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Vi
proponiamo qui la sintesi di una tesi di laurea in Sociologia il cui argomento
era il cosiddetto popolo di Seattle. Può essere l'occasione per vedere
il movimento da un punto di vista insolito e trarre magari alcune riflessioni.
Il
testo seguente è una sintesi di una ricerca che ho svolto sul movimento
cosiddetto del “Popolo di Seattle” per la mia tesi di laurea, effettuata
presso la Facoltà di Sociologia di Trento negli anni 2001 e 2002. Esso
è stato presentato anche in un workshop che ho tenuto a Firenze durante
il Forum Sociale Europeo del Novembre 2002 intitolato “Il Popolo di
Seattle tra identità e globalizzazione” per conto dell’Associazione
“Laboratorio sul Moderno” di Trento. La ricerca è basata su di un lavoro
teorico riguardante lo studio critico-sociologico dei processi di globalizzazione
e su di una parte empirica, costituita dall’analisi dei dati emersi da
un questionario che ho sottoposto all’attenzione di 148 attivisti del
movimento, durante le giornate del Contro-G8 di Genova del Luglio 2001.
IL POPOLO DI
SEATTLE TRA IDENTITA’ E GLOBALIZZAZIONE
Un importante punto da cui partire per analizzare il movimento di Seattle
sta nella diversità che caratterizza i singoli partecipanti ed anche i
gruppi che aderiscono a questa forma di protesta. Una diversità ideologica,
culturale, generazionale che ad esempio a Seattle ha visto uniti nella
stessa protesta dai gruppi religiosi agli agricoltori, dai sindacati dei
camionisti americani agli studenti, dai centri sociali a semplici madri
preoccupate, fino ai rappresentanti dei consumatori e così via.
La domanda centrale che dunque caratterizza l’analisi e che fa in un certo
senso da guida nel tentativo di comprendere a fondo questo movimento è
la seguente: come possono persone così diverse ed eterogenee tra loro
convivere nella stessa azione di protesta?
Esiste infatti una diversità che deve essere spiegata se si vuole comprendere
a fondo questo movimento. Per essere più chiari facciamo un esempio.
Prendiamo ipoteticamente due persone da diversi contesti culturali. Da
una parte un ragazzo cattolico che ha partecipato al Giubileo e che si
mobilita per la cancellazione del debito del Terzo Mondo; dall’altra prendiamo
invece una tuta bianca che si pone l’obiettivo di oltrepassare la zona
rossa. Perché se queste due persone, incontrandosi per strada, si mettono
a discutere tra di loro probabilmente si trovano d’accordo su poco o niente,
mentre nel momento in cui partecipano ad un movimento riescono a convivere,
contribuendo allo sviluppo della protesta?
La risposta sta nella presenza di un movimento appunto e soprattutto di
un’identità comune che lo fonda. Questa identità comune però sottende
un procedimento complesso di formazione che occorre andare ad analizzare,
non è una forma semplice di identità del tipo “io sono povero e tu
sei povero, ribelliamoci insieme” o “io sono un operaio e tu sei un operaio,
occupiamo insieme la fabbrica”.
Quest’identità comune, nonostante non sia quindi immediata, è comunque
presente e forte. Dai dati che ho raccolto a Genova ad esempio risulta
che il 75% degli intervistati ritiene che questo movimento sia unito da
un comune denominatore. Nel chiedere in cosa consistesse questo comune
denominatore ho riscontrato risposte che indicavano soprattutto gli scopi
del movimento come il tentativo di costruire una società più equa, o di
regolare i poteri dell’economia. Il fattore comune non starebbe quindi
in caratteristiche intrinseche, specifiche dei partecipanti, ma nel fatto
che questi individui, in condizioni sociali e culturali diverse, decidono
come persone di pensarsi insieme e di agire insieme verso scopi comuni.
