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Gennaio
2002
Genere
e globalizzazione: alcune riflessioni
Vi
è una DIMENSIONE DI GENERE DELLA POVERTA' non solo quantitativa,
ma anche qualitativa, che dipende da una serie di fattori specifici per
cui la deprivazione femminile vede combinati insieme occupazioni di basso
livello, mancanza di riconoscimento del lavoro di cura, dipendenza economica
e sociale dall'uomo.
Più concretamente le Nazioni Unite identificano 12 aree critiche:
- Persistenza e aumento della povertà femminile
- Diseguaglianze nel sistema scolastico e nell'accesso all'istruzione
- Diseguaglianze generate dal sistema sanitario e dai servizi sanitari
- Violenza di genere
- Effetti sulle donne dei conflitti armati
- Diseguaglianza nelle strutture economiche e politiche
- Diseguaglianza nella condivisione e gestione del potere
- Scarsa efficacia dei meccanismi di promozione di avanzamento lavorativi
delle donne
- Scarsa protezione dei diritti umani delle donne
- Diseguaglianza nell'accedere e partecipare ai sistemi di comunicazione
- Diseguaglianza nella gestione delle risorse naturali
- Discriminazione nei confronti delle ragazze madri.
Tuttavia
anche nel discorso sulla globalizzazione occorre notare il "conceptual
silence" (Isabella Bakker): nel dibattito sulla globalizzazione ogni contraddizione
- dalla competizione globale alla competitività locale, dalla fine dello
Stato-Nazione alla formazione dello Stato "competitivo" (Cerny, Hirsch),
dalla perdita di sovranità di fronte alle regole dei processi di mercato
alla nascita della disoccupazione strutturale nella società dei servizi
e nella società informatica, fino ai rapporti di lavoro precari e ad una
"illicit global economy" (Friman-Andreas 1999) - è sottoposta ad analisi
che ignorano il rapporto con la natura e la differenza tra uomini e donne.
La prospettiva di genere offre uno sguardo su aspetti della globalizzazione
che rimangono nascosti alla visione dominante. Si può, in prima approssimazione,
interpretare la globalizzazione come un addensamento (compressione) di
tempi e spazi. Le distanze spaziali perdono il loro significato, così
come le differenze temporali vengono annullate in un "tempo mondiale".
Avvenimenti distanti sul piano del tempo e dello spazio possono essere
vissuti contemporaneamente o, al contrario, le distanze spazio-tempo possono
essere create artificialmente.
I
nodi che rendono difficile la condizione della donna lavoratrice a causa
della globalizzazione possono essere individuati:
- nella precarietà
- nella flessibilità
- nello smantellamento del welfare state
I
punti su cui riflettere e da cui far emergere nuove proposte sono, a mio
avviso, i seguenti:
- il salario al lavoro domestico
- la rappresentanza sindacale femminile
- il salario sociale
- la cittadinanza
La
globalizzazione è affare di donne, come poche altre cose al mondo lo sono
mai state.
Per effetto del trasferimento al Sud delle produzioni ad alto tasso di
manodopera, le donne rappresentano oggi in molti paesi di recente industrializzazione
la grande maggioranza del nuovo lavoro salariato. Tra il 1970 e il 1990
nel Sud Est asiatico l'occupazione femminile è passata dal 25 al 44%;
in Bangladesh su 1 milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, creati negli
ultimi venti anni, il 90% sono stati occupati da donne; nella produzione
di T-shirt, scarpe, pulci elettroniche (prodotti classici di ingresso
sul mercato del lavoro) la percentuale di donne varia dal 70 al 90%.
Né questa composizione sessuale della forza lavoro, né le sue ragioni
di fondo rappresentano una novità: anche in Europa al tempo del capitalismo
nascente le donne sono state privilegiate nello sfruttamento perché il
loro salario veniva considerato solo un'integrazione del reddito familiare,
perché la loro periodica scomparsa dal mercato del lavoro per gravidanze
e compiti di cura si traduceva in flessibilità e infine perché più duttili
e più ricattabili.
