Cronaca da Rebibbia(13/11)
SONO da poco passate le cinque del pomeriggio quando all´improvviso il carcere si sveglia.
All´inizio sono voci e grida che sembrano uscire dal nulla e tagliano i cortili deserti di cemento grigio. Poi, dalle finestre spuntano teste e mani che battono a ritmo sulle sbarre.
«Ecco che comincia. Vogliono farsi sentire e hanno ragione. Lo sa cos´è quello?
E´ il G12, l´inferno di Rebibbia». Domenico S. parla con gli occhi bassi, appoggiato al muro, stretto in un giubbetto jeans di una taglia troppo piccola. Dal taschino spunta un pacchetto di Marlboro rosse. Lo prende, accende una sigaretta, dà una lunga boccata e poi alza gli occhi. «Anche in carcere c´è la serie A e la serie B - dice - Quelli che vedete lassù che battono le pentole sulle sbarre non stanno nemmeno in serie B. Stanno sotto, molto sotto».
Domenico S. è uno dei detenuti «fortunati» di Rebibbia. Sta al «penalino», uno dei reparti migliori. Grazie alla sua buona condotta, ieri è stato selezionato insieme ad altri reclusi per partecipare a un consiglio straordinario del Comune di Roma che si è svolto dentro Rebibbia, nella Sala Teatro. E´ un´area pulita, con le aiuole, le siepi curate. Non sembra nemmeno di stare in carcere. Ma a ricordarlo ci sono le guardie penitenziarie che piantonano l´assemblea e le mura che circondano tutta la zona. Sopra i muraglioni ci sono sbarre puntute e al di là, si vedono i reparti con le celle. Palazzoni gialli con i panni stesi, simili a quelli di certi quartieri degradati da dove provengono molti dei detenuti. «Lo sapevamo che da lì sarebbe partita la protesta. C´è il sindaco, ci sono i giornalisti e quando ci ricapita un pubblico del genere?», dice Domenico accennando un sorriso. Basso e mingherlino, non fosse per certe rughe che cominciano a farsi profonde sembrerebbe un ragazzino di una banda di periferia. Ha voglia di chiacchierare, ma cerca gli sguardi dei sorveglianti con gli occhi. «Non vogliono che parliamo con i giornalisti. Hanno paura che vi diciamo cose che dovrebbero restare chiuse qua dentro». Domenico si accende un´altra sigaretta e prosegue. «Chi ci sta al 12? Tossici, soprattutto. All´ultimo piano, poi, ci sono quelli sotto massima sorveglianza. Non li conosco, non li ho mai visti. Ma c´è anche l´11 che è un disastro. Stanno anche in 10 in una cella da 4. Tossici, extracomunitari e detenuti comuni insieme. D´estate, in cella, manca l´aria e alla fine scoppiano liti, risse. E allora sono botte, tante, da parte dei sorveglianti». Domenico ha 35 anni, è sardo, di Oristano. Degli ultimi quindici anni, dodici li ha passati in carcere. «Sono dentro per rapina. Qui, a Rebibbia, ho scontato tre anni. Me ne mancano altri sette e mezzo. Sono uno stupido, lo so. Ho buttato tutta la mia giovinezza e quella ormai non me la ridà nessuno». Mentre lo dice, Domenico butta la sigaretta per terra, come se avesse una cattivo sapore. Lui è ormai un veterano della vita dietro le sbarre e sa come comportarsi. «Quando arrivi alla rassegnazione, vuol dire che stai imparando a vivere qua dentro. La prima volta che mi hanno arrestato, avevo vent´anni e il tempo non mi passava mai. Mi ricordo che guardavo l´orologio di continuo. Ero nervoso, stavo male. Ora invece so che anche stando qua dentro, posso fare qualcosa di buono per la mia vita. Io leggo moltissimo e studio. A giugno darò l´esame di maturità che non ho mai fatto». La giornata di Domenico a Rebibbia, al «penalino», comincia alle 6 del mattino. Fa ginnastica e poi pulisce la stanza e prepara il pranzo. «Cucino in cella. Ho un