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15 SETTEMBRE 2005 dal Giornale di Vicenza
Varato il “Piano abitare”
Casa. Via libera al progetto triennale dell’assessore Piazza, ma niente aumenti Ici per gli appartamenti sfitti di Antonio Trentin Il Comune prende in mano dati, progetti e speranze del problema-casa. Li organizza in un Piano Abitare. E li sforna come binario lungo il quale procedere fino al 2007, anno penultimo dell’Amministrazione Hüllweck-bis salvo eventualità elettorali nel frattempo. Davide Piazza, assessore leghista agli interventi sociali, ha portato ieri all’approvazione dei colleghi di giunta relazioni e tabelle, con una delibera che descrive «in quale misura si modificherà, nel breve periodo e in un periodo più lungo, l’assetto del patrimonio abitativo pubblico» a Vicenza. Riassumendo con i due numeri sostanziali: il Comune vuole spendere 9 milioni e 650 mila euro (tra finanze proprie e mutui) per avere a disposizione 576 appartamenti (compresi nel conto quelli ipotetici dei nuovi piani urbanistici e quelli che i privati affitteranno con incentivi comunali). «La domanda di case popolari resta alta e stabile intorno al migliaio di richiedenti - ha spiegato Piazza dopo il “sì” della giunta, in un incontro con stampa e tivù alla presenza anche del sindaco - e precisamente è oggi di 980 unità. Il Comune riesce ad assegnare finora 100-120 alloggi all’anno. Nel triennio in corso, con questo piano articolato, scritto anche con la collaborazione dell’assessorato all’urbanistica, dell’Ater e dell’Amcps, contiamo di dimezzare la richiesta». Le contraddizioni del panorama abitativo cittadino sono quelle di sempre: alto incremento edilizio, ma costante presenza di marginalità socio-economiche che non ce la fanno a restare con tranquillità nel mercato degli affitti; numero persistentemente alto di case sfitte (2600 attualmente); pressione costante sul Comune per ottenere una sistemazione migliore da parte di molte famiglie; situazione sfratti sotto controllo ma generatrice di ulteriori urgenze. «Interverremo con un piano finanziario che prevede mutui per 2 milioni e 415 mila euro - prosegue l’annuncio di Piazza - e poi 3 milioni e 230 mila euro di ricavi per concessioni Erp e altri 2 milioni e mezzo di euro per cessioni di proprietà nei Piani di zona. Con altre entrate, tra cui 905 mila euro di cessioni immobiliari, per esempio il supermercato e il campo di tennis in Riviera Berica, arriveremo a quegli oltre 7 milioni di euro che rappresentano uno sforzo pubblico notevole». Come si compone il parco-alloggi che il Comune prevede di avere a disposizione? Ai Pomari è già a posto la vecchia trattativa per l’acquisto di 50 appartamenti dagli enti previdenziali pubblici che avevano investito in zona. Le procedure Comune-Ater ridaranno la disponibilità di 188 case. Nel Pp9 l’edilizia convenzionata mette su altri 28 alloggi. Un totale di 130 è conteggiabile tra sicurezze già codificate nei piani urbanistici (10 appartamenti nel Piruea-Cotorossi, 38 nell’espansione immobiliare all’Anconetta) e previsioni variamente fondate nel vicino futuro (40 alla Lanerossi da ristrutturare, 33 alle Ftv, un’ultima decina sparsi nei piccoli Piruea ancora da esaminare). «Naturalmente - avverte Piazza - il nostro Piano Abitare resta rivedibile, se ci saranno scelte urbanistiche diverse da quelle finora previste». Quasi un terzo delle aspettative conteggiate dall’assessorato, e precisamente 180 alloggi, resta infine affidato alle scelte della proprietà immobiliare privata: con i padroni di casa che vorranno mettere in affitto il loro sfitto, secondo i contratti convenzionati con il Comune e incentivati in base alla legge 431 del 1998. Piccolo contorno, di