All'altro capo dell'economia mondializzata le società postindustriali
sono diventate società di prestazioni di servizi e anche i servizi sono
affare di donne. Negli Stati Uniti, in cui il fenomeno ha assunto le dimensioni
maggiori, il 72% della forza lavoro è concentrata nei servizi; nell'Unione
europea il 79% delle donne attive lavora nei servizi. Nei servizi pubblici,
nella salute, nell'educazione si concentra tradizionalmente il lavoro
delle donne, mentre negli uffici, nell'amministrazione, nel fast food
la loro presenza continua a crescere, anche dove prima era in maggioranza
quella maschile.
Una
prima considerazione si impone con evidenza: oggi, come mai prima nella
storia, la marginalità economico-sociale è donna. La composizione
spesso tutta maschile dei tavoli in cui si dibatte e si progetta mostra,
forse meglio di qualsiasi altro segno, l'ottica sostitutista di uomini
che ancora non si sono nemmeno posti il problema di come rendere protagoniste
e protagonisti prima di tutto gli attori sociali della globalizzazione.
Proprio dall'angolo di visuale delle donne la globalizzazione appare come
un fenomeno contraddittorio.
In tutto il Sud le nuove occasioni di lavoro rompono antichissime
segregazioni e dipendenze totali, attivizzano sul piano sindacale e politico
un numero senza precedenti di donne, mettono in crisi le strutture più
costringenti del patriarcato.
D'altra parte, il lavoro salariato delle donne, nelle condizioni in cui
la globalizzazione lo impone, è fatica allucinante, sfruttamento, ricatto,
incertezza e paura. Orari interminabili a causa delle ore supplementari
obbligatorie, salari miserabili, mancanza di qualsiasi garanzia, insufficienti
protezioni contro gli incendi, punizione da campo di concentramento, utilizzazione
di prigionieri e bambini come schiavi della produzione sono le condizioni
di grandissima parte del mercato globalizzato nel Sud del mondo. Due secoli
dopo il capitalismo rinnova i suoi fasti e ritrova il paradiso perduto
della totale disponibilità dei corpi e del tempo degli esseri umani.
Nel Nord del mondo le condizioni di vita e di lavoro sono ovviamente
diverse, ma anche da noi l'ingresso più massiccio delle donne sul mercato
del lavoro ha come condizione la disponibilità ad adattarsi. In Europa
il 78% dell'occupazione part-time a basso valore professionale è coperta
da donne e in alcuni paesi della Comunità (per esempio in Germania) la
percentuale si avvicina al 90%. In Gran Bretagna negli anni '90 2/3 dei
nuovi posti di lavoro sono stati a tempo parziale e occupati al 90% da
donne.
E' stato prima di tutto la forza lavoro femminile a essere investita dalle
molteplici forme della precarizzazione, dall'assunzione a tempo determinato
alla prestazione di servizi indipendenti, al lavoro a domicilio, al telelavoro
e lo smantellamento dello Stato sociale tende a rendere le donne più disponibili
alle occupazioni che consentono di conciliare guadagno e famiglia.
L'altra
faccia della medaglia della maggiore possibilità di lavoro non consiste
solo nel peggioramento delle sue condizioni ma anche nel riproporsi
di antiche disuguaglianze. Dal momento che i nuovi posti di lavoro
sono meno pagati dei vecchi e che le donne sono in maggioranza nel lavoro
cosiddetto atipico (in realtà sempre più tipico), si accentua la divaricazione
tra le remunerazioni maschili e quelle femminili. E comunque il profilo
vincente della globalizzazione non è un profilo femminile. Se ciascuno/a
dovrà sempre più lottare per restare a galla in un mercato del lavoro
in cui la competizione tende a farsi sempre più aspra, se ciascuna/o dovrà
costruirsi da sé le proprie fortune e la propria carriera allora vincenti
non saranno le donne.