fornelletto. Qui in carcere c´è uno spaccio, ma la roba che vendono fa schifo. La carne, soprattutto. A volte se fai una domanda a una bistecca, ti risponde», scherza parlando a scatti come fanno i sardi. Il pomeriggio invece lo trascorre leggendo e studiando. «Nel mio reparto, non si sta male. Il sovraffollamento è contenuto. Nella mia cella siamo soltanto 4 invece che 2». Scatta l´ennesima sigaretta. «Anche le sigarette sono un rimedio per la noia quando si sta in carcere», osserva Domenico mentre lancia uno sguardo al palazzone del G12. «Lassù, stanno veramente male. Questo è un carcere enorme con più di 2500 detenuti e basta un niente per far scoppiare una rivolta. Nelle aree destinate ai tossici, poi, le condizioni igeniche sono disumane. Per questo i detenuti protestano. Stiamo qua dentro perchè abbiamo sbagliato e vivere senza libertà è già una pena salata. Io ormai ho 35 anni, ho imparato la lezione, ma un giovane che entra in carcere e viene costretto a viverci come un animale, quando esce è peggio di quando era entrato». Domenico non pronuncia mai la parola indulto e non ascolta le deliberazioni del consiglio comunale dentro il teatro circondato dal rumore delle pentole sbattute sulle sbarre. «Che dire, sì, sono contento che sia venuto il sindaco, però agli atti di clemenza ci credo poco. Penso solo al momento in cui uscirò, se sarò in grado di rifarmi una vita». Da quando ha inziato a parlare, Domenico alza per la prima volta gli occhi in alto mentre insegue i suoi progetti. «Un lavoro e magari sposarmi. Vorrei tanto avere un figlio e portarlo al mare in una spiaggia dove andavo da ragazzo, in Sardegna. In biblioteca ho letto un libro di un filosofo greco, Eraclito. Quel greco dice che tutto scorre, tutta passa nella vita. Vorrei che fosse vero».
La Stampa web del 13/11/2002
Testimonianze di sue detenuti sottoposti al "carcere duro" (il 41 bis)
by M.Molotov
Fonte Ansa.
EX DETENUTO, PER 5 ANNI SOTTOPOSTO A REGIME CARCERE DURO - PALERMO, 26 settembre 02
- Era accusato di un reato gravissimo, ha trascorso cinque anni al 41 bis girando per le carceri italiane, poi e' stato assolto, in primo e secondo grado: ora vuole solo dimenticare. E' palermitano, parla, ma solo con la garanzia dell'anonimato. ''Arrivai all'Asinara nel '94, e fu il periodo migliore - esordisce - due ore d'aria di mattina, dopo la perquisizione corporale, dalle otto alle dieci, in un cortile di 150 metri quadri, su e giu' a passeggiare in dieci detenuti. Poi di nuovo in cella, sino all' indomani, a guardare le pareti. Niente socialita', niente ping pong, niente carte. Mai visto un educatore o un cappellano. I familiari a colloquio per un' ora una volta al mese, stessa periodicita' per le perquisizioni della cella, la doccia durava tre minuti, poi ci tiravano fuori, anche se eravamo ancora insaponati. Pranzo alle 12, quasi sempre pasta con il sugo, cena alle 19, ceci o fagioli. Di tanto in tanto il pesce fritto'. ''A Pianosa cambio' tutto - prosegue - dalla nave alla sezione dovevamo camminare a testa bassa, non si poteva guardare l' isola. Arrivammo alla sezione Agrippa, ho girato tutti e tre i bracci. Stavamo in una cella con tre brande, ogni giorno erano 24 ore di alta tensione. Era obbligatorio parlare a voce bassa, tenere basso il volume della televisione, la spesa era custodita in armadietti fuori dalla cella e per prendere qualcosa bisognava ogni volta chiamare la guardia. Eravamo continuamente controllati, gli agenti passeggiavano su e giu' nei corridoi fuori dalle celle. Le perquisizioni in cella si accentuarono, in