A questo riguardo la mia ipotesi è che questo pensarsi insieme e questo
agire insieme, sia innanzitutto qualcosa che reagisce a una condizione
generalizzata che riguarda la persona che è coinvolta nei processi di
globalizzazione odierni (PRIMA IPOTESI), e che sia anche un qualcosa che
viene costruito attraverso la partecipazione al controvertice (SECONDA
IPOTESI).
PRIMA IPOTESI:
I processi di globalizzazione favoriscono una partecipazione politica
eterogenea e generalizzata, perché trasformano le forme della libertà
personale delle singole persone.
Si parla sempre di una globalizzazione che crea disuguaglianze, che permette
grandi spostamenti di capitali, che consente un rapido mutamento tecnologico,
tuttavia non si parla mai di come la globalizzazione cambi l’esperienza
quotidiana delle persone, come incide sulle forme della loro libertà.
E’ mia convinzione invece che sia proprio l’influenza dei processi di
globalizzazione sul corso di vita degli individui che appartengono alle
società economicamente avanzate a stimolare una partecipazione politica
al tempo stesso comune ed eterogenea, come quella che caratterizza il
Popolo di Seattle.
Tuttavia sappiamo benissimo che il termine “globalizzazione” è un termine
inflazionato, che viene spesso usato ideologicamente, che può voler dir
tutto e niente. Quindi occorre fare opportune distinzioni analitiche che
ci consentano di verificare come effettivamente i processi di globalizzazione
trasformino l’esperienza individuale.
In sé, il principio che unisce tutti i diversi processi di globalizzazione
è quello della radicalizzazione della separazione tra luogo fisico e luogo
sociale. Il fatto cioè che la nostra vita sociale è sempre più influenzata
da fattori che prescindono i vincoli fisici e territoriali che contraddistinguono
l’esperienza quotidiana. Il fatto che nonostante noi siamo chiusi tra
quattro mura in mezzo alle montagne, possiamo liberamente comunicare con
l’Australia ad esempio. Oppure il fatto che lo spostamento della produzione
di un’industria in uno Stato del terzo mondo possa far chiudere lo stabilimento
della nostra città, attorno al quale girava tutta l’economia della zona.
Sia ben chiaro che la separazione tra luogo fisico e luogo sociale non
è una novità, essa ha origini ad esempio nell’invenzione del telegrafo,
o dell’orologio meccanico. La novità sta nella radicalizzazione della
separazione tra luogo fisico e luogo sociale, il fatto cioè che oggi questa
distanziazione si accentua sempre di più e sempre più velocemente e ci
consente quindi di investire via internet sui mercati azionari di tutto
il mondo in tempo reale per esempio, o di avere una moneta comune che
vale in 11 Stati diversi.
Secondo questo principio di separazione tra luogo fisico e luogo sociale
Giddens definisce la globalizzazione come “l’intensificazione di relazioni
sociali mondiali che collegano tra loro località distanti, facendo sì
che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano
a migliaia di chilometri di distanza e viceversa. Si tratta di un processo
dialettico perché questi eventi possono andare in direzione opposta alle
relazioni distanziate che li modellano” (A. Giddens, Le conseguenze della
Modernità, Il Mulino, 1994).
La definizione di Giddens è sicuramente troppo ottimistica, poiché
suppone che il locale sia sempre in grado di rispondere attivamente al
locale. In realtà questa risposta attiva spesso avviene, ma altrettanto
spesso avviene anche che il locale sia schiacciato dal globale, come nel
caso dei SAP (Structural Adjustment Programs), del WTO delle zone franche,
o dei non-luoghi descritti ad esempio da Marc Augé.
Da questo possiamo dedurre che i processi di globalizzazione, intesi come
radicalizzazione della separazione tra luogo fisico e luogo sociale, hanno
due facce, implicano due forme diverse di prossimità, prossimità intesa
come trasformazione dell’esperienza.
