03 MAGGIO 2005
Gli americani della Ederle impegnati nell’estirpare
il terrorismo dall’ex dittatura islamica dei talebani.
«Catturare bin Laden? Pensiamo a portare libertà»
«La missione è dura
e ci manca Vicenza»
Il col. O’Hara da 2 mesi in Afghanistan
di Marino Smiderle
Hanno già perso quattro uomini. L’elicottero Chinook è finito nelle spire di una bufera violentissima ed è precipitato, poco lontano da Bagram. Bilancio: 17 morti, di cui 4 provenienti dalla Ederle. Ecco perché la missione in Afghanistan è tutto fuorché una passeggiata, come l’aveva descritta qualcuno confrontandola con la precedente uscita in Iraq. Il tenente colonnello Jerry O’Hara, responsabile del Pao (Pubblic affair office), ha lasciato Vicenza nel febbraio scorso. Dopo un mese di esercitazione in Germania, dove gli americani avevano riprodotto l’Afghanistan per acclimatare i soldati, circa duemila effettivi della Setaf si sono trasferiti a Bagram. Il generale Jason Kamiya ha assunto il comando della Cjtf-76 (Combined joined task force).
- Colonnello O’Hara, quale è lo scopo principale della missione degli "americani di Vicenza"?
«Il nostro compito principale è quello di fornire sicurezza e assistenza per garantire la ricostruzione dell’Afghanistan. C’è bisogno di sicurezza per poter ricostruire, così possono andare avanti tutti insieme. Ogni giorno che passa, è un mattone in più che si mette sulle fondamenta su cui si deve reggere il futuro dell’Afghanistan».
- Dopo queste prime settimane alla base aerea di Bagram, che idea si è fatto del paese?
«Qui si vedono un gran numero di opportunità. Opportunità per il popolo afgano, naturalmente. C’è una gran voglia di ricostruire, si vede nuovo business che sta venendo avanti. Girando per l’Afghanistan si vede che la gente sta credendo in un futuro migliore. C’è ottimismo, e noi dobbiamo creare un terreno fertile perché si trasformi in realtà».
- Come vi hanno accolti gli afgani? E cosa vi chiedono, come prima cosa?
«Le forze americane sono qui da qualche anno, questa è la sesta rotazione di uomini che facciamo per assicurare un futuro all’Afghanistan, un futuro libero dal terrorismo e dalle bande che lo alimentano. Come in Italia, noi qui siamo ospiti: abbiamo una missione da portare avanti ma non dobbiamo dimenticare di essere ospiti del popolo afgano».
- Sì, ma l’accoglienza com’è stata?
«Lavoriamo duro per dimostrare agli afgani che noi siamo qui per aiutarli. Siamo qui per mostrare loro che vivere in libertà è molto meglio di quando vivevano sotto il tallone della regola talebana. I nostri sforzi per raggiungere il risultato sono ancora in corso, e ci vorrà qualche tempo per poter considerare compiuta la missione».
- Dal punto di vista operativo, avete trovato utile l’addestramento svolto a Hohenfels, in Germania?
«È stato un training perfetto. Gli scenari che sono stati ricostruiti in Germania si sono dimostrati identici a quelli che abbiamo trovato effettivamente sul posto, una volta giunti a destinazione. Eravamo mentalmente preparati ad essere trasferiti in Afghanistan già dall’autunno scorso, così quando siamo arrivati il periodo di transizione è stato breve. I soldati si sono lamentati solo di una cosa».
- Di cosa?
«Del cibo. A tutti manca il cibo italiano».
- I soldati americani sono in contatto con Vicenza? E di cosa sentite maggiormente la mancanza?
«Ci mancano le famiglie, ovviamente, ci manca casa. E anche Vicenza è la nostra casa. Sappiamo che la missione è importante, dobbiamo fermare il terrorismo. Questo ci fa andare avanti con convinzione».
- Bin Laden e gli altri terroristi di Al Qaeda dovrebbero nascondersi sulle montagne dell’Afghanistan. C’è anche la loro cattura tra i vostri obbiettivi?
«Non è questione di un capobanda, è questione di prevenire ed estirpare il terrorismo in Afghanistan. Se ci sono 28 milioni di persone che dicono no al terrorismo, i terroristi non avranno chance di influenzare alcunché. La gente ha già detto che è stanca di guerra e oppressione. Hanno scelto la libertà partecipando alle elezioni dell’ottobre scorso: la democrazia consentirà loro di scegliere il futuro che desiderano».
La comunità Usa piange 4 vittime
Una toccante cerimonia le ricorda
davanti a centinaia di commilitoni
(ma. sm.) Non ci stavano tutti all’interno della cappella, poco distante dall’ingresso di viale della Pace. Diverse centinaia di persone, autorità, sia americani che vicentini, si sono date appuntamento per l’ultimo saluto ai quattro soldati della Setaf, morti nell’incidente del 6 aprile scorso. Un Chinook è precipitato a causa di una terribile tempesta: 18 morti in tutto, tra cui 4 amati e stimati membri della comunità americana di Vicenza.
C’era anche il generale B.B. Bell, comandante delle forze armate americane del sud Europa, tra la folla di persone che hanno salutato i 4 soldati. Sascha Struble, 20 anni, Daniel Freeman, 20 anni, Edward J. Murphy, 36 anni, Romanes L. Woodard, 30 anni: questi i nomi delle vittime. Nei discorsi fatti da alcuni commilitoni, sono stati ricordati i tratti principali dei protagonisti, tra le lacrime dei presenti.
C’erano, in particolare, decine di abitanti di Monticello Conte Otto, vicini di casa di Murphy. Il trentaseienne militare americano, infatti abitava là da qualche anno, insieme alla moglie, Barclay, e a tre figli. La notizia della sua scomparsa ha destato profondo dolore in tutta la comunità di Monticello Conte Otto, che si è stretta attorno ai familiari del soldato, nel tentativo di dare un po’ di conforto in questo momento drammatico.
Cerimonia toccante, con sullo sfondo le foto dei quattro giovani soldati, con le quattro paia di scarponi, quattro mitragliatori, quattro elmetti: quel che resta di ragazzi che erano partiti con la convinzione di portare aiuto ad un popolo in deficit di democrazia e libertà.
Fuori dalla cappella, intanto, una pioggerellina battente mimetizzava le lacrime dei presenti.