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06 LUGLIO 2006
I “disobbedienti” al Dal Molin contro la caserma
Protesta in via S. Antonino di Federico Ballardin Sono tornati in piazza, anzi, nel piazzale davanti all’aeroporto civile, in via S. Antonino. Sono gli esponenti del “no” all’ampliamento della presenza americana in città che alla vigilia dell’incontro del comitato paritetico a Roma hanno organizzato una protesta collegata a filo diretto con quella in atto nella capitale. Sì, perché nella città della lupa è stata organizzata una conferenza stampa cui hanno partecipato, oltre a Verdi e Comunisti italiani, anche i rappresentanti di cinque comitati di quartiere di Vicenza. Con loro avevano una petizione con settemila firme raccolte, dicono, in soli sette giorni. Erano “capitanati” da Olol Jackson che, tramite i microfoni di radio Sherwood, ha spiegato ai vicentini presenti al Dal Molin come l’incontro romano sia stato indetto per sensibilizzare anche la stampa nazionale al problema delle servitù militari. Alla conferenza erano presenti anche il comitato contro Camp Derby (Pisa) e la Maddalena (che ha vinto la sua battaglia). A Vicenza intanto, di fronte all’entrata dell’aeroporto civile, circa duecento persone tra “disobbedienti” vicentini, Rdb Cub, Arciragazzi, Comunisti Italiani, Verdi e più in generale i simpatizzanti del Comitato contro le servitù militari, mettevano in piedi la seconda manifestazione di piazza contro la presenza Usa a Vicenza dopo quella di lunedì in piazza Castello. In sintesi la contestazione, con slogan gridati al megafono e striscioni appesi lungo il muro, serviva a contestare la caserma che dovrebbe essere edificata all’interno dell’aeroporto e l’arrivo di altri 2 mila soldati. Provocatoriamente gli organizzatori hanno indetto un concorso di idee su come si potrebbe utilizzare altrimenti l’area dell’aeroporto che dovrebbe essere ceduta agli americani. Le ipotesi che circolavano ieri erano quelle di creare un’area da dedicare ai grandi concerti e alle manifestazioni culturali e sportive, come il concorso di Equitazione che si tiene al parco Querini.
Oggi si riunisce la commissione del ministero della Difesa per esaminare il progetto di G. M. Mancassola Da oggi l’epicentro delle decisioni sul progetto di costruire una nuova caserma americana all’aeroporto “Dal Molin” è stabilmente spostato a Roma. Nel palazzo del ministero della Difesa è programmata la riunione della commissione ministeriale chiamata ad esaminare la fattibilità del progetto sotto tutti i punti di vista tecnici. Al vertice prenderanno parte anche una delegazione della Provincia e una del Comune. A capo di quest’ultima ci sarà il sindaco Enrico Hüllweck, accompagnato dall’assessore ai Trasporti Claudio Cicero e dal presidente del consiglio comunale Sante Sarracco. E proprio Hüllweck, dopo giorni trascorsi in trincea sotto le cannonate di chi la caserma non vuole, esce allo scoperto e passa al contrattacco. A lungo, infatti, il capo dell’Amministrazione è stato indeciso se prendere o meno parte al gruppo di lavoro. Nonostante lettere e sollecitazioni, il sindaco lamenta il fatto di non aver ancora ricevuto risposte dal Governo alla richiesta di avere informazioni precise su eventuali accordi e la documentazione relativa. La missiva di Hüllweck al premier Romano Prodi è datata 12 giugno. «A questa lettera risulta non essere giunta a tutt’oggi alcuna risposta né da parte del presidente del Consiglio dei ministri, né da parte di altro rappresentante del Governo italiano», è la constatazione che il sindaco esprime nero su bianco in una seconda lettera, indirizzata al presidente del Consiglio Prodi e agli enti coinvolti nella riunione di questa mattina. «Nonostante l’inopportuno silenzio di parte governativa - incalza Hüllweck - giungeva all’amministrazione comunale un invito a partecipare a un incontro promosso a Roma con la partecipazione di Enac, Provincia, ministero dei Trasporti, stato maggiore della Difesa, stato maggiore dell’Aeronautica e ambasciata degli Stati Uniti, per affrontare iniziali analisi tecniche di fattibilità circa l’ipotesi di trasferimento all’aeroporto Dal Molin di un contingente militare Usa». Nonostante «l’inopportuno silenzio» romano, Hüllweck alla fine ha deciso di volare a Roma, dove è intenzionato a dare battaglia, per difendersi dalle accuse piovutegli contro in queste settimane, in particolare da quella di aver taciuto alla città sullo stato di avanzamento dei presunti accordi e del progetto. Così Hüllweck comunica ufficialmente a Prodi che la sua presenza al tavolo tecnico è «dettata da senso di responsabilità e da desiderio di tutelare gli interessi della comunità vicentina» e «non esonera il Governo dal rispondere ai precisi quesiti posti in merito alla vicenda, ponendo fine a una spiacevole e controproducente latitanza di informazioni». E nemmeno nel centrosinistra vanno tanto per il sottile contro il sindaco. Ieri le deputate uliviste Laura Fincato e Lalla Trupia, con altri colleghi della maggioranza compreso il vicentino Mauro Fabris dell’Udeur, hanno incontrato i rappresentanti dei comitati che hanno depositato le 7 mila firme contro la realizzazione delle strutture militari americane all’aeroporto berico. La delegazione è stata accompagnata a un incontro con l’on. Roberta Pinotti, presidente della commissione Difesa della Camera. «Noi appoggiamo la protesta dei cittadini - spiegano le due deputate - e la rappresentiamo in Parlamento e al Governo. È bene che il sindaco Enrico Hüllweck e la presidente della Provincia Manuela Dal Lago chiariscano gli antefatti e la loro posizione, invece di pensare di barattare territorio e socialità con qualche campo da rugby».
