C’è chi crede sia necessaria e chi propone la tassa pro zingari
di Elisa Morici
Ogni metropoli, città o paesello ne ha almeno uno scavato da qualche parte. Perché di fossato si tratta, ma chi l’avrebbe mai detto che un buco nella terra sarebbe salito alla ribalta delle cronache? Protagonista in tutto il Paese ha innescato scintille politiche, culturali e sociali, ma sul fossato anti-carovane in zona industriale c’è ancora una voce da sentire, quella che poi dovrebbe fare la differenza. Perché la trincea tutela innanzitutto loro, gli scledensi, e non è scontato che approvino.
Hanno chiamato in centinaia le forze dell’ordine per far sgombrare camper e roulotte da ogni parte della città, hanno chiesto condizioni igienico-sanitarie decenti nelle improvvisate aree di sosta e preteso di far giocare i propri bambini in aree verdi sicure e pulite. E ora che la linea dura è scesa in campo si torna a parlare di metodo, che trova consensi pur con qualche riserva.
«Il problema è reale - attacca Costantino Margiotta -, ma scavare un fossato è eccessivo. Si tratta di un intervento razzista e anacronistico. I nomadi hanno tradizioni radicate che fatichiamo a condividere e non si cambiano sotto costrizione; attrezzare aree apposite per la sosta provvisioria potrebbe essere una soluzione: un sostegno per loro e meno fastidio per i residenti».
La parola chiave è proprio “provvisorietà”. Anche Cristina Cumerlato, infatti, guarda con sospetto la trincea e si augura ci siano altri modi per far rispettare la legalità. «Non possiamo cacciarli e basta e sarei forse disponibile a pagare una tassa in più per allestire piazzole dotate di servizi igienici. Solo per le carovane di passaggio pochi giorni, però, perché sarei contraria alla costruzione di vero e proprio campo nomadi».
«L’inadeguatezza del campo nomadi è già stata dimostrata - concorda Filippo Arras -. Le piazzole di sosta potrebbero invece rivelarsi una soluzione percorribile e meno eccessiva rispetto allo scavo di una trincea, che forse è stato un provvedimento esagerato fermo comunque restando la neccessità di dare contegno ad una situazione che stava degenerando».
L’ipotesi del campo nomadi non viene invece scartata da Valentina de Marchi e Rebecca Bulesic, «se ci fosse lo spazio e se tutti i Comuni facessero la loro parte, non solo Schio. Il problema è reale e l’atto di forza rappresentato dal fossato ci voleva, ma deve essere l’inizio di qualcos’altro».
Sì, l’inizio della cacciata di massa, stando invece all’opinione di Simone Formilan che non ha dubbi: «Servono cartelli di divieto ovunque: via da Schio. Ha fatto bene il sindaco, ci voleva la linea dura almeno per cominciare a metter mano a un problema enorme che non sarà facile da affrontare».
«Da che mondo è mondo le “invasioni” si bloccano con i fossati - ironizza Gianni Gonzato -. Non basterà, è ovvio, ma per stare a Schio le famiglie nomadi dovrebbero cambiare atteggiamento e darsi da fare per guadagnarsi come tutti il diritto ad un posto con acqua pulita e tutti i servizi necessari».
E se secondo Nicola Smiderle anche se «il sindaco non meritava le luci delle ribalta per qualcosa che avevano già fatto altri prima di lui», il sostegno resta pieno. «Ma cacciarli non si può, quindi i nomadi dimostrino un certo senso civico e inizino a rispettare le regole».
E ieri la Lega volantinava in centro
Azione sociale sabato contro l’integrazione I no global domenica
(m. sar.) Gli estremi politici affilano le armi in vista di un prossimo fine settimana assai “caliente” sulla questione dei nomadi in zona industriale. Se Azione sociale, il movimento di destra che fa riferimento ad Alessandra Mussolini, annuncia per sabato pomeriggio una mobilitazione con raccolta di firme contro il progetto comunale di integrazione sociale avviato da anni e relativo all’insediamento stanziale della famiglia Helt, la replica arriva da Liberazone, il coordinamento “no global” che per il giorno successivo, domenica 12, prevede un «pic nic impegnativo in via Lago di Misurina», quasi un avvertimento di un possibile ricorso al badile per coprire la trincea anti-roulotte.