non piccola sostanza, al Piano Abitare: parlando di case è tornato all’attenzione della giunta-Hüllweck il “caso Ici sugli sfitti”; c’è stato contrasto tra gli assessori leghisti agli interventi sociali e alle finanze; la decisione finale è stata di non toccare la situazione attuale e di non elevare fino al massimo consentito (9 per mille) l’imposta comunale. La questione è scappata fuori un po’ a sorpresa e molto involontariamente nella breve conferenza stampa che ieri pomeriggio ha visto presentare la nuova pianificazione triennale del Comune nel settore abitativo. E la domanda è stata: il fisco municipale pesa come potrebbe, oppure no, sui 2.600 alloggi sfitti? Il sindaco ha confermato che l’imposizione aggiuntiva di Ici è stata scartata: «Una decisione - ha spiegato - condivisa dall’assessore Linda Favretto, secondo la quale la varietà di situazioni diverse di case sfitte non permette un’equa applicazione dell’aliquota massima». La Favretto - che da assessore leghista ha già dovuto rassegnarsi, in un paio d’anni a Palazzo, a qualche sgradevole incrudimento del fisco comunale - ha prevalso sul collega Piazza che un’Ici al massimo applicabile l’avrebbe proprio gradita, per recuperare euro alle casse civiche: «Ritenevo possibile l’Ici al 9 per mille sugli sfitti - commenta - anche perché l’applicazione sarebbe stata attenta alle singole situazioni e alla norma che un aumento dell’aliquota è possibile solo dopo almeno due anni consecutivi di alloggio sfitto».
Rispunta il Museo d’arte contemporanea Il Comune lo realizzerà nel giardino Salvi Il palazzo dell’ex Fiera è ritornato al centro dell’attenzione della giunta Hüllweck di Antonio Trentin Dagli anfratti delle memorie municipali rispunta un’idea che già alcune volte - e con più concretezza alla fine degli anni Novanta - si era affacciata nei buoni propositi del Comune: dare a Vicenza un museo di arte contemporanea. Ora tocca all’Amministrazione Hüllweck riubicare nei disadorni palazzi della Fiera di mezzo secolo fa - al giardino Salvi - un’ipotesi di “contenitore” per mostra stabile con annessa “officina” per rassegne temporanee e laboratori di sperimentazione. Il sindaco ha raccontato la decisione politica - presa insieme con la giunta ieri - in un incontro fatto in tandem con Sante Sarracco, presidente del consiglio comunale e primo firmatario di una mozione per il nuovo museo che il centrodestra discuterà presto in sala Bernarda. E dopo un “sì” già sicuro a questo documento consiliare, altamente ottimistiche sono le prospettive a Palazzo: «Sarà pronto entro due anni» promette Sarracco, perché «in fondo sono pochi i lavori da fare su una struttura che già c’è» come osserva Hüllweck. In realtà siamo per ora alle intenzioni, ottime peraltro, perché di stanziamenti per l’auspicata esposizione di arte del Novecento non si parlerà fino al 2007. Il sindaco spera nella sempre citabile “collaborazione con il privato” (banche sensibili, industriali mecenati, appassionati generosi) per reperire i soldi che serviranno e già delinea una Fondazione Museo come organismo gestore della futura struttura tra contrà Mure Porta Nova e corso San Felice («perché pensiamo - dice - a un’integrazione stretta tra gli edifici dell’ex-Fiera e il giardino Salvi»). Racconta Hüllweck che proposte ne ha ascoltate più di qualcuna nei suoi anni con la fascia tricolore: «All’ex-macello di piazza Matteotti, a San Biagio, in corte dei Bissari. L’esigenza di proporre alla città e ai visitatori una buona rassegna che aiuti a distinguere che cosa è arte e che cosa non lo è, nella produzione contemporanea, è un’esigenza che esiste. Ci proponiamo di dotare anche Vicenza di un museo che raccolga opere significative». Il “contenitore” c’è: l’ex-Fiera fa parte di un piano di ristrutturazione-riuso che il Comune aveva studiato nel 1997 e concretizzato nel 1998, nei mesi del commissariamento prefettizio per crisi post-centrosinistra; partner del Comune doveva essere l’AssoIndustriali, che cercava nell’adiacente scuola Giusti spazi ampi per la sua sede e che avrebbe lavorato all’operazione-museo con l’architetto Rafael Moneo; ma già dall’avvento della prima Amministrazione Hüllweck l’accordo si è arenato e da anni l’associazione ha chiuso la vicenda, per cui il Comune è libero di agire. Ma i “contenuti”? Per intanto si resta sul vago. E non è una grande premessa. Quali firme ha in magazzino il Comune, capaci di dare davvero un senso artisticamente e storicamente valido a un museo? Non si sa granché e i politici promotori dell’iniziativa non ne fanno cenno. Ci sono prospettive di prestiti, depositi o donazioni illustri? Hüllweck ne parla ed è una speranza indispensabile, se non si vuole prevedere l’ipotizzato museo come campanilistico raccoglitore solo delle cose vicentine (pittura e scultura) disponibili nel “tesoro” dei Civici Musei o pendenti sui muri degli uffici municipali. Qualcosa è in deposito come “ringraziamento” degli artisti che hanno avuto ospitalità negli spazi comunali, ma non è che siano passati nomi celeberrimi per Vicenza negli ultimi anni. Di sicure ci sono solo due cose. La prima: il nucleo iniziale della collezione permanente sarà la raccolta personale - da un decennio semi-dimenticata e mai valorizzata - che l’editore-scrittore-artista Neri Pozza aveva lasciato in eredità al Comune con la clausola che venisse esposta, lavori suoi e della moglie Lea Quaretti, ma soprattutto quadri di amici di ottimo nome negli anni Cinquanta-Sessanta, compreso qualche bel Vip italiano del pennello. La seconda: insieme con i lavori all’ex-Fiera bisognerà «programmare adeguatamente - come ha avvertito la direttrice dei Musei civici Maria Elisa Avagnina - l’accrescimento delle raccolte, al momento limitate numericamente e di relativa qualità»
È ripreso il confronto tra la dirigenza e i sindacati sul futuro dei 125 dipendenti all’ex Lanerossi Marzotto, rimane la mobilità Il corteo con i sindaci e lo sciopero non aprono spiragli di Marco Scorzato Appeso alle inferriate del cancello di Largo Santa Margherita c’è un cartellone disegnato dalle Rsu di Schio: “E poi la chiamano concertazione”, è la scritta che campeggia sopra ad un fiore stilizzato che ha perduto ormai tutti i suoi petali. L’ultimo che si è staccato porta il nome di “Schio”, quello strappato per metà recita “Piovene”, gli unici ancora attaccati sono “Valdagno” e “Mosilana”, la città della Repubblica Ceca dove l’azienda ha uno stabilimento produttivo. Chiamala “strategia del carciofo”, come l’ha definita Oscar Mancini, segretario provinciale della Cgil, o “della margherita”, la sostanza non cambia: oggi, i lavoratori del gruppo Marzotto si guardano allo specchio e si vedono ad un passo dal perdere il posto. Da ieri, per i 125 dell’ex Lanerossi di Schio questa circostanza è di fatto realtà. Dopo quindici giorni di “agonia” - tanto è trascorso dall’incontro del 31 agosto - l’azienda non ha fatto passi indietro. Non è ancora stata formalizzata, ma la procedura di mobilità è l’unica soluzione nelle corde della dirigenza. Sarà questione di giorni, se non di ore. «L’azienda ha ribadito di ritenere ormai chiuso lo stabilimento di Schio - dice Mario Siviero, segretario provinciale della Cisl Femca - ormai non è una questione di merito ma di tempi, che potrebbe però rivelarsi sostanziale: se prima dell’apertura della mobilità il ministro Maroni costituisse un tavolo di discussione, molte cose potrebbero cambiare». «È questo