossola, una delle primissime bande partigiane. Avevano preso
le armi in caserma nella confusione dell'8 settembre. Mia madre
aveva riunito queste armi in soffitta, le aveva nascoste sotto un
cumulo di segatura. Era una donna, una compagna, proprio meravigliosa.
Allora aveva all'incirca cinquant'anni, ma se avesse avuto la mia
età, avrebbe fatto quello che ho fatto io, e forse anche
di più..
Dopo il disfacimento della banda "Libertà", Aldo
è andato in valle Anzasca, il suo gruppo si è poi
inserito nella "Valtoce" e lui è rimasto in questa
divisione fino alla morte, avvenuta due mesi prima della liberazione.
l'altro mio fratello, Renato, di cui non sapevamo più niente,
era rimpatriato dalla Grecia e s'era unito agli Alleati. Mio fratello
Dario, minore di me, era finito in Francia e anche lui l'8 settembre
aveva scelto di combattere nella macchia.
Sono stata a casa per qualche mese, poi, verso maggio, dico a mia
mamma: "Vado anch'io in montagna. È il mio destino,
lasciami fare". E la mamma non si è opposta. Erano venuti
i tedeschi in casa a cercare Elsa Oliva e io me l'ero cavata con
un po' di fortuna. Anzi, devo dire che di fortuna ne ho avuta molta;
se no, come me la sarei cavata con due condanne a morte?
La sera stessa della visita dei tedeschi me ne sono andata. Ho camminato
tutta la notte lungo il greto del fiume per evitare i posti di blocco
e al mattino ero alle porte di Crusinallo. Volevo andare a cercare
mio fratello in formazione, ma non era facile. Avevo poi il problema
di farmi accettare come partigiana. Ho pensato di presentarmi come
crocerossina, anche se non avevo mai fatto nemmeno un'iniezione.
Io volevo sparare, fare i combattimenti, ma certo quelli avrebbero
subito detto di no. Per mia fortuna, proprio sulla strada vicino
alla stazione trovo Meloni, magnifico compagno della II brigata
"Beltrami", con un gruppo di sette, otto partigiani su
un camioncino. Dico che voglio andare con loro, salgo sul camioncino.
Dopo mezz'ora eravamo già tutti amici per la pelle. Ero felice,
avevo di nuovo il mio ambiente.
Ho trovato i partigiani tutti coperti di scabbia. Il giorno dopo
mi sono fatta portare in motocicletta e dal farmacista ho preso
tanta pomata allo zolfo, alcol, garze. Poi ho studiato i bigliettini
dei medicinali. Certo che poi ho dovuto fare delle operazioni da
non credere, magari col tenaglietto del ciabattino, però
sono guariti sempre tutti. Anche qui sono stata fortunata.
Dopo un paio di giorni che ero in formazioni chiedo a Meloni di
riunire gli uomini perché gli avrei dovuto dire una cosa.
Avevo visto che c'era qualche giovane che mi usava dei riguardi
diversi, che mi porgeva qualcosa, mi preveniva in qualche compito.
Ho detto: "non sono venuta qui per cercare un innamorato. Io
sono qui per combattere e rimango solo se mi date un'arma e mi mettete
nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In
più farò l'infermiera. Se siete d'accordo resto, se
no me ne vado".
È stata una buona premessa. Non ho dovuto mai lamentarmi
di nessuno. Per me, medicare un piede a uno che il sudore glie lo
mangiava e puzzava lontano chilometri o dare una pomata a un altro
era la stessa cosa, non avevo preferenze. Sono stata segnata nei
quadri della guardia e, se dovevo stare fuori da sola, ci stavo.
Avevo un'arma, non ero solo l'infermiera. Al primo combattimento
ho dimostrato che sapevo combattere come loro e che l'arma non la
tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire. Anzi il compagno
che avevo di fianco è andato a strombazzare a tutti che ero
un leone!
Ho aiutato la fortuna con la mia sveltezza; se nei combattimenti
c'era da muoversi o fare qualcosa, lo facevo di corsa, senza esitazioni,
immediatamente...Ero impulsiva, ma nei combattimenti questa è
una qualità positiva.