«Il fossato scledense è la punta di un “iceberg alto-vicentino” che ha portato il riversamento di intere carovane sul territorio di Schio per l’arroganza xenofoba di alcuni comuni vicini - sostengono i portavoce di Liberazone -. Resta il fatto che l’azione del sindaco di Schio è assolutamente errata e che si contraddice con tutto il lavoro svolto dalla giunta comunale fino ad oggi in merito all’integrazione delle famiglie rom».
Intanto, ieri c’era la Lega Nord a volantinare in centro: «Non è che il fossato sia uno specchietto per le allodole in vista della realizzazione di un vero e proprio campo nomadi a Schio?», è l’allarme lanciato dai leghisti locali.
E una critica all’operato di Luigi Dalla Via viene da un suo collega veneto di partito, il consigliere regionale della Margherita Igino Michieletto: «Non si può rimanere impassibili di fronte al dilagare della “cultura del fossato” proprio nelle amministrazioni guidate da esponenti del centrosinistra. Va comunque detto - aggiunge Michieletto - che i comuni sono stati lasciati soli ad affrontare questa problematica. La giunta regionale veneta, dominata dalla cultura e dal ricatto leghista, ha contribuito al consolidarsi di un clima di rifiuto».
Piazza S. Paolo si tinge di etnico
e i negozi “nostrani” scappano
di Antonella Fadda
Alte Ceccato come un suk, piazza San Paolo come una grande casbah, con le vie limitrofe che pullulano di negozietti dai mille colori, profumi di spezie, di cibi dal mondo. Girando a zonzo tutto parla di Marocco, India, Algeria e Africa del Nord. La presenza massiccia di extracomunitari ha modificato l'aspetto di questa parte del comune di Montecchio, sempre più simile ad un quartiere interraziale di New York, sempre meno ad un angolo di Nordest, con i commercianti locali che alzano bandiera bianca e abbandonano le attività.
La sola piazza San Paolo conta sette negozi gestiti da stranieri, ma in totale sono molti di più. Ci sono due bar, una macelleria, un’agenzia cambio, due call center internazionali che vendono anche bigiotteria, una rosticceria tipica, un negozio di frutta e verdura, due minimarket ed anche una videoteca nella quale si possono acquistare anche abiti. Anche gli orari di apertura e chiusura non corrispondono a quelli italiani, rimanendo aperti ben oltre le otto di sera.
C’è da considerare, inoltre, che il quartiere ha un’alta percentuale di abitazioni affittate o vendute agli stranieri. In via Galilei, accanto al kebab, è presente una piccola moschea, ritrovo, serale di extracomunitari. La piazza antistante la parrocchia è diventata ritrovo e passeggiata di famiglie indiane e bangladesi che là si incontrano a scambiare quattro chiacchiere mentre i bambini giocano. È molto facile trovare gli imam che discutono di religione con altri uomini, nonché bambine, a capo velato, che giocano.
E gli italiani? Molti negozianti hanno preferito chiudere definitivamente oppure trasferirsi nelle nuove costruzioni sorte in viale Ceccato, ed altri stanno meditando seriamente uno spostamento altrove. «Senza voler dare alcuna connotazione razziale devo ammettere che non sono contento - afferma il sindaco Maurizio Scalabrin - In piazza San Paolo c’è la parrocchia di Alte con tutta la sua importanza religiosa e non. Sicuramente non stiamo sottovalutando il problema, ed avremmo preferito che gli esercizi commerciali fossero meno concentrati in poche vie, anche per favorire una maggiore integrazione».
Il sindaco non nasconde la sua preoccupazione e conclude: «I vigili vengono inviati periodicamente per controllare il rispetto degli orari mentre l’Ulss si occupa degli operatori del settore alimentare. Ma naturalmente non possiamo obbligarli a spostarsi».