1) PROSSIMITA’ EFFETTIVA che implica una trasformazione dell’esperienza
diversa dagli inputs che provengono da eventi distanti, una trasformazione
stimolata da quegli inputs, ma che prende una strada differente, in cui
il locale è capace di ricontestualizzare;
2) PROSSIMITA’ FUNZIONALE dove la trasformazione dell’esperienza
avviene in maniera totalmente conforme agli inputs che provengono da eventi
distanti (SAP, WTO, non-luoghi, zone franche). Qui il locale ha poche
possibilità di ricontestualizzare gli impulsi esterni e finisce per essere
quindi schiacciato da questi.
Per cercare di dare una risposta al nostro problema iniziale, dobbiamo
applicare queste due facce della globalizzazione alla nostra esperienza
individuale, quotidiana. Infatti questi due concetti di prossimità effettiva
e prossimità funzionale, se rapportati alla persona, al cittadino, concretizzano
una situazione dove l’aumento delle opportunità individuali (p. effettiva)
è affiancato da un tentativo di cooptare queste nuove opportunità (p.
funzionale).
Da un lato (p. effettiva) cioè i processi di globalizzazione aumentano
le nostre opportunità di scelta e di azione proprio perché in un certo
senso sottopongono alla nostra attenzione processi ed eventi spazialmente
distanti, che vengono ricontestualizzati dalla nostra esperienza, che
in tal modo si arricchisce, sviluppando quella che Thompson definisce
“un’organizzazione riflessiva del sé” (J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione
e modernità, Il Mulino, 1998). Il numero vastissimo di informazioni e
di beni simbolici che oggi circolano consente infatti al singolo individuo
di ampliare la portata della propria libertà attraverso nuove possibilità
di scelta, che stimolano una forte autonomia rispetto ai contesti spazio-temporali
della vita quotidiana. Si pensi ad esempio all’importanza che riveste
per noi oggi la libertà di comunicare e come questa libertà ci permetta
di superare degli ostacoli di tipo fisico, territoriale che fino a quattro
o cinque anni sembravano insormontabili.
Dall’altro lato, però, (p. funzionale) si verifica il tentativo da parte
di organizzazioni che, per mantenere o accrescere il proprio livello di
potere, cercano di regolare, standardizzare queste nuove opportunità sotto
un’unica logica, quella del mercato. Queste organizzazioni, che possiamo
benissimo identificare ad esempio con molte imprese multinazionali, fanno
proprio leva sulla necessità delle persone oggi di avere un gran numero
di informazioni per cercare di indurre gli individui ad operare scelte
conformi ai loro interessi. Sanno quanto questo campo sia strategico per
lo sviluppo della vita quotidiana delle persone e cercano quindi di utilizzarlo
a proprio vantaggio. Così strumenti quali ad esempio il marketing o la
pubblicità, intesi come veicoli di informazioni in grado di rendere desiderabile
una scelta rispetto ad un’altra o rispetto all’astensione, risultano fondamentali
per tale strategia.
Anche qui abbiamo un tentativo del cosiddetto “globale”, quindi, di sottomettere
il “locale”, inteso anche come persona.
In più, oltre ad essere minacciate, queste nuove forme di libertà e di
indipendenza sono oggetto di relazioni di potere globali che non subiscono
alcun controllo da parte dei cittadini, proprio perché, essendo globali,
si disperdono a livello transnazionale attraverso scambi economici e sociali
complessi, che non forniscono punti di riferimento precisi. Si crea quindi
una situazione per cui si percepisce una forte interferenza sulla propria
libertà di scelta, ma nel momento in cui si cerca di metterla in discussione
ci si trova di fronte a forme di potere opache, poco tangibili, diffuse
nello spazio, che non consentono nemmeno un tentativo di razionalizzare
la situazione asimmetrica che si sta vivendo. Questa mancanza di punti
di riferimento sicuramente è un fattore di forte instabilità che fa sentire
consumatori prima che persone e cittadini e perlopiù consumatori quasi
privi di tutela e allo stesso tempo quasi privi di avversari.