quelle corporali prima dell'aria gli agenti usavano il metal detector che, a contatto con le parti intime, emette energia e non e' piacevole. La tensione era continua: a notificare la proroga del 41 bis arrivano la sera, a mezzanotte. Quando si andava a fare una visita dal medico non dicevano mai prima dove si stava andando: arrivavano un comandante e sette agenti e bisognava solo seguirli in silenzio''. Il presunto mafioso poi assolto lamenta perfino il ''controllo'' delle proprie opinioni: ''una volta espressi giudizi sul carcere parlando con un altro recluso e mi chiamo' il direttore: confermai tutto e gli dissi che mi sembrava di stare ad Alcatraz''. Punizioni? ''Una volta - risponde - negai, ed era vero, di avere parlato con un altro detenuto ad alta voce, attraverso la finestra. Mi spostarono di cella in continuazione, facendomi saltare il turno delle docce per una settimana''. ''A Viterbo - racconta ancora - le bocche di lupo alle finestre impedivano alla luce del giorno di entrare in cella ed ogni giorno dovevamo stare con la luce accesa, a Caltanissetta le perquisizioni della cella diventarono giornaliere: scarpe, pane, vestiti gettati quotidianamente nel lavandino dalle guardie a caccia di armi o altro''. Nell' ultimo periodo il 41 bis venne 'ammorbidito', alcune rigidita' attenuate, fu concesso l' invio mensile di due pacchi di cibo e vestiti invece di uno, e aumentato di un'ora il periodo di aria. ''A Roma - ricorda l' ex detenuto - spuntarono i libri, ne potevamo tenere tre o quattro, e li potevamo chiedere anche in biblioteca, anche se arrivavano con molto ritardo. Ogni domenica veniva un sacerdote a dire la messa, ma solo per dieci minuti. Educatori? Nessuno. Volevo imparare ad usare il computer, ma non e' stato possibile. So che e' concesso a detenuti comuni, ma io ho fatto cinque anni di 41 bis e poi sono stato assolto. Perche' ero innocente. E ora voglio solo dimenticare''.
DAL SITO http://www.camerepenali.it
Sono in galera e dispongo di pochi libri.
Per fortuna alcuni libri li ho letti quando ero libero. Sono sottoposto al carcere duro e cioè ad una disciplina così sottile, raffinata, perversa, da fare impallidire il supplizio più atroce. Sono stato definito socialmente pericoloso e sono in attesa di giudizio. Per la verità non mi ero avvilito perché ero convinto della presunzione di non colpevolezza, di una Giustizia serena e di un’amministrazione carceraria responsabile , ma anche umana. Non potevo mai immaginare che cosa mi aspettasse. Sono continuamente in lotta contro quelli che sono diventati i miei nemici di sempre: gli agenti di custodia. Pochi giorni or sono mi è stata negata la biancheria intima ( mutande , calzini). E’ vero che sono imputato di fatti gravi; ma ero fermamente convinto che la mia igiene personale riguardasse quel minimo di cura del mio corpo che nulla avesse a che vedere con la mia pericolosità sociale. Ho pensato, anche per illudermi, che si trattasse di un episodio isolato. No! Mi ero sbagliato! Quando pochi giorni or sono dovevo comparire in video conferenza , pur avendo subito le perquisizioni di rito, mi è stato detto che dovevo calarmi i pantaloni. Ho chiesto spiegazione per una richiesta che trovavo insolita, ma gli agenti di custodia mi hanno risposto che era un atto dovuto se avevo interesse a partecipare all’udienza. Ho obbedito! Non potevo mai pensare che, una volta calati i pantaloni, mi facessero abbassare anche le mutande, mentre un dito esplorava il mio ano con una pratica che oscillava tra rito e compiacimento da parte dell’operatore.