Curavo i miei compagni, ma non li servivo. Se uno voleva un panino,
se lo faceva; se uno doveva lavare la gavetta o i calzini, se li
lavava lui. Io non ero andata da loro per lavare i piatti, per rattoppargli
i pantaloni, io ero andata per combattere. Certo gli uomini erano
spesso pigri, si lavavano poco e si riempivano di pidocchi...A qualunque
altitudine, anche d'inverno, io mi lavavo tutte le mattine, magari
spaccando il ghiaccio, magari con la neve....certo i pidocchi si
prendevano anche a dormire nel fieno, nella paglia, oppure perché
non ti potevi cambiare. Durante i rastrellamenti, ad esempio, non
potevi toglierti le scarpe. Ogni tanto mi spingevo fino a Meina
a vedere il mio bambino che era a balia. Ma mi tenevo lontana dalla
casa. Lo vedevo giocare, correre, m'assicuravo che stesse bene,
ma non mi facevo vedere, né dicevo niente a nessuno: l'avrei
messo in pericolo. Se i fascisti fossero venuti a conoscenza di
questo fatto, avrebbero potuto farmi dei ricatti.
Nel settembre '44 sono incominciati i "quaranta giorni di libertà"
con l'instaurazione di una "repubblica" partigiana con
capitale a Domodossola. La liberazione dell'Ossola mi ha trovato
un po' critica, sempre, anche allora. siccome sono morti tanti partigiani
in questa operazione, prima e dopo, ritenevo che non fosse valsa
la pena liberare una zona che si sapeva di non poter tenere, per
dare quaranta giorni di baldoria ai partigiani e agli abitanti.....Mi
ribattono sottolineando il valore politico della repubblica dell'Ossola.
Certo, non dico di no. Però, se volgiamo considerare i documenti,
gli uomini politici avevano idee vecchie, niente affatto avanzate.....
Alla fine del '44 riesco ad avere notizie, tramite un amico, di
mio fratello Aldo, che si faceva chiamare "Ridolini".
Ho chiesto allora di passare nella sua formazione, la Valtoce....Anche
qui ho continuato a fare la combattente e l'infermiera, praticando
operazioni da far rabbrividire ancora oggi. Ho cominciato ad avere
funzioni di comando e alla fine mi è stata affidata una volante,
la Volante "Elsinki". Così mi chiamavo da partigiana
per ricordare il nome Elsa.
Il compito della mai volante era vigilare su tutto, all'esterno
e all'interno.......Come comandante ero molto severa..........
L'8 dicembre 1944 sono stata fatta prigioniera dai fascisti, per
il tradimento di un ex partigiano che era stato con me nella formazione
di Meloni. Mi hanno portato a Omegna. Ho subito tenuto con i fascisti
un atteggiamento aggressivo che forse mi ha salvato da molte cose....So
che con un'altra partigiana prigioniera si sono comportati bestialmente,
l'hanno picchiata tanto che gli hanno sfondato i polmoni...........
La prima condanna a morte l'ho avuta dai tedeschi, perché
avevano scoperto che io ero la Elsa Oliva che cercavano, quella
scampata dal convoglio del Brennero. Ma i fascisti non mi hanno
consegnato, perché un giorno avevo detto che i fascisti erano
servi dei tedeschi che ubbidivano e basta.....I compagni intanto
avevano fatti prigionieri tre fascisti e telefonano per scambiarli
con me, ma rifiutano.
Poi in un'azione partigiana a Crusinallo vengono uccisi dei fascisti.
Allora per salvarmi mio fratello scende a Stresa e cattura un colonnello
della marina tedesca. I tedeschi non volevano già più
fascisti come scambio, chiedevano carne più fina. Mio fratello
mi ha poi tenuto il cappello di questo colonnello per ricordo e
lo porto in qualche fotografia degli ultimi mesi.
Non sapendo come si stanno mettendo le cose, penso che devo uscire
di lì, magari facendomi ricoverare.....Mando la figlia del
custode a prendere del sonnifero. Trangugio le pastiglie.....