Questi contesti di instabilità e incertezza possono essere affrontati
essenzialmente in due modi:
1) STANDARDIZZAZIONE: qui abbiamo il ritorno delle stesse organizzazioni
di potere che propongono all’individuo di gestire la sua nuova libertà,
offrendogli forme vicarie di sicurezza basate esclusivamente sullo scambio
economico. Si verifica quindi un tentativo di convogliare in un’unica
logica di profitto le nuove risorse che egli potrebbe ad esempio utilizzare
in altro modo.
2) LOTTA PER L’AUTONOMIA PERSONALE: le minacce alla propria libertà
ed i contesti di instabilità che si vengono a formare spingono molte persone
a cercare di creare forme di mobilitazione che vogliono valorizzare le
nuove opportunità di scelta a disposizione e che quindi contestano gli
interventi esterni ed “interessati” sulla propria libertà. Ed è proprio
questo tipo di meccanismo che ritengo sia alla base del tipo di partecipazione
politica che caratterizza il Popolo di Seattle.
Riassumendo:
- in seguito ai processi di globalizzazione si creano nuovi spazi di libertà
e di scelta a favore dei cittadini, che implicano un aumento della loro
indipendenza rispetto ai contesti spazio-temporali tradizionali;
- vi è al tempo stesso un tentativo, da parte di organizzazioni di potere,
di far leva su queste nuove opportunità di scelta per imporre i loro interessi
economici;
- si sviluppa in molte persone una risposta individuale contro questi
tentativi che vuole invece cercare di valorizzare autonomamente queste
nuove forme di libertà, ritenendole centrali per il proprio progetto di
vita;
- la nuova libertà diventa quindi una libertà politica che è alla base
della partecipazione politica generalizzata ed eterogenea che caratterizza
il Popolo di Seattle.
Si sviluppa in questo modo un sistema conflittuale che vede, da un lato,
un tentativo generalizzato di porre sotto un esclusivo interesse economico
le nuove opportunità di libertà e, dall’altro, la risposta individuale
e altrettanto generalizzata degli attori che cercano di difendere e al
tempo stesso di costruire queste nuove forme di libertà.
Queste affermazioni sono supportate, nella mia ricerca, dai seguenti dati:
- il potere delle multinazionale è percepito dagli intervistati in maniera
pervasiva, come capace di colonizzare qualsiasi ambito della vita sociale;
- le persone più attive nella protesta in tema di globalizzazione sono
quelle che hanno dai 25 ai 30 anni e che si caratterizzano per una forte
instabilità narrativa (laureati/disoccupati, instabilità professionale,
prolungarsi degli studi) e che quindi cercano nella protesta di lottare
forme di stabilità e di solidarietà;
- questo movimento è un movimento individualista (no privatista), fatto
di persone innanzitutto che si ribellano come tali e che anche nella partecipazione
al proprio gruppo di protesta cercano e ottengono libertà (reticoli sociali);
Il che spiega perché nel Popolo di Seattle ci siano gruppi così diversi,
per il fatto cioè che è in atto un tentativo generalizzato di anteporre
la pura logica di mercato ai bisogni di autonomia degli individui il quale
quindi stimola una risposta altrettanto generalizzata fatta di persone
che si ribellano come tali.
Il fatto che i partecipanti alla protesta siano coinvolti in primo luogo
come persone prima che come studenti o come operai è un tratto caratteristico
della società postindustriale, al cui centro sta un individuo che al tempo
stesso produce e necessita di informazioni.
Per fare un paragone possiamo dire che la società industriale si caratterizzava
per il progressivo intervento dell’uomo sulla natura con lo scopo di ottenere
risorse da destinare alla struttura di una determinata organizzazione
sociale. In questa società il concetto di produzione è il concetto chiave;
semplificando possiamo dire che lo scopo di questo tipo di società è di
fare un vestito bello e comodo.