Mi ribellai! Gridai! Fu tutto inutile! Questo esercizio, così umiliante, fu praticato altre volte sul mio corpo. Da allora ho capito che sono un detenuto ai confini della vita; sradicato dalla mia identità; un miserabile oggetto; un fantasma; un io senza io. Quando ero libero mi dedicavo poco alla mia famiglia. Nei confronti di mia moglie ero una maschera, e, con i miei bambini ero assente; un padre che era tale solo per lo stato civile. Ma durante quell’unico colloquio mensile che avevo ed ho con i miei familiari, sotto la diretta sorveglianza degli agenti di custodia, e, con quel vetro divisorio, che è una sorta di separazione fisica dagli affetti più cari, io, definito un delinquente, un mostro, incominciai ad avvertire con me stesso un disagio psichico. Poi con il ripetersi di quel colloquio a distanza, notai un giorno che la mia bambina, di tenera età, dapprima tentò di baciarmi comprimendo il suo musino contro il vetro divisorio, poi, si agitò fino al punto di scoppiare in un pianto così isterico e convulso che mia moglie ritenne di allontanarsi con la bambina. Sarò un delinquente, ma per tutto il giorno mi sentii un abbozzo di uomo e di padre e scrissi a mia moglie, chiedendole di non portare più la bambina al colloquio perché soffriva. Mia moglie mi informò che la bambina era affetta da crisi epilettiche, e, che si era chiusa in un mutismo cupo. Il medico le aveva comunicato che la mia bambina poteva migliorare le sue condizioni di salute in un colloquio diretto con me, e, cioè ricevendo carezze e parole di conforto da me senza quel vetro divisorio che la scioccava e mandava alla deriva il mio io. Ebbi vergogna di me! Avvertii, al di là dei fatti che la Giustizia mi contestava, di essere un vile nei confronti della mia bambina che, per come si era ridotta, poteva ormai essere sostenuta solo dalle mie carezze, dal mio amore. Gi agenti di custodia, il Ministro, la Corte Costituzionale, i medici, non vogliono sapere quanto siano importanti gli affetti familiari e come siano tante volte capaci di trasformare un delinquente in un osservante le leggi. Avevo scoperto, grazie a quel corpicino indifeso della mia bambina, una ragione della vita che mi era completamente sfuggita e che poteva cambiare in radice me stesso: la mia famiglia. Dissi a me stesso: perché non posso cambiare? Perché non posso diventare un altro? Perché un giorno non posso essere come voi? Volli cambiare condotta in carcere. Cambiò il mio cervello. Incominciai ad osservare le norme penitenziarie: diventai rispettoso, ossequioso, nei confronti dei miei superiori. Chiesi di andare in chiesa; di lavorare; di istruirmi. E mentre avvertivo dentro di me questo diritto alla metamorfosi, mi fu notificato altro decreto ministeriale nel quale leggevo, con mio sommo stupore, che la buona condotta carceraria non è segno di alcun ravvedimento. Anzi è il vero alibi del camorrista per cui lungi dal vedere riconosciuto il mio cambiamento, proprio in quanto osservante delle regole penitenziarie, ero ancora più pericoloso. Allora compresi che il decreto ministeriale non solo è lo stesso per tutti i detenuti, ma è il luogo di tutti i racconti possibili. Compresi che nel carcere non entrano né la legge né il cuore. Ma soprattutto divenni sempre più saggio e dissi a me stesso che a nessuno stava a cuore la mia risocializzazione. Ho perduto il mio tempo. Nessuno vuole che io cambi. Ma vi è di più ! Il carcere è un territorio nel quale il detenuto è abbandonato a se stesso; un luogo nel quale si perfeziona la sua delinquenza. Scrissi al Ministro, a tutte le Autorità. Mi ignorarono tutti. Pensai di rifare l’ordine delle mie esigenze e mi rivolsi al mio avvocato al quale chiesi tutela per quanto avveniva in carcere e per la mia difesa. Il mio avvocato, il più vanitoso di tutti, interpretava le mie esigenze con un tono oracolare, con aggettivi rassicuranti e mi faceva comprendere che la sua bravura si sarebbe misurata nella difesa. Quando comparvi in video conferenza per difendermi perché era incominciato il processo a mio carico, bastarono poche udienze per comprendere che il mio avvocato gestiva solo il suo vuoto nell’ignoranza completa degli atti. Fu per me un raddoppiamento di solitudine. Mi innamorai del mio abisso nel quale mi facevano precipitare l’angoscia del carcere duro e quella della difesa. Mi sentii braccato! Pensai al ritornello perverso del decreto che mi accerchiava come un fantasma, un affatturamento, e mi sussurrava all’orecchio: " Pentiti! Se tu ti penti, cambia tutto". Sprofondai in una disperazione insulare perché si trattava di pentirmi di ciò che non avevo commesso. In una notte nella quale si confusero nella mia mente paure e speranze , le immagini della vita e della morte, levai la mano su di me con numerose coltellate. Mi sono risvegliato in infermeria dove i medici mi hanno riscontrato allucinazioni emicraniche con perdite di memoria.