Fincato: «Non c’è alcun accordo politico con gli Usa» «Questo Governo non ha stipulato alcun accordo con gli Stati Uniti». Lo certifica l’on. Laura Fincato, ulivista vicentina, ieri protagonista a Roma del prologo alla battaglia politica sul futuro del “Dal Molin”. La Fincato (nella foto) ha contattato la segreteria del ministro della Difesa Arturo Parisi, chiedendo chiarimenti all’assistente personale del ministro, l’avvocato Fausto Recchia. Ne è emerso che «non esiste alcun avvallo politico-militare all’operazione di scempio urbanistico e di distorsione sociale-ambientale prodotta dall’accoglienza di oltre 2 mila militari Usa nelle barracks all’aeroporto “Dal Molin”, chiara la deputata berica con la collega Lalla Trupia. Le due esponenti del centrosinistra attribuiscono al sindaco Hüllweck «le responsabilità di questo caos: nessuna trasparenza, nessuna chiarezza e soprattutto distorsione dei delicati equilibri della nostra città». La Fincato ha ottenuto dallo staff del ministro l’assicurazione che alla riunione di questa mattina presenzierà anche un osservatore del Governo, garantito dallo stesso Parisi, che «vuole avere in mano le firme raccolte». Proprio il ministro, sempre oggi, risponderà in aula a un’interrogazione sul caso-Vicenza, durante il “question time” alla Camera.
Le badanti più anziane provvedono a tutto, casa, lavoro e prestiti e su ogni servizio chiedono una percentuale alla nuova giovane arrivata «Dieci euro al giorno per un letto» Come vivono e quale organizzazione accoglie le donne che giungono da noi (e. mar.) Un parco come centro per l’impiego, una gestione sotterranea e clandestina, sfruttamenti e ricatti che si ripetono e una prospettiva che è sempre la stessa: scappare dall’Italia appena si può. Il destino e il presente delle badanti vicentine segue un percorso ormai organizzato come quello del racket o per dirla, come la definiscono loro, «una gestione mafiosa», quasi avessero imparato fin da subito le regole della clandestinità. I numeri innanzitutto. A Vicenza sono stimate circa 7 mila badanti, almeno tremila provengono dalla Moldavia, duemila sono rumene, il resto si divide tra Ucraina, Russia e paesi del nord Africa. Ma a sorprendere è il numero delle badanti clandestine che sarebbero oltre il triplo a sentire le donne immigrate regolarmente nel nostro Paese. Insomma per una badante regolare, ce ne sarebbero almeno tre non regolari. Ed essere o non essere ufficialmente in Italia fa la differenza. Arrivano qui con ogni mezzo, eludendo i confini e i controlli. Il modo più semplice è quello di rifarsi al trattato di Schengen che prevede un visto per permanenza turistica che vale per due settimane. Si tratta di un lasciapassare che in realtà consente di rimanere in Italia quanto si vuole, in attesa che un decreto flussi (mediamente arriva una volta all’anno) regolarizzi lo status. Ma è un vortice che non si arresta perchè l’arrivo delle badanti non si ferma. «Il primo effetto che notiamo - spiega Gabriele Brunetti dell’ufficio immigrati Cisl - è che il mercato è saturo, ci sono più badanti di quello che serve e questa situazione crea in modo inevitabile sacche di irregolarità». Ogni mattina in campo Marzo va in scena il mercato delle badanti, domanda e offerta hanno il volto di donne venute dall’est piene di speranze ma che si devono in realtà scontrare con un mondo duro, fatto spesso di sfruttamento. Maryna, moldava di 39 anni vive a Schio, da due ha trovato la via della regolarità e racconta come si gestiscono le badanti a Vicenza: «Chi ha la fortuna di essere assunto in regolare percepisce mediamente 800-1.000 euro al mese per 36 ore settimanali, domenica è il giorno di riposo e la famiglia, provvede anche a pagare i contributi». Per chi invece assume in nero, sapendo di portare in casa una clandestina la situazione cambia radicalmente. Il “titolare”, spesso figlio dell’anziano da accudire, può fare e disfare come vuole della vita di una badante. «La paga è sempre la stessa - spiega Maryna -, si aggira attorno ai 700-800 euro ma il trattamento è diverso. Si lavora 24 ore su 24 e quasi sempre non ci si limita a seguire l’anziano. Io ad esempio, dovevo fare la governante, pulire la casa, coltivare l’orto, fare da mangiare, cucinare