La società postindustriale o programmata si caratterizza per la definizione
delle informazioni inerenti l’intervento dell’uomo sulla natura. In un
certo senso, grazie anche al progresso tecnologico, qui la produzione
è data per assodata ed il concetto chiave è quello di informazione. Il
vestito non solo deve essere bello e comodo, ma deve essere anche socialmente
desiderabile (marketing e outsourcing). Intorno al vestito vengono così
definite tutta una serie di informazioni adatte a tale scopo e queste
informazioni, per avere il più grande riscontro possibile, si rivolgono
agli individui intesi come singole persone detentrici di bisogni e di
relazioni (che implicano altri e altri ancora…). In questo modo operano
quindi un tentativo generalizzato di interferenza nelle loro scelte, come
abbiamo visto prima, che suscita la potenziale ribellione di tutti coloro
che vengono quindi coinvolti.
Questo però non vuol dire che tutte le persone sono mobilitate contro
le multinazionali, ma piuttosto che queste sono le condizioni sociali
di partenza che favoriscono lo sviluppo di un movimento di protesta eterogeneo
come è di fatto il Popolo di Seattle.
Il fatto poi che una persona si mobiliti in prima persona dipende anche
da altri fattori: la partecipazione a proteste in passato, l’appartenenza
a reti sociali e di movimento, i valori culturali, l’adesione ai modelli
standardizzanti, il fatto che la partecipazione sia considerata il mezzo
migliore per raggiungere determinati scopi.
Tuttavia se abbiamo capito perché persone così diverse si mobilitano,
ancora non si spiega come fanno queste persone ad agire in comune.
SECONDA IPOTESI:
la pratica organizzativa del controvertice consente il reciproco riconoscimento
dei partecipanti alla protesta, attraverso il tentativo di democratizzare
le relazioni di potere a cui sono soggetti.
La pratica del controvertice risulta centrale per questo movimento.
Il movimento è nato da questa pratica e attraverso di essa si è sviluppato
fino ad oggi.
Esaminando la storia di questo movimento si vede come il primo controvertice
non è di certo Seattle, ma risale al 1984 sotto il nome di TOES (The
Other Economic Summit), svoltosi in concomitanza con la riunione del
G-7 a Londra. Anche se l’origine del controvertice probabilmente è da
addebitare al movimento pacifista che, negli anni ’80, fu il primo ad
esempio ad assediare l’istituzione di riferimento che era la Nato a
Bruxelles, insieme anche a Greenpeace che nel 1976 svolse la sua prima
azione dimostrativa interferendo con le attività dell’aversario e riportando
grandi effetti mediatici.
Una prima importante caratteristica di queste prime forme di controvertice
è che per lottare contro l’avversario bisogna spostarsi fisicamente,
che il potere che opera la coercizione non è più a contatto con la persona,
come poteva avvenire nella fabbrica per l’operaio, ma opera da contesti
spazialmente distanti. I processi di globalizzazione iniziano quindi
a farsi sentire quindi.
Dal 1984 i controvertici iniziano a svolgersi più frequentemente e non
si limitano a contestare il G-7, ma si estendono ad altre istituzioni
come FMI e BM; infatti la prima manifestazione di massa che si svolge
attorno ad un controvertice avviene a Berlino Ovest, nel 1988, dove
80000 persone contestano appunto il summit di FMI e BM. Occorre dire
che il proliferare di questi controvertici consente il sempre più frequente
confronto tra i componenti di quella che si avvia a diventare una società
civile globale. I controvertici permettono ai gruppi di protesta, alle
Ong e alle comunità locali di lavorare insieme e di coordinarsi sempre
meglio, dando origine alle prime campagne, come quella promossa in Italia
dal Alex Langer nel 1988: “Campagna Nord-Sud: biosfera, sopravvivenza
dei popoli, debito”.
Arrivando brevemente ai nostri anni, un punto di svolta si ha sicuramente
con Seattle, perché lì la protesta riesce a influire sul fallimento
del vertice del WTO e perché essa riceve una copertura mediatica che
riesce a far parlare di globalizzazione tutto il mondo praticamente.