Ora con la passione dell’ignoranza potrò sopportare meglio il mio inferno.
Napoli 23.04.2002
tratto da italy.indymedia.org
I detenuti della casa di pena spoletina spiegano le motivazioni e le modalità della protesta.
E’ totale, scrivono i detenuti del carcere di Maiano in una lettera diffusa ieri, l’adesione allo "sciopero" pacifico promulgato dall’associazione "Papillon" in tutti gli istituti di pena italiani. In questi giorni è stata avviata la terza fase della protesta, che consiste nello sciopero della fame. Ogni sezione che aderisce, effettua lo sciopero totale della fame per tre giorni, durante i quali vengono lasciati fuori dalle celle tutti i generi alimentari. Nel tre giorni, i detenuti che normalmente lavorano, si astengono dal lavoro.
Le date della protesta e le sezioni che effettuano lo sciopero vengono preventivamente comunicate al direttore del carcere, anche per consentire la tutela medica dei detenuti che partecipano alla protesta. Protesta che proseguirà ad oltranza, fino a quando non arriveranno "segnali forti" dal governo.
Nella lettera i detenuti dalla casa di reclusione spoletina ribadiscono le questioni che sono alla base della protesta: la riforma dell’ordinamento giudiziario, l’abolizione dell’ergastolo, l’abolizione del regime di 41 bis, l’aumento di trenta giorni per ogni anno del beneficio della liberazione anticipata, il ripristino immediato dei fondi per la cura dei detenuti, la giusta e corretta applicazione della legge Gozzini. Infine, l’adeguamento della cosiddetta mercede, ovvero il compenso ai detenuti che lavorano, fermi da quasi dieci anni, alle stesse categorie dei lavoratori liberi. «Siamo sottoposti - dicono i detenuti - ad un vergognoso sfruttamento del lavoro penitenziario. Effettuiamo delle ore lavorative che poi non ci vengono riconosciute con la facile scusante della mancanza dei fondi».
«Una Repubblica civile e fondata sulla democrazia - si legge ancora nella lettera - non può e non deve violare fondamentali principi costituzionali. Se il grado di civiltà di uno Stato si misura dalle condizioni dei reclusi, allora l’Italia deve essere posta tra i paesi del terzo mondo».
Il Messaggero online del 27/09/2002
da: Il Piccolo di Trieste del 28/09/2002
Una protesta pacifica, civile, ma al contempo rumorosa (un tipico cacerolazo con pentole percosse da cucchiai) «per dare voce ai reclusi del Coroneo»: è quella che è stata realizzata ieri pomeriggio come segno di solidarietà alle manifestazioni che dall’inizio di settembre si sono ripetute in tutta Italia per chiedere condizioni di vita migliori nelle celle sempre più sovraffollate. In particolare proprio al Coroneo i reclusi che avevano preso parte alle manifestazioni di protesta erano stati filmati uno per uno con telecamere digitali dalle guardie su disposizione del direttore Sbriglia.
È di qualche giorno fa la visita al Coroneo di alcuni esponenti di Rifondazione comunista, dei Verdi e dell’Associazione Ya Basta! i quali hanno denunciato «il sovraffollamento (8 persone in celle da due), la totale mancanza di un’adeguata politica sanitaria (un solo medico per oltre 200 reclusi), l’impossibilità di svolgere un lavoro (solo 12 persone attualmente svolgerebbero un’attività), le pessime condizioni igieniche, la distribuzione dei pasti in orari assurdi e irrispettosi delle differenti abitudini alimentari».