il nostro filo di speranza - aggiunge Antonio Visonà, della Uilta - l’azienda non ha ancora formalizzato la mobilità». Una speranza ridotta al lumicino, e non è certo ciò che sperava il sindacato alla vigilia: «Noi abbiamo chiesto la non apertura della mobilità - dice Maurizio Ferron, della Cgil Filtea - e che si utilizzino gli ammortizzatori sociali. Il contratto di solidarietà sarebbe la soluzione migliore, ci consentirebbe di prendere tempo per individuare delle soluzioni occupazionali di lungo periodo». Ci credevano, le maestranze, riunitesi ieri mattina davanti allo stabilimento valdagnese. Il loro presidio inizia alle 10 del mattino: più di 200 persone, tra lavoratori di Schio, colleghi di Piovene e di Valdagno, che scioperano per due ore. Partono in corteo verso lo stabilimento di Maglio, scortati da una trentina tra agenti della questura e militari dell’Arma, che bloccano per circa un’ora il traffico lungo la provinciale. A Maglio, una delegazione di quasi quaranta operai ottiene il via libera per salire negli uffici della “divisione moda” di “Valentino Fashion Group”. La missione è “stanare gli impiegati”. E in parte riesce: qualcuno spegne il computer e si unisce agli scioperanti. Altri continuano a lavorare e c’è chi sbotta: «Non siamo più della Marzotto». «Uscite per solidarietà, siamo sulla stessa barca - è la replica - il management è ancora lo stesso». C’è rabbia e anche paura nelle voci dei lavoratori: «Non possono trattarci come pezze - dicono tre ragazze, tra le 21 che hanno salvato il posto a patto di trasferirsi da Schio a Valdagno, firmando una clausola che dà all’azienda la possibilità di mandarle anche a Mosilana -. I nostri nomi? Non li diciamo, non vogliamo finire nella lista dei futuri esuberi». È una frase sulla bocca di tutti. La sentono anche Alberto Neri e Luigi Dalla Via, sindaci di Valdagno e Schio, che arrivano intorno alle 11,30. Scambiano qualche battuta coi lavoratori mentre ritornano a Largo Santa Margherita. Lì, attendono notizie dal fronte della trattativa. Ma alle 14, quando il presidio finisce, tutto tace. I dirigenti aziendali Stefano Sassi, Massimo Lolli e Antonio Perin sono al tavolo con i rappresentanti sindacali: ci sono i segretari nazionali, Sergio Spiller della Cisl, Teresa Bellanova della Cgil e Pasquale Rossetti della Uil, oltre ai delegati locali Siviero, Ferron, Visonà, Renato Omenetto, Graziano Besaggio e Giannino Rizzo. Si alzano soltanto alle 17,30. «È andata male - dice Visonà - ognuno è rimasto sulle proprie posizioni. Prima di andarcene abbiamo fatto un ultimo appello all’azienda, che ci ripensi. Per quanto riguarda il piano industriale ci è stato abbozzato qualcosa, ma è poco: dicono che Valdagno è “strategica”, ma non vorrei fosse solo tattica: anche quando chiusero Manerbio avevano rassicurato rispetto agli altri stabilimenti». «L’azienda vuole la mobilità per cessata attività a causa della crisi - conclude Siviero - questo le consente di chiedere la cassa integrazione straordinaria per 12 mesi e di attivare procedure di reinserimento lavorativo all’esterno del gruppo». Vale a dire niente reintegro a Valdagno, né altrove. Anche se ormai il dado aziendale è tratto, sul fronte sindacale continua a prevalere la cautela: «Vediamo se partono le lettere della messa in mobilità - aggiunge Ferron -. Solo allora sarà “rottura” coi lavoratori e vedremo il da farsi. L’ineluttabilità della chiusura non è una risposta che accettiamo». Oggi c’è un’assemblea dei lavoratori a Schio, la settimana prossima a Valdagno con le Rsu e i segretari nazionali di categoria di Cgil, Cisl e Uil. E l’idea dello sciopero generale, che pareva essere solo un’ipotesi, sta prendendo contorni sempre più concreti.