Abbiamo poi Porto Alegre che segna una svolta autonoma del movimento;
si tratta infatti di un controvertice solo perché mantiene una sfida
temporale con Davos; svolta che si ripete l’anno dopo e che si completa
a Firenze dove l’FSE è il primo appuntamento completamente autonomo
del movimento, che abbandona la fase contro (che a Genova aveva provocato
una forte spaccatura, anche per il problema della violenza) e che abbraccia
così completamente la fase “pro”, di proposta. Svolta quindi non casuale
e coraggiosa, che mostra la volontà di questo movimento di ritrovare
una compattezza nell’affrontare le sfide della globalizzazione.
Ma perché
il controvertice risulta essere così centrale per questo movimento?
La risposta a questa domanda si collega a quanto dicevo prima sul fatto
che con l’inizio dei processi di globalizzazione occorre spostarsi fisicamente
per incontrare il proprio avversario, che infatti è spazialmente distante.
Il controvertice è innanzitutto una chiara opportunità organizzativa,
che consente come dicevo prima alla società civile di confrontarsi attivamente
e di unirsi per perseguire obiettivi comuni.
Ma oltre a questa il controvertice detiene un’altra importante funzione.
Sostenevo prima che la minaccia operata nei confronti delle nuove opportunità
di scelta a disposizione di molti individui appartenenti alle società
contemporanee cosiddette avanzate, provoca condizioni di incertezza
in quanto proviene da relazioni di potere diffuse, opache, estese spazialmente,
che non danno punti di riferimento precisi quindi. Da questo punto di
vista il controvertice diventa l’elemento centrale della protesta, poiché
consente un ricongiungimento temporaneo con l’avversario, con la fonte
di potere che quotidianamente appare invece difficilmente tangibile.
In questo senso il controvertice è l’unica occasione di instaurare un
rapporto sociale diretto con l’avversario per questo movimento e per
i suoi partecipanti.
L’organizzazione del controvertice fa capire bene in effetti cosa siano
i processi di globalizzazione, perché dapprima rende visibile il potere,
recandosi nella città dove si svolge il summit ufficiale per contestarlo
e annullando quindi gli effetti della distanziazione spaziale; mentre
poi utilizza la copertura mediatica globale per rendere il più possibile
note le critiche e le proposte che elabora.
E l’atto di andare al controvertice, l’atto di spostarsi fisicamente
dalla propria città per raggiungere quella del summit e tentare così
di democratizzare la relazione di potere diventa un simbolo di riconoscimento
per i partecipanti, un forte meccanismo di integrazione che contribuisce
a fondare l’identità del movimento, a far sì che nella presa persone
diverse si pensino e agiscano insieme. Partecipare al controvertice,
infatti, significa andare letteralmente a cercare il potere per renderlo
visibile e questo tentativo, mosso dai diversi singoli individui che
compongono questo movimento, sembra generare un meccanismo sociale per
il quale viene riconosciuta, presso gli altri, la stessa volontà di
democratizzare la relazione asimmetrica di potere a cui si è soggetti
e che minaccia l’autonomia della propria libertà personale. Anche se
questa coercizione si svolge in contesti culturali differenti. Tale
meccanismo ritengo possa spiegare come il cosiddetto “Popolo di Seattle”
oltre a superare le diversità che caratterizzano le sue componenti,
è soprattutto in grado di far leva su di esse per sviluppare e rendere
efficace la propria azione di protesta.
Si può parlare in questo caso di un’identità comune di tipo relazionale,
nella quale le persone non si riconoscono per quello che sono, dato
che in questo sono effettivamente diverse e, per molti versi, difficilmente
conciliabili, ma per il fatto di intraprendere una reazione ad un contesto
comune, di sviluppare la stessa volontà di instaurare un rapporto sociale
diretto con l’avversario, per democratizzarne gli effetti sulla propria
libertà individuale. E il fatto di incontrarsi al controvertice simboleggia
proprio questa volontà e contribuisce a cementare l’identità di questo
movimento.