Ieri davanti al carcere accanto a uno striscione con la scritta «Non siete soli. Dignità e giustizia» e la firma «Movimento dei/delle disobbedienti» c’erano i parenti e gli amici dei reclusi assieme a esponenti politici e rappresentanti di associazioni.
E questo slogan che ha voluto essere un po’ la bandiera di tutta la manifestazione è stato ripetuto con il megafono rivolto verso le celle, mentre ai passanti venivano distribuiti dei volantini per spiegare il senso dell’iniziativa e informare sulle difficili condizioni di vita dentro il carcere.
«Vi salutiamo e abbiamo voluto essere qui oggi - è stato detto al megafono - per esprimervi la nostra solidarietà. Ci rivedrete, torneremo presto, non vogliamo lasciarvi soli: il nostro rumore, la nostra voce oggi ha tentato di darvi voce, ha tentato di far uscire dal carcere quelle che sono le verità nascoste là dentro: sappiamo che voi non potete parlare, sappiamo che non potete raccontare quella che è la vita dentro un carcere, dentro questo carcere».
«Vogliamo attivare delle reti che possano almeno una volta al mese entrare dentro al carcere - è stato gridato ancora ai reclusi in ascolto aggrappati alle sbarre delle celle - . Questo per creare delle garanzie, per darvi quella tutela che è negata in questo momento. Quindi vi abbracciamo forte e vi chiediamo di resistere: in un carcere non si può far altro che resistere».
Gli organizzatori della manifestazione intendono creare attenzione attorno al carcere, coinvolgendo la gente e le istituzioni in modo che venga assicurato rispetto della dignità delle persone e condizioni di vita accettabili. «Non lasciamoli soli - è stata l’esortazione più volte ripetuta nella manifestazione di ieri - .Ci sembra che in una simile situazione l’unica strada da percorrere sia quella della solidarietà dall’esterno, il riempire, stavolta, con le nostre voci e il nostro rumore, il silenzio assordante che proviene dal Coroneo, un luogo che sempre più assomiglia a un dimenticatoio da girone infernale, dove cittadini in carne ed ossa divengono invisibili, privati di ogni diritto».
UN PRETE IN GABBIA
Un'interessante riflessione a cura dei Verdi di Bologna sul ruolo dei cappellani nel carcere.
Ciao a tutt*,
l'articolo che vi invio oggi dal sito di Papillon porta a un problema annoso all'interno delle carceri, cioè il ruolo dei capellani che in quei luoghi svolgono la loro missione. Non vi è dubbio che per i detenuti credenti essi rappresentano un sostegno spirituale insostituibile date le loro condizioni di vita, e non solo: per i più indigenti si adoperano procurando loro generi di vestiario e quant'altro o donano qualche denaro proveniente dalle collette fatte nelle loro parrocchie, spesso facilitano i rapporti
interrotti tra i detenuti e le loro famiglie (per chi ce l'ha). Tra i preti che operano in carcere le scuole di pensiero sono due: una è quella di cui sopra che si ferma alla carità cristiana, l'altra invece va ben oltre denunciando pubblicamente le illegalità e
la lesione dei diritti umani di cui sono vittime i detenuti. Ma questi ultimi, come dimostra l'articolo che segue, hanno vita dura e non solo dentro gli istituti di pena poichè spesso vengono puniti anche dalle alte gerarchie ecclesiastiche secondo le quali "i preti non devono fare politica" (come sa bene Don Vitaliano).
Ma pur non essendo credenti è questa la Chiesa che ci piace: quella sociale e disobbediente, quella che abbiamo imparato a
conoscere durante le giornate di Genova.
Valerio Guizzardi
Coordinamento regionale carceri
VERDI - Bologna
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Le accuse del cappellano-imputato
Ieri don Giuseppe Meloni ha testimoniato al processo che lo vede alla sbarra per minacce.