Quando ho ripreso conoscenza, dopo tre giorni, sono all'ospedale....Quel
giorno c'è un altro grande conflitto a fuoco con le forze
partigiane, a Quarna, e i fascisti ricevono una dura sconfitta.
È ormai sicuro che sarò fucilata il mattino dopo.
Comincio a pensare: "Questo è il momento che devo andare":.
Che mi ammazzassero mentre scappavo o l'indomani mattina in piazza
era quasi la stessa cosa. Anzi, preferivo morire mentre tentavo
di scappare.
Chiamo Suor Augusta e dico che mi voglio confessare, che mandi a
chiamare don Giuseppe. Saranno state le sette di sera, si sentivano
ancora gli spari della battaglia di Quarna, nel cielo si vedevano
le pallottole traccianti, verso la montagna. Il milite fascista
che era di guardia era molto inquieto e curioso, voleva vedere i
fascisti feriti che erano stati portati in ospedale.
Viene don Giuseppe: "dimmi, dimmi..."
"dimmi un diavolo" rispondo "dimmi come devo fare
a scappare di qui"
"La via del lago è proibita, non è possibile,
ci sono tutte le comunicazioni rotte, tutti i fili staccati. C'è
lo stato d'assedio"
"Ho bisogno solo che tu mi aspetti fuori per portarmi in qualche
posto a passare la notte, perché se casco in mano a qualcuno
che mi tradisce sono finita"
Rimaniamo d'accordo che mi aspetterà alla curva dell'ospedale,
sulla strada per Pettenasco.
Mi metto d'accordo con suor Augusta. Avrei chiesto di fare il bagno.
Nel bagno mi avrebbe fatto trovare una gonna e dopo mi avrebbe portato
le scarpe. Suor Augusta l'ha dovuta rubare ad una paziente questa
gonna. M'ha detto: "Che Dio mi perdoni, che Dio mi perdoni!"
Dico a suor Augusta: "Fingerò di dormire. Chiederò
un sonnifero, ma tu dammi una caramella, perché se mi dai
un sonnifero sul serio mi rovini". Appena la guardia mi avesse
girato le spalle, sarei scappata. Poi sarebbe andata come la voleva.
Ho finto di fare il bagno. Il fascista rideva: "Si vuol pulire
prima di morire". Mi metto a letto e dico di voler fare una
buona dormita.
Appena il fascista, credendomi addormentata, scende le scale, io...fuori
dal letto!....Butto la vestaglia sul letto....Con la mia solita
incredibile fortuna, passo senza farmi vedere sotto il naso delle
guardie. D'altra parte è buio e nevischia.
Arrivo al punto stabilito. Salta fuori l'ombra di don Giuseppe.
Abbracci a non finire. Ero libera, ero fuori!
Siam lì, quando pam...pam...pam...raffiche all'ospedale.
hanno scoperto la mia fuga: il finimondo! Mi cercano attraverso
il lago, pensano che sia scappata con una barca. Don Giuseppe mi
prende sotto il mantello e mi porta come un fuscello, così
sotto il braccio in salvo.
Appena libera e ricongiunta ai compagni e a mio fratello, che era
sceso per liberarmi, sono risalita in montagna.....
Ho ripreso la mia vita in formazione...Sono ricominciati i combattimenti,
i rastrellamenti, le marce. La giornata quasi sempre era sfibrante,
però c'erano anche ore che trascorrevamo giocando. Quando
c'era bel sole, quando c'erano prati accoglienti, non stavamo dentro
le baite ma, ad esempio, giocavamo a saltare, a vedere chi saltava
più lontano. Si prendeva slancio da una predella, si faceva
un enorme salto nel vuoto, e sotto c'era Dino, un vero omone, che
ci aiutava a non cader male. Un giorno mi prendono in giro, cominciano
a dire che ho paura, che sono una femminuccia, e altro. Allora dico:"
fermi tutti che arrivo io". Ho fatto questa corsa, ho preso
uno slancio tale che Dino, per acchiapparmi ha dovuto fare un movimento
che gli ha lasciato il collo girato per quindici giorni.