perfino le torte. Non potevo uscire di casa, nessuna ora di permesso e la mia stanza era il ripostiglio della casa dove sono riuscita a ricavare delle mensole dove mettevo la mia roba. È stato un inferno, ma almeno ho trovato una famiglia che non mi ha lasciato per strada improvvisamente. Sì, perchè accade anche questo». Il percorso delle badanti che arrivano a Vicenza e in Italia dopo due, tre giorni di viaggio è comune a molte. Arrivano qui dai Paesi dell’est dopo aver contattato amiche, parenti o amiche delle amiche. “Sbarcano” con il pullman a Padova o Brescia e da lì dei pulmini smistano le badanti verso le città del Veneto e della Lombardia. Ma è a Vicenza dove il rapporto anziani-badanti è tra i più alti d’Italia. Queste donne al loro arrivo alloggiano negli appartamenti delle colleghe più fortunate. Sono costrette a dormire sui pavimenti di cucine e corridoi o condividere stanze con tre, quattro donne. Tutto ha un prezzo, si paga anche dieci euro al giorno solo per poter posare il capo, il vitto è extra. Di solito la badante più anziana, quella che è qui da più anni, procura il lavoro alle nuove arrivate e sullo stipendio pretende una percentuale di circa il 10%. Sono soprattutto le rumene, le prime ad essere arrivare fin qui, a gestire la presenza delle badanti e a ricavare soldi dalla loro permanenza. Ma questo è solo uno degli aspetti del mercato del badantato a Vicenza, perchè il resto è in mano al racket della prostituzione. Il motivo è sempre lo stesso. Essere arrivati in Italia, a Vicenza può costare fino a 4 mila euro alle donne che sono scappate dalla miseria e dalla disperazione. E quei soldi prima o poi devono essere restituiti. In tutti i modi. «Alcune ragazze, magari le più giovani e belle finiscono per andar a lavorare nei locali di lap dance, altre prima fanno un periodo sulla strada e poi se ci riescono si prostituiscono sui locali notturni del Veneto o del nord Italia. Per loro spesso è una conquista perchè almeno non rischiano di essere aggredite», racconta Maryna. «Ma il mercato della prostituzione - insiste la donna - spesso inizia nei paesi dell’est, sono tanti gli uomini che arrivano per reclutare nuove ragazze, promettendo loro di tutto. Un lavoro, una casa, perfino di sposarle. Quando in un paese povero, dove un operaio guadagna 200 euro al mese, ci sono persone che in una cena galante spendono per queste ragazze la stessa cifra, è facile per molte di loro credere alle promesse».
Le storie delle moldave che dopo anni in Italia si sono sistemate (e. mar.) «In quella casa sono stata trattata come una schiava». «Se potessi tornerei in Moldova, ma non ho neppure i soldi per farmi la spesa». «Io ce l’ho fatta, all’Italia e alle famiglie che ho trovato devo molto, io qui sto bene». Sono Giulia, Lylia e Ola, a parlare della loro esperienza a Vicenza, ma anche Brescia, Padova e Mantova, tre donne che accarezzano un sogno: tornare nella loro patria, nella speranza che risorga il paese figlio della “madre Russia”. Sono arrivate qui con le solite agenzie che a tutto provvedono, basta pagare. Tre, quattro-mila euro per un passaporto falso, un posto su un furgone a otto posti e un viaggio della disperazione. Arrivate quando avevano trent’anni, dieci anni dopo la fatica si vede più negli occhi che nel volto che nasconde le rughe. Si sforzano di sorridere, ma basta che la voce si accenda per far emergere la tristezza e la malinconia. Le moldave a Vicenza, si concentrano nell’Alto e Ovest Vicentino e in città, fanno parte di un popolo che si mescola in un altro popolo, quello dei migranti. «Appena arrivata, dieci anni fa - racconta Giulia - mi ricordo solo di aver passato la notte a casa di una donna bulgara che lavorava in una casa di riposo. Avevo una valigia e tre sacchi di nylon, ero arrivata fin qui dopo aver attraversato il confine con l’Austria a piedi». L’impatto per Giulia, ex estetista in un salone di lusso nella Moldavia all’epoca regione russa, alle porte della città di Soroca, è stato tremendo. «Una greca che all’epoca gestiva il lavoro delle badanti mi disse di andare ad Arsiero dove avrei trovato una ricca famiglia vicentina. Dormii nel corridoio per tre mesi, il letto me lo facevo alle dieci di sera prima di dormire e lo