«Volevano trasformare Badu 'e carros in un lager»
«Aveva rapporti conflittuali con il direttore Paolo Sagace?». «Certo, voleva trasformare il carcere di Badu 'e Carros in un lager». Domanda e risposta sono andate in scena ieri mattina nella sala udienza al primo piano del Tribunale di Nuoro, dove si svolgeva il processo nei confronti di don Giuseppe Meloni, il cappellano del carcere nuorese accusato di minacce nei confronti di due agenti di polizia penitenziaria.
La deposizione del religioso ha attirato l'attenzione anche di molti curiosi, oltre che di alcuni fedeli e confratelli di don Meloni, presenti ieri mattina nell'aula del palazzo di giustizia. Dopo l'esame da parte del difensore, l'avvocato Mario Lai, che con le sue domande ha chiesto all' imputato di ricostruire l'episodio contestato, don Meloni è stato incalzato dai quesiti del pubblico ministero Maria Grazia Genoese. Ed è proprio rispondendo alle sollecitazioni del rappresentante dell'accusa che il cappellano di Badu 'e Carros ha espresso giudizi duri nei confronti di alcuni direttori del carcere nuorese. «Da quando svolgo questo ruolo, di
responsabili del penitenziario, in città, ne sono passati venticinque», ha detto davanti al pm, descrivendo così una situazione di instabilità che è diventata oggetto di dure critiche anche da parte di sindacati e forze politiche. Don Meloni ha poi ricostruito minuziosamente quell'episodio del 20 agosto del 2000, oggetto dell'esposto presentato da alcune guardie carcerarie (gli agenti avrebbero impedito al cappellano di incontrare un detenuto, Sergio Mereu di Loculi, che si trovava in isolamento, a cui voleva
consegnare una copia di Famiglia cristiana, e lui avrebbe risposto con frasi minacciose, secondo quanto scritto nel capo 'imputazione). «Non sapevo neanche della presenza di Mereu in quella sezione», ha detto ieri in aula don Meloni, «ma la richiesta di non avvicinarmi a quella cella era talmente inverosimile che io entrai ugualmente nella sezione per consegnare ai detenuti Famiglia cristiana». «E perché poi non andò nella cella di Mereu?», ha chiesto il pubblico ministero. «Non mi sono avvicinato solo "pro bona pacis", visto che mi dissero di non farlo», ha risposto don Meloni, aggiungendo poi che non minacciò gli agenti, ma chiese loro se erano sicuri di conoscere il regolamento carcerario e preannunciò che avrebbe scritto qualcosa su quanto accaduto. Il religioso, infatti, segnalò l'episodio in una lettera inviata al direttore del penitenziario. Don Meloni, tuttavia, ha anche aggiunto di avere un concetto tutt'altro che lusinghiero di uno degli agenti che lo accusano e ha sostenuto di aver scritto la lettera al direttore solo «perché volevo che si chiarissero i compiti del cappellano».
Sempre rispondendo alle domande del pubblico ministero, don Meloni ha poi spiegato di aver più volte portato messaggi da parte di qualche detenuto ai familiari della parte offesa, «per chiedere perdono». «Una volta ricevetti una contestazione proprio per questo fatto», ha raccontato in aula, e non ha nascosto di aver avuto rapporti conflittuali anche con il direttore Pierluigi Farci. «Voleva fare da solo anche in campo ecclesiale», ha detto, «mi telefonò dicendomi che l'indomani avrei dovuto celebrare messe separate nelle diverse sezioni del penitenziario (detenuti comuni e ad alta sicurezza, n.d.r.), invece che una sola come al solito. Chiesi di soprassedere per quella settimana e di parlarne insieme». Concluso ieri l' esame dell'imputato, il processo riprenderà il 19 novembre con le richieste del pubblico ministero, l'arringa difensiva e la sentenza da parte del giudice monocratico.
