Pavin: «Dopo Ya Basta c’è stato un salto di qualità. Non più solo il “Capannone” ma anche azione
sul campo sociale e politico»
(e. mar) Quasi che i “disobbedienti” abbiano messo la testa a posto. Antagonisti lo sono ancora, certo, ma non è chiaro a cosa, in una fase di transizione dove le certezze non ci sono più. E come se non bastasse quel centro sinistra che quattro mesi fa gli ha chiesto i voti (determinanti vista la vittoria risicata), oggi li ripudia. Non nelle parole, piuttosto nei fatti.
I Cpt rimarranno aperti, la Bossi-Fini non è all’ordine del giorno, e poi, cosa ancora più grave, la spedizione in Libano. Un’onta ideologica per chi aveva appoggiato il pacifismo bertinottiano.
E allora cosa resta, dopo che il movimento “no global” è morto e l’onda lunga di Genova si è stagliata per sempre sugli scogli della politica di governo, fin troppo corretta per il fu Social Forum?
Resta l’attività, magari dentro e fuori un capannone di provincia, spazio autogestito ma che poco ha a che spartire con gli anni dell’occupazione no global. La politica, secondo i ragazzi del Centro sociale autogestito, spaccato del radicalismo made in Vicenza, si può fare lo stesso. Con l’analisi, i dibattiti, il confronto e lo sguardo alle cose che accadono vicino e lontano da casa.
«Le banlieu parigine non sono poi così lontane», spiegano i ragazzi del Capannone sociale «certi fenomeni sociali si possono verificare anche qui da noi». E allora il no global pensiero è soppiantato dalla glocal analisi, quella che mette insieme zapatisti messicani e americani al Dal Molin. Uno sguardo al mondo e un’azione a casa nostra.
Bando al movimentismo, per ora, e largo alla politica, fuori dagli schemi e dalle imbragature partitiche, non c’è nemmeno da resistere più, visto che gli stessi ragazzi del Centro sociale affittato ammettono: «Il castrismo? Uno sbaglio».
Finiti i tempi dello Ya Basta, posate le armi della contestazione contro Hüllweck e Bush, oggi i ragazzi del “Nuovo Capannone sociale” di via dell’Edilizia a Vicenza, fanno i conti con affitti e costi di una struttura che costa 30 mila euro all’anno. E oltre a pensare a come mandarla avanti, c’è da progettare, organizzare, agire.
«Siamo una rete che interviene su più temi - spiega Francesco Pavin uno dei responsabili del Centro sociale -. Siamo dentro al Comitato contro le servitù militari che fa parte del fronte del “no” al Dal Molin, alcuni compagni lavorano allo sportello immigrati, altri si occupano di cooperazione sociale».
Presenti su più fronti insomma, ma liberi dai lacci della politica. «Dopo Ya Basta c’è stato un salto di qualità, non più solo un luogo dove discutere, ma azione sul campo».
E i soldi da dove arrivano? «Dall’autogestione, da collette, da forme cooperative e poi concerti e servizio bar. Ma i soldi - spiega Guido Lanaro - spesso ce li mettiamo noi stessi. No, non c’è nessuno che ci finanzia e chi lo afferma mente».
Per i ragazzi del “Capannone”, età media 25 anni, quasi tutti studenti o occupati nelle tante cooperative sociali della provincia, il ricambio generazionale, le adesioni spontanee, non sono mai stati un problema: «I giovani arrivano naturalmente, attratti da un modo di far politica radicale. Qui ci si sente comunità - spiega Pavin - nelle assemblee si discute e si parla di tutto, riusciamo ad affascinare perché siamo liberi».
E se qualche anno fa la disobbedienza era una virtù, di quei tempi rimane un più “diplomatico” dissenso, perfino nei confronti degli ex compagni di lotta come Francesco Caruso, ora parlamentare. «Non ci ha mai rappresentato, quella di candidarsi è stata una scelta personale. Purtroppo nel recente passato Rifondazione ha tentato di ingabbiare il movimento, la strategia di Bertinotti era chiara: creare una base sociale, ma non c’è riuscito, perché i movimenti sono autonomi e vanno oltre».
E ora che la sinistra, anche quella radicale è al governo, i rapporti sono pure peggiorati. «Avevamo chiesto ironicamente di diventare zapateristi se non zapatisti, ma quello che invece abbiamo è un governo che rifinanzia le missioni in Afghanistan e manda le sue truppe in Libano».
Un caos insomma, dove i riferimenti ideologici e politici sono spariti come i ciclici convegni sulla morte di Carlo Giuliani. E neppure la piazza sembra più un luogo da conquistare. Sull’intervento in Libano nessuno che grida il dissenso “stop global war”. «Il fatto è che il movimento è spaccato in due, alla marcia della pace di Assisi - commenta Guido Lanaro - c’era un manifesto che appoggiava l’intervento Onu. Non c’è piaciuto per niente, ma è sintomatico di cosa stia capitando finita l’onda lunga di Genova e dei Social forum».
Eppure i ragazzi del Capannone ci sono a tal punto che quasi si schierano a fianco di Hüllweck sul ping pong con il governo centrale, relativo al futuro del Dal Molin: «Stiamo in basso a sinistra ma ci siamo - scherza Pavin - è inconcepibile che un governo di centrosinistra non dica no alla base Usa, quando a Vicenza tutto il centrosinistra è contrario all’insediamento. Faremo di tutto per bloccare l’Ederle 2».