Oltre al controvertice vi sono altre pratiche organizzative che stimolano
questo riconoscimento relazionale, di contesto ed aiutano a mantenerlo:
- l’organizzazione reticolare che caratterizza i gruppi di protesta
e le relazioni tra gruppi, un’organizzazione quindi aperta, non gerarchica,
policentrica che permette di gestire le diversità attraverso forme di
autonomia e di libertà organizzative, sempre rimanendo però in un contesto
comune;
- l’esistenza di gruppi di affinità territoriali che consentono a chiunque,
semplice persona, di entrare in queste reti attivamente e di partecipare
ad un controvertice; il che stimola la diversità oltre che gestirla
solamente;
- l’utilizzo, in alcuni gruppi, del metodo decisionale del consenso,
un metodo che preserva le diversità e il disaccordo attraverso un attivo
lavoro di gruppo e dove, in ultima istanza, il dissenso si esprime all’interno
di una finalità generale comune;
Da questo punto di vista occorre dire che l’organizzazione del movimento
contribuisce notevolmente a gestire con successo la diversità che contraddistingue
i partecipanti.
E’ chiaro però che in determinati momenti di tensione, gestire le diversità
vuol dire mantenere un delicato equilibrio, equilibrio che può rompersi
da un momento all’altro. E’ quanto a mio parere è accaduto dopo Genova
attorno al problema della violenza; non a caso il movimento ha passato
una fase di crisi dopo quegli eventi. Crisi da cui poi lentamente sembra
essere uscito e che vuole a Firenze definitivamente dimenticare. E questo
avviene, è molto interessante notarlo, cambiando strategia, non organizzando
un controvertice, ma organizzando un forum autonomo che si pone soprattutto
in una fase propositiva, che cerca in un colpo solo sia di eliminare
i problemi riguardanti la violenza nei controvertici sia di guadagnare
uno status di soggetto autonomo, cosa che effettivamente è diventato,
a partire dalla prima tappa di Porto Alegre.
Probabilmente non serve più rendere tangibile il potere per criticarlo,
questo lavoro è stato fatto ripetutamente in passato con ottimi risultati
che influenzano notevolmente ancora oggi l’opinione pubblica. E’ in
effetti molto più importante in questo momento superare definitivamente
la crisi, tagliare qualsiasi immagine che possa legare il movimento
alla violenza e rilanciare una nuova fase propositiva, forte della credibilità
acquisita nel lungo percorso che questo movimento ha svolto a partire
dagli anni ’80. E’ ora in pratica di iniziare a raccogliere i frutti
concreti di quanto seminato. E il Social Forum di Firenze dovrebbe svolgere
proprio questa funzione.
In conclusione, questo movimento, per quanto posso dedurre dalla mia
ricerca, è un movimento che si propone soprattutto di cercare di migliorare
il livello e la qualità della democrazia contemporanea, denunciando
come i nuovi spazi della vita transnazionale siano al contempo soggetti
all’interferenza di interessi economici e privati che cercano di affermarsi
attraverso relazioni di potere non legittimate. L’esistenza stessa del
“Popolo di Seattle” mostra infatti, a mio parere, come i processi di
globalizzazione consentono oggi di contestare il modello di sviluppo
mondiale con maggiore efficacia rispetto al passato, stimolando, grazie
all’intervento fondamentale di una società civile critica e attiva,
la nascita di nuove forme di partecipazione e di democrazia.
Marco
Rosi
Ass. Cult. Laboratorio sul Moderno – Trento
E-mail: laboratoriosulmoderno@virgilio.it - www.labmod.cjb.net
Bibliografia
Beck
U., I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione,
Bologna, Il Mulino, 2000
Ceri
P., Dov’è il potere nella globalizzazione?, in “il Mulino”,
396, 2001
Giddens
A., Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna,1994
(ed. or. 1990)
Tomlinson
J., Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale,
Feltrinelli, Milano, 2001 (ed. or. 1999)
No
©opyright !!!
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