Nei paesi emergenti le équipe di direzione sono maschili e la tecnica
allontana le donne, mentre nel Nord non aumenta in proporzione la percentuale
delle donne dirigenti e la stessa intensità della competizione privilegia
un tipo umano che non ha altra preoccupazione che la carriera, non partorisce,
non si prende cura e scarica su altre persone i compiti della riproduzione
perfino di se stesso.
Non
bisogna credere che la globalizzazione si fondi sulla guerra più
di quanto sulla guerra si siano fondati altri processi storici nel passato
recente e lontano. Una considerazione del genere sarebbe gravemente viziata
da eurocentrismo, perché la vera novità degli ultimi decenni è che la
guerra è tornata in Europa e alle sue porte. Il potere del neoliberismo
non è nelle bombe ma nella sua capacità di seduzione, nella sua natura
di Fata Morgana e di promessa di superamento dell'arretratezza e della
miseria. Ciò non toglie che la globalizzazione abbia richiesto una ridefinizione
dei termini in cui l'uso della violenza si esercita.
Per quanto infatti le guerre siano una costante della storia e un'espressione
della dominazione maschile, le forme in cui si manifestano, i discorsi
che le giustificano, la logica a cui rispondono mutano col mutare dei
processi storici di cui sono funzione. Così anche sul piano militare,
come su quello economico, agisce la combinazione tra la replica di fenomeni
già visti e il contesto assolutamente inedito in cui questa replica ha
luogo. All'assimilazione strutturale del Sud corrispondono infatti forme
di riarmo e riorganizzazione militare già viste in Europa nel XIX secolo,
dominate da logiche nazionalistiche e di competizione tra Stati. Sul piano
politico e ideologico il modello di riarmo del Sud replica la mobilitazione
popolare, il ricorso agli stereotipi del patriottismo, l'enfatizzazione
delle proprie reali o presunte specificità nazionali e anche i tentativi
contraddittori di modernizzazione. Ma anche da questo punto di vista si
registrano allarmanti novità, perché la tecnica corre molto più in fretta
del livello di civiltà e dell'etica degli uomini che la utilizzano. Quanto
alla società postindustriale, essa è anche capace di rinunciare in parte
agli orpelli del militarismo classico, alle fanfare, alle coccarde, all'amore
di patria, per diventare efficiente scorta armata di merci, materie prime
e capitali.
Da
una parte, le tecniche, il capitale finanziario, le merci, le materie
prime, la forza lavoro circolano oggi a una velocità inconcepibile anche
in un recente passato; dall'altra, l'interdipendenza tra le diverse zone
del mondo non tollera interruzioni, vie ostruite, ostacoli al nomadismo
della produzione. L'intervento militare deve essere perciò rapido ed efficace,
non dispone dei tempi della mobilitazione di massa (tutt'altra cosa è
l'adesione passiva al cosiddetto intervento umanitario), non può permettersi
resistenze, campagne pacifiste, mutamenti politici o anche solo le accidentali
lentezze della democrazia formale. La progressiva professionalizzazione
degli eserciti delle società postindustriali risponde a un'esigenza di
velocità e di efficienza, le cui conseguenze sono forse destinate ad agire
a fondo sulla loro identità culturale. Come ai tempi dell'affermazione
degli Stati nazionali, il monopolio della violenza da parte del sovrano
mutò i costumi dell'aristocrazia femminilizzandola, così la fine della
leva obbligatoria e dell'iniziazione militare alla mascolinità possono
produrre una parziale smilitarizzazione psicologica del genere maschile-eterosessuale.
Tuttavia, poiché la violenza non è estirpata ma solo dislocata, i suoi
effetti non saranno rispetto al passato meno potenti ma solo dislocati,
si manifesteranno cioè in altro modo e altrove.