Eravamo quasi tutti intorno ai vent'anni. Non bisogna dimenticare
che la Resistenza è stata fatta in maggioranza da ragazzi.
A volte facevamo anche degli scherzi....Giocavamo a calcio. La "Franco
Abrami" una volta ha incontrato la Brigata "Stefanoni"
e io ho fatto l'arbitro. Eravamo giovani e avevamo proprio la necessità
di divertirci.
Col febbraio '45 non c'è più stato tempo per giocare.
Dovevamo spostarci continuamente per evitare i rastrellamenti e
alla sera eravamo stanchissimi. Ricordo che durante il mese di marzo
ha continuato a piovere, piovere. E una sera siamo entrati in un
grosso cascinale a chiedere ospitalità per qualche ora, per
asciugarci un pochino i panni che erano inzuppati d'acqua. i contadini,
marito e moglie, hanno avuto compassione di noi e ci hanno dato
del latte caldo e della polenta fredda. Ci hanno fatto accampare
dentro. A me han dato la loro camera con un bel lettone morbido:
mi sembrava di essere in paradiso. Alla mattina usciamo dal cascinale
e contiamo duecento o più pedate sulla strada di fuori: era
passata una colonna di nazifascisti sulla porta di casa! Appena
avviati sentiamo le prime raffiche. I fascisti erano arrivati a
Gignese e avevano fatti prigionieri tre compagni partigiani.....E'
fatta di veramente tante cose la lotta partigiana, non si finirebbe
mai di raccontare.
Negli ultimi mesi è sorto il problema della mia presenza
in formazione. La "Valtoce" era una formazione autonoma,
di estrazione cattolica. Penso che la questione l'avesse sollevata
l'alto clero, che nonj vedeva una donna armata con funzioni di comando
proprio in una formazione loro. Mi hanno offerto anche un posto
nella organizzazione del CLN pur di togliermi di lì. Io non
ho accettato nel modo più assoluto.....tutti i compagni erano
con me, e allora non hanno insistito.
.....Allora, almeno da noi, parlare di comunismo era un po' difficile.
Perfino nelle formazioni garibaldine i comunisti erano pochi. ...per
tutti noi c'era una continua maturazione politica....Non crediate
che in montagna non avessimo gli spioni della "Special Force"
inglese o della OSS americana che venivano per sapere e indirizzare
le cose come volevano loro. L'unità della Resistenza è
stata molto strombazzata, ma è stata molto difficile e molto
sofferta. Anche qui ci sono stati attriti e raffiche tra le diverse
formazioni, ma la Resistenza è stata una cosa così
grande che tutte queste cose è naturale che ci fossero.
Ritorno al mio racconto. Nei giorni della calata al piano, la nostra
brigata aveva disposizione di occupare Baveno, dove c'era il comando
tedesco.
Il 24 aprile scendiamo verso il lago. Alle porte di Baveno Laverini
mi dice: "tu con i tuoi uomini perlustra il lungolago".
Vado fino all'hotel Bellavista. Poi dico: "Torniamo indietro.
Stanno dietro le persiane con tutte le armi puntate contro di noi,
torniamo indietro".
....Cerchiamo di prendere qualche postazione, perché avevamo
l'ordine di non far passare la colonna. Arriviamo appena al di là
della passerella che c'era sul fiume, che i tedeschi asserragliati
nei pressi della stazione ferroviaria cominciano a sparare con le
20 mm. Io, Kaliniko e altri riusciamo a non farli avanzare, finchè
il grosso dei nostri non ha raggiunto la montagna. Poi siamo saliti
anche noi a Campino, sopra Baveno, da dove si domina tutto il lago.
Alla sera, nel crepuscolo, vediamo che è arrivato a baveno
il primo gruppo della colonna. Abbiamo usato delle mitragliere che
ci erano state paracadutate, molto carine ed efficienti. La reazione
è stata ferocissima; con mortai e cannoncini ci hanno bombardato
fino all'una di notte, scoperchiando diverse case.
Al mattino dopo ci siamo riuniti in parecchi......Io rimango a sparare.