L’azienda è decisa e non torna indietro (ma. sm.) La Marzotto ha illustrato i dettagli del piano di rilancio, ha garantito che Valdagno rimarrà il nucleo fondamentale del gruppo, ha spiegato che bisogna partire subito ma non ha accettato compromessi su un punto: la Lanerossi di Schio. Per Stefano Sassi, direttore generale (e prossimo amministratore delegato) di Marzotto, quegli stabilimenti vanno chiusi. Solo così, secondo il management dell’azienda tessile, si potrà guadagnare in fretta la competitività necessaria per rimanere sui mercati da protagonisti. Nel corso del lungo, e a tratti vibrante, incontro con i sindacati, i dirigenti della Marzotto non hanno ceduto sul punto cruciale della trattativa: l’apertura della procedura di mobilità. Cgil, Cisl e Uil hanno pressato per cercare trovare una gestione alternativa degli esuberi, magari con qualche passo indietro dell’azienda. Dal canto suo, la Marzotto si è detta disponibile, una volta aperta la procedura di mobilità, a cercare di attuare tutti gli ammortizzatori sociali possibili. Ma il succo del discorso è sempre quello: della forza lavoro della (ex) Lanerossi, 125 dipendenti saranno messi in mobilità e 21 sono già stati reimpiegati a Valdagno. Le proposte alternative dei sindacati, tendenti a virare sui contratti di solidarietà e a coinvolgere maggiormente le istituzioni. La Marzotto ha trovato fumosi questi tentativi di prendere tempo e, con garbo, li ha rigettati. In compenso si è detta disponibile a fare tutto il possibile perché, durante la fase di mobilità scattino tutti gli ammortizzatori sociali e vengano attivate le procedure per facilitare il ricollocamento del personale in esubero in altre realtà. Dal punto di vista tecnico, non è che da oggi quegli operai siano da considerare licenziati. Per 75 giorni rimarranno ufficialmente in organico alla società, dopodiché le alternative sono due: o si sarà trovato un accordo tra impresa e sindacato sulle procedure da attivare, e poi saranno attivate; oppure si andrà allo scontro, ma decorsi i 75 giorni l’azienda è comunque legittimata a procedere con i licenziamenti collettivi. Da parte sua, la Marzotto fa sapere che non intende affatto interrotta la trattativa. E che anzi, nei prossimi giorni, i dirigenti sono pronti a discutere sugli eventuali ammortizzatori sociali da attivare, sul modo di gestire il periodo di mobilità ecc. Ma è chiaro che la sostanza è dura: indietro non si torna. E per 125 persone non ci sarà più posto all’interno del gruppo. Sono decisioni difficili da prendere, e si sa che il presidente Antonio Favrin non le ha prese a cuor leggero. Però il mercato, è convinzione di Favrin, impone queste scelte. I dipendenti di Nova Mosilana prendono uno stipendio circa dieci volte inferiore ai colleghi scledensi e valdagnesi e la produzione è di ottima qualità: siccome il mercato non è un’opinione ma una bestia con cui ci si deve confrontare quotidianamente, o si punta alla competitività o si va fuori. E si chiude baracca. Il piano che Sassi ha presentato ieri ai sindacati lascia intendere che Marzotto ha intenzione di ripartire con il piede sull’acceleratore. I risultati degli ultimi esercizi dimostrano, dal punto di vista dei bilanci, che la strada è quella giusta. Per proseguire bisogna però lasciare al suo destino la storia (Lanerossi) e pensare al futuro. Per i 125 che perdono il posto queste considerazioni non sono certo consolanti. Resta da capire se i sindacati vorranno chiuderla qui o se, invece, avviare una stagione di scioperi e proteste.
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