Nel Sud la trasformazione delle violenze tradizionali degli eserciti contro
le donne mima la logica del decentramento produttivo, per cui le multinazionali
trasferiscono a ditte locali il lavoro sporco dello sfruttamento selvaggio
e della repressione. Dovunque arrivino le cosiddette missioni di pace
e i loro missionari nel giro di poche ore sorgono giganteschi mercati
del sesso con prostitute spesso bambine o adolescenti, talvolta rapite
e altre volte costrette alla prostituzione con il consenso dei loro familiari.
Più difficile cogliere le variazioni della guerra contro le donne nelle
società postindustriali, dove non arrivano eserciti di occupazione o bombe
intelligenti. Una violenza latente perché dislocata in un corpo separato
tradizionale, ma anche maggiore per intensità e concentrazione, si scarica
nella società soprattutto sotto la forma di violenza di persone di sesso
maschile contro persone di sesso femminile.
Privati dell'apprendistato alla virilità, del nazionalismo, della celebrazione
degli attributi maschili, del nonnismo, delle marce, delle urla, dell'irreggimentazione,
una parte del genere degli uomini eterosessuali si è già da tempo disaffezionata
al militarismo e una parte molto minore ma non più invisibile subisce
una metamorfosi simile a quella dell'aristocrazia europea del XVIII secolo.
Ma nei settori sociali e negli individui in cui l'aggressività è quotidianamente
stimolata dalle frustrazioni, dalle difficoltà della vita, dalla verifica
della propria impotenza e dall'ignoranza la violenza deflagra incontrollata
nel corpo sociale.
Gli
effetti della globalizzazione sull'ambiente non cambiano allo stesso
modo la vita delle donne e degli uomini. In numerose zone del mondo sono
le donne a occuparsi del cibo, dell'acqua, degli animali.
In Africa il 75% dei lavori agricoli vengono compiuti da donne e, quando
il mercato devasta le terre circostanti rende l'acqua imbevibile, riduce
gli spazi per l'agricoltura di sopravvivenza, sono le donne a cercare
acqua a chilometri di distanza o a difendere la coltura di prodotti agricoli
tradizionali. A causa della divisione sessuata del lavoro, il degrado
ambientale rappresenta una delle cause principali dell'aumento della mole
di lavoro delle donne.
Per gli effetti immediati delle devastazioni ambientali sulla loro vita,
al Sud sono state soprattutto donne le protagoniste attive di episodi
di resistenza. A tutte è nota l'esperienza del movimento ambientalista
di donne indiane Chipko, a cui si ispirano le tesi della fisica Vandana
Shiva e che hanno avuto una grande risonanza nelle ONG per lo sviluppo.
Sia il movimento sia Shiva hanno difeso le specie arboree tradizionali
sostituite da vaste piantagioni per il mercato, mostrando le conseguenze
nefaste della sostituzione sull'ambiente e sulla vita delle popolazioni
locali. Nelle società postindustriali gli effetti della globalizzazione
agiscono naturalmente in maniera diversa sulla vita delle donne.
Ma è indubbio che anche al Nord essi agiscono più sulla vita delle donne
che su quella degli uomini. Dal momento che a occuparsi del nutrimento
e della salute delle famiglie sono le donne, a Nord non meno che a Sud,
le preoccupazioni per il cibo che mangiamo, l'acqua che beviamo, l'aria
che respiriamo sono delle donne più che degli uomini, condizionano la
vita delle donne più che degli uomini.
Sollevate dalla fatica di cercare l'acqua a chilometri di distanza o di
difendere la piccola agricoltura di sussistenza, le donne delle società
postindustriali sono investite dalla responsabilità di aggiornarsi, di
cercare di indovinare quali prodotti siano meno pericolosi, di controllare
che cosa bambini e bambine mangino ogni giorno nelle mense scolastiche.
Francesca
Lazzari
No ©opyright !!!
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