disfacevo alle 6 del giorno dopo. Per tutto il tempo curavo una donna di 70 anni malata di Alzheimer, io e lei chiuse in casa. Era vedova, la figlia la vedevo una volta alla settimana, portava le cose da mangiare e le medicine. Io non dovevo uscire, ero clandestina. Guadagnavo 500 mila lire al mese. È stato un inferno». Lylia ha girato mezza Italia per fare la badante: da Lucca a Brescia, da Bologna a Vicenza. «L’Italia mi ha salvato, con i soldi e tanti sacrifici sono riuscita a far studiare mio figlio che adesso si è laureato in giurisprudenza. Ho fatto di tutto - mentre scoppiano le lacrime - e in certi momenti ho perfino pensato di prostituirmi. Sono arrivata che non avevo 30 anni, sola e senza conoscere la lingua. Per fortuna una famiglia in cui lavorava un avvocato di Thiene mi ha dato da mangiare e mi ha aiutato a diventare una regolare. Dopo qualche anno sono riuscita ad entrare in una fabbrica, faccio l’operaia e guadagno molto di più. Ma ricordo ancora quando lavorai per un anno in una famiglia di Vicenza, sempre da clandestina. Lì facevo la governante e mangiavo gli avanzi, ma almeno mangiavo».
La Camera penale e l’associazione di volontariato “Utopie fattibili” promuovono un manifesto Campagna contro il carcere sovraffollato La struttura inadeguata perché sono detenute 300 persone al posto di 150 Una campagna contro il sovraffollamento del carcere di Vicenza dove la situazione, a sentire gli operatori impegnati per lavoro nel penitenziario, sta scoppiando. Al posto dei 150 posti previsti in media ci sono 300 detenuti, con le celle che nella stragrande maggioranza dei casi vedono la presenza di 3 persone in pochi metri quadrati. Per questo motivo la Camera penale vicentina e l’associazione di volontariato penitenziario “Utopie fattibili” hanno promosso una campagna cittadina tramite la pubblicazione di un manifesto che è stato dipinto dall’avv. Paolo Mele senior. «Abbiamo voluto promuovere questa campagna di sensibilizzazione - spiegava ieri mattina l’avv. Lino Roetta, presidente della Camera penale - perché la situazione è arrivata a un limite di grande difficoltà. I detenuti hanno uno spazio di convivenza insufficiente rispetto alle necessità, tanto che vengono meno, a nostro avviso, quei principi che sono alla base dell’ordinamento penitenziario». La pena, com’è noto, ha un valore rieducativo più che afflittivo, attraverso un percorso di cui il carcere è una tappa verso in chi dovrebbe un domani rifarsi una vita tornando libero. Per questo motivo l’attuale situazione penitenziaria vicentina, come del resto nella gran parte delle carceri italiane, è preoccupante agli occhi di chi frequenta per lavoro la struttura. «La detenzione per il nostro ordinamento ha un significato educativo - osserva Roetta -, mentre alla luce dell’attuale quadro questo principio viene sostanzialmente meno. Noi che per assistere i nostri clienti ci rechiamo quasi quotidianamente in carcere, ci rendiamo conto delle estreme difficoltà dei detenuti, quando, come a Vicenza, sono costretti a vivere in tre in pochi metri quadrati». L’avv. Roetta osserva che la situazione negli ultimi mesi è stata aggravata dall’introduzione della cosiddetta Cirielli che per l’esecuzione penitenziaria ha aggravato la posizione di determinate classi di detenuti. «È stata una mazzata. Dobbiamo partire dal presupposto che le carceri esistono - sottolinea il presidente della Camera penale - e che la collettività deve confrontarsi con esse. La gente deve comprendere che un conto sono le ragioni della pena, un altro è il modo in cui la si sconta. Le condizioni di vita sono importanti, così come le possibilità di riscatto e rieducazione da parte di chi per una serie di problemi infrange le regole. Sono convinto che la civiltà di una società la si misura anche da come tratta i suoi detenuti. Ripeto, sono persone che hanno sbagliato, ma il come si sconta la pena ha una sua dimensione che non deve trascendere mai la dignità della persona. Per questo abbiamo lanciato questa iniziativa, di comune accordo con l’associazione di volontariato “Utopie fattibili”, con un manifesto che vuole indurre a far riflettere su una realtà che esiste e va migliorata».
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