I nazifascisti...sono venuti in forze: saranno stati trecento e
noi, a Campino, una ventina. È stato il combattimento più
feroce, più tremendo: da tutti i buchi, da tutti i cespugli
arrivavano raffiche. Mi sono trovata di fronte due tedeschi, li
ho fatti fuori, prima l'uno, poi l'altro. Dallo sfinimento non capivo
più niente. Arrivavano pallottole da tutte le parti e mi
sembrava di combattere contro i mulini a vento.
A un certo punto mi accorgo di essere sola si erano già ritirati
tutti i miei compagni. Mi ritiro anch'io.
La sparatoria è durata dall'alba a mezzogiorno circa. I tedeschi
e i fascisti ci impegnavano per far passare il grosso della colonna.
Eravamo troppo pochi. C'erano altri uomini in giù, a Meina
e ad Arona, ma hanno preso anche loro una salassata.
Trovo due garibaldini, uno avrà avuto 15 anni, l'altro 19.
Dico loro di venire con me, di non andare giù. Non m'hanno
seguita e sono stati falciati. Sono poi arrivata in una frazione
e qui i contadini mi hanno presa e gettata in un buco per salvarmi.
Ero sfinita. Sentivo i fascisti che mi gridavano di uscire fuori
dalla tana. Quando se ne sono andati, sono potuta uscire.
Ho ritrovato Kaliniko che era ferito e l'ho curato. Poi ho fatto
la calata al piano, da sola, bestemmiando.
A Baveno ho incontrato quattro o cinque uomini che mi hanno preso
in spalla e siamo andati a Laveno. La gente applaudiva i partigiani:
i fascisti erano andati e di tedeschi in divisa non se ne vedevano
più. Mi ero appena appisolata sul traghetto (quattro giorni
che non dormivo), quando sento che battono ai vetri del finestrino
e vedo il Mancino che mi fa cenno: "Vieni, c'è quello
dell'oplà".
Era un fascista che ci aveva fatto tutti e due prigionieri sul Mottarone,
in tempi diversi. Aveva òa mania di dire "oplà"
in mezzo a ogni discorso. Mescolato alla popolazione, anche lui
applaudiva. Era talmente preso dall'entusiasmo a darci il benvenuto
che non si è neanche accorto che gli abbiamo girato alle
spalle. Grido: "scemo, non potevi stare rintanato in qualche
buco?" L'abbiamo portato al cimitero e lo abbiamo giustiziato........
Questo è stato il primo contatto col "mondo nuovo",
con quello che avremmo dovuto vedere poi. E a Milano, quando c'è
stata la sfilata, tra quella moltitudine plaudente e tutti con le
coccarde, pensavo che forse una buona parte erano quelli che ci
avevano sparato contro. Alle staffette, nelle sfilate, mettevano
al braccio la fascia da infermiera!
Anche tra la folla plaudente di Milano ho trovato un fascista, che
per mesi mi aveva fatto da guardia del corpo a Bolzano.....L'ho
consegnato a chi dovevo.
Certo che quando c'è stata la smobilitazione hanno dato troppo
poco tempo per giustiziare i criminali. Tutt'a un tratto non era
più possibile giudicare nessuno. C'è stata una comunicazione:
dall'ora tot non si potevano più processare i prigionieri,
ma si dovevano consegnare.
Il dopoliberazione è stato certamente molto
diverso da come lo pensavo. Il mio rimpianto più grande del
dopo è stato di non essere morta prima, durante la lotta.
Se io ho invidiato qualcuno, non ho mai invidiato i compagni vissuti
ma i compagni morti. Dopo la Liberazione- che è stato il
fatto più grande della nostra storia, perché compiuto
da tutto il popolo antifascista e non da una élite come il
risorgimento- non avrebbe assolutamente essere permessa la riorganizzazione
legale del fascismo, la nascita del MSI......Se io potessi fare
qualche cosa "contro" la farei subito, qualunque cosa
fosse, perché non è giusto, non solo verso di noi
che abbiamo combattuto, ma anche verso il popolo italiano e verso
quelli che sono morti nella lotta. Sono mancate le riforme che dovevano
agevolare la grande massa popolare, le agevolazioni sono sempre
state per i medesimi, per i ricchi, quelli che oggi portano la camicia
beige o azzurra, ma che è sempre la camicia nera di ieri.