Orrore nelle celle di Buoncammino
Due detenuti trovati impiccati dagli agenti carcerari
L’Unione Sarda, 9 ottobre 2002
Paolo Santona era stato condannato per spaccio di droga. Sandro Fanari era in attesa di giudizio. Due detenuti si sono suicidati impiccandosi alle sbarre di una cella del carcere di Buoncammino, a un giorno di distanza uno dall’altro. Un gesto imprevedibile nel silenzio della notte, senza un segno premonitore, ma certamente dettato dalla disperazione. Paolo Santona, 48 anni, cagliaritano, si è tolto la vita intorno alla mezzanotte di sabato. Sandro Fanari, 45 anni di Guspini, poco prima dell’alba di lunedì. Era ancora vivo quando gli agenti lo hanno soccorso, ma il loro intervento non è servito a nulla. Asfissia da soffocamento, ha sentenziato per entrambi il medico legale. Sul tragico episodio la Procura ha comunque aperto un’inchiesta. Per il carcere sul colle di Buoncammino è un brutto colpo. Dopo la visita della commissione-giustizia del Senato, si è riaccesa la vecchia polemica sull’affollamento dei detenuti (sempre intorno a 430 reclusi) ma anche la speranza di arrivare in tempi brevi alla realizzazione di un complesso carcerario in regola con il nuovo ordinamento penitenziario. C’è un nuovo progetto che bussa alla porta (nel comune di Uta) e il ministro si è impegnato a reperire i fondi per realizzare l’opera con il sistema collaudato del leasing.
La situazione è improvvisamente precipitata la settimana scorsa con un episodio che ha fatto scattare l’allarme sul colle di Buoncammino: anziché rientrare in cella a conclusione della passeggiata nel cortile interno, un detenuto-acrobata ha saltato un paio di muri divisori riuscendo, dopo una incredibile scalata, a raggiungere il tetto di un fabbricato. Scattato l’allarme, il settore è stato circondato e il detenuto (di cui non si conosce il nome) costretto alla resa nel cortile delle officine. Archiviato l’episodio - che a parte l’allarme ha suscitato anche qualche curiosità per l’abilità dimostrata dal singolare uomo-ragno - agli agenti della polizia penitenziaria poco dopo la mezzanotte di sabato è arrivata un’altra doccia fredda: un detenuto che non aveva risposto alla conta notturna è stato rinvenuto cadavere nel bagno della cella. Si trattava di Paolo Santona (condannato a tre anni per traffico di droga) , il quale sarebbe riuscito ad ingannare anche il detenuto che dormiva con lui nella stessa cella. Nel carcere cagliaritano il clima è diventato ancora più teso lunedì quando, intorno alle 6, gli agenti di guardia hanno sorpreso un altro detenuto agonizzante nel bagno della cella: Sandro Fanari (arrestato per traffico di droga) , anche lui con il capo infilato in un cappio rudimentale legato alla finestrella. Il giovane è stato subito trasportato nel centro clinico ma è stato tutto inutile. Stando a quanto emerso dalle indagini, i due detenuti non erano ritenuti "pericolosi" né tossicodipendenti in cura all’interno del carcere. Sembra addirittura che proprio qualche giorno fa avessero superato senza problemi il test con la psicologa del carcere nell’ipotesi di essere assegnati ai servizi sociali o per ottenere qualche permesso straordinario. «Direi due detenuti abbastanza tranquilli - ha commentato il direttore Gianfranco Pala - e questo ci dispiace molto. Stavano in una stanza doppia, quindi lontani dall’affollamento di cui si parla. Né avevano denunciato malattie. Purtroppo, sono gesti imprevedibili su cui non si può dire molto». "Radio Buoncammino" però lega i due episodi a uno stato di malessere diffuso che in questo momento riguarda soprattutto il personale addetto alla sorveglianza: sembra che manchino all’appello per motivi vari quasi cinquanta agenti. Come dire che oggi nelle carceri cagliaritane può accadere di tutto. E che in ogni caso i tre episodi sono il termometro di una situazione che rischia di diventare ingovernabile se non si trovano i correttivi giusti. In questo caso un carcere nuovo.