Per noi partigiani, dopo la Liberazione, trovare un posto di lavoro
era un sogno. Quando sono tornata a Domodossola, nel '45, abbiamo
trovato la casa completamente svaligiata. ....
La gente, i piccoli borghesi, ci consideravano male. Erano d aprendere
a schiaffi....
Mi ricordo il primo anniversari della Liberazione, il 25 aprile
del '46, mi son detta: "e' la nostra festa". Sono andata
davanti al municipio col fazzoletto rosso al collo. Certa gente
mi sghignazzava in faccia. Qualche voce diceva: "Va a fa' la
calzetta!". Io avevo ancora le armi in casa, nascoste in cantina.
Avevo una voglia di vendicarmi, di prendere un mitra e poi di andare
là a dire: "Adesso vi faccio la calza io a voi!".
Le armi me le hanno trovate nel '47. Per la fame mio fratello ha
venduto una pistola. Si vede che chi l'ha comprata era un informatore
della polizia. Sono venuti, hanno perquisito la casa, hanno trovato
le armi nascoste in cantina. Allora un guaio! In quel momento m'è
giovato non essere iscritta al partito comunista. Volevano sapere
dov'erano i depositi. Li ho mandati in montagna a scavare un po'
a vuoto....Tutti avevano le armi in casa, perché pensavamo
di doverle ancora adoperare. Non avevamo visto, con la Liberazione,
quello che avevamo sognato tanto in montagna.
.....Secondo i signorotti di Domodossola bisognava quasi vergognarsi
di essere stati partigiani. Ma quel che mi faceva rabbia era vedere
che anche quei partiti che avrebbero dovuto prendere delle posizioni
forti, di difesa, non le prendevano. I partigiani venivano spesso
falsamente accusati di delitti comuni e bisognava che scappassero
per non subire condanne durissime....Tutti gli impiegati conservavano
il loro posto, anche se erano stati dei fascistoni, e i partigiani
erano disoccupati. È statp il periodo più buio della
mia vita, il dopoliberazione. Alcuni si sono estraniati proprio
allora, perché disgustati di tanta oersecuzione
....Anche il discorso dell'emancipazione femminile in questi trent'anni
non è andato molto avanti, nonostante tutto, perché
l'uomo non accetta. Le donne queste cose le sentono, ma poi troviamo
l'ostacolo più grande nell'uomo, che non è preparato.
Nell'uomo politicizzato e non politicizzato. Di sinistra e non di
sinistra....Faccio un esempio buttato lì. Nella mia attività
politica, per risovere un problema, mi viene un'idea e la esprimo.
Non è raccolta. Dopo quindici giorni salta fuori un uomo
del mio stesso gruppo che mi espone la mia stessa idea. Mi è
capitato più di una volta. È non voler accettare un
rapporto paritario. L'uomo fa fatica ad abbandonare la posizione
di privilegio che ha. Gli pare di diventare meno uomo. è
stato abituato per troppo tempo ad avere la donna come somaro...E
non è vero che non sappiamo fare quello che fanno loro!
......Nella lotta di liberazione non sempre la donna era accettata
come lo sono stata io. Anche nelle formazioni dei garibaldini la
donna serviva per lavare, rammendare, al massimo fare la staffetta.
E rischiava più dell'uomo, perché le staffette rischiavano
moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva
passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata, e fare
quello che faceva. E se era presa....
Sono tantissime le donne che hanno partecipato alla Resistenza e
non hanno avuto il riconoscimento.....Anche a me non hanno riconosciuto
il periodo di Bolzano.
....Ricordo che negli interrogatori che ho ricevuto a Bolzano da
parte dei nazisti mi hanno chiamata per la prima volta "ribelle".
Ebbene io mi sono detta: "Io sarò sempre ribelle, è
una parola che mi piace, lo sarò sempre..."
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