Case e capannoni, territorio ko
Il Vicentino "cannibalizza" l’ambiente, faticoso invertire il trend
di Antonio Trentin
La campagna diventata in mezzo secolo "residuale" nella psicologia sociale e nell’uso urbanistico, con un’accelerazione eccezionale nel ventennio finale del ’900. In ogni parrocchia una zona industriale, perché "piccolo è bello"... e poi ci si accorge che il nanismo pianificatorio è un delitto, anzi un suicidio. I vecchi poli manifatturieri che si riconvertono, ma continuano a mangiare spazio, inglobando come intrusi certi persistenti "relitti" urbanistici né carne né pesce, solo aree malamente superstiti.
E ancora le strade che ci sono, eccome, in quanto servizio (pubblico) reso alle lottizazioni (private), ma restano insufficienti come supporto infrastrutturale allo sviluppo. Le residenze che si frammischiano con le aree produttive e i campi, impastando una poltiglia urbanistica che in certi ambiti (esemplare e studiato il triangolo Cassola-Rosà-Tezze) raggiunge record europei di assurdità. I capannoni poi - i mitici capannoni della passata e presente polemica politica - che da qualche parte, anche nell’Area Berica, punteggiano vuoti le ultime terre non vocate alle manifatture, costruiti lì solo perché c’è la legge Tremonti da far fruttare...
È questo il Vicentino di pianura - e per fortuna montagna e colli abbassano le medie statistiche e confortano un po’ gli spiriti ecologisti - che è fratello gemello del Trevigiano e del Padovano? Sì, è questo. Ricco di imprenditoria, di fervore espansivo e di euro che si trasferiscono nelle tasche di tutti. Malato però di asfissia ambientale fino al punto di convincere proprio il top della provincia che produce, l’AssoIndustriali, a lanciare qualche tempo fa l’allarme sull’assetto territoriale - inteso come problema di saturazione e auto-paralisi - come nuovo "rischio d’impresa". Perché è inutile limare tempi-e-metodi in azienda, se poi oltre il cancello della fabbrica l’intasamento fa diventare un costo il beneficio di produrre in aree fin troppo addensate.
Ha discusso di tutto questo l’Accademia Olimpica, ospite a Villa Cordellina di Montecchio in una mattinata densissima e corsa alla bersagliera, mandata avanti quasi per flash, buona come caparra di un futuro meeting ai quali i politici non possano sottrarsi - com’è successo invece ieri - e nel quale chi conta e comanda venga a dire che cosa dovrà succedere.
C’è stata un’amara parola d’ordine che ha risposto per tutto il tempo di questo convegno montecchiano al quesito iniziale impostato da Gian Antonio Stella, giornalista e saggista del "miracolo Nord Est": «Che cosa c’è di sbagliato qua dalle nostre parti?» : la parola è fallimento dell’urbanistica. E faceva impressione veder assentire col capo, ogni volta che di fallimento qualcuno parlava, un ultraventennale "nume" della pianificazione veneta come il professor Franco Posocco, protagonista di una delle relazioni centrali presentate ai convegnisti.
La realtà, d’altronde, era stata dettagliatamente fotografata nei risultati dell’indagine che ha dato origine all’appuntamento degli Olimpici - rappresentati a Villa Cordellina dal presidente Fernando Bandini e da Marino Nicolini responsabile della classe scienza & tecnica - e che è stata raccontata per la parte metodologica da Nuccio Bucceri e per la sostanza dei riscontri da Natalino Sottani.
Due riferimenti per capire immediatamente il carico patito dal territorio. Primo: in mezzo secolo i vicentini sono diventati 808 mila da 607 mila che erano (il 33 per cento quasi esatto di aumento) mentre la superficie urbanizzata a cemento e asfalto è passata da 8.674 a 28.137 ettari, con il 324 per cento di aumento. Secondo: negli ultimi dieci anni, per ogni vicentino in più aggiuntosi al censimento sono stati costruiti 3600 metri quadrati di case, strade, fabbriche e servizi vari.
«La velocità del cambiamento ha travolto tutti» : Vittorio Pollini, "prof" a Ingegneria di Padova, ha spiegato così quello che è successo nel Veneto. Un "perché" sostanzialmente assolutorio per tre generazioni di classi dirigenti, forse autoassolutorio per gli stessi pianificatori di mestiere, certamente confessato con marcata amarezza.
Ricette da trarre? Pollini ne ha dettata una di deregulation temperata. Piuttosto del "parossismo pianificatorio" ( «la definizione è del "mostro sacro" Oriol Bohigas pianificatore della nuova Barcellona» ) che in Italia affastella uno sull’altro troppi strumenti regolatori, meglio l’accettazione della processualità con cui si esprime lo sviluppo, il suo indirizzo morbido con un mix privato-pubblico di intenti rispettati, la cura delle progettazioni come micro-urbanistica del frammento. Il tutto messo in carico a «un mondo della politica oggi latitante sulle decisioni e sulla capacità di creare consenso su di esse» .
Una via possibile, questa? Posocco ha richiamato con più forza il fattore pianificatorio - dal Piano territoriale regionale di coordinamento alle applicazioni in Province e Comuni - e l’importanza degli enti pubblici «nel riordino e nella razionalizzazione degli insediamenti attraverso il riuso, gli accorpamenti e anche i trasferimenti» : una speranza che per realizzarsi ha bisogno di coraggio degli amministratori e anche di soldi, molti soldi. E chissà se il momento economico è favorevole.
Di sicuro, senza visione prospettica, saranno guai serissimi. Due avvertenze su tutte, tra le altre uscite dal convegno di ieri.
Urbanistica una: arriverà il Corridoio 5 e infrastrutturerà la fascia mediana est-ovest della regione, Vicentino compreso; se non ci saranno pianificazione e articolazione degli insediamenti, avrà effetti-calamita potenzialmente devastanti sull’indotto urbanistico, fino all’incubo di una malvivibile megalopoli centro-veneta.
Politica l’altra, lanciata da Stella echeggiando le riflessioni ascoltate da Giuseppe Covre, già sindaco e deputato leghista, uno dei protagonisti del localismo anni ’90, e dalla presidente della Provincia di Vicenza, Manuela Dal Lago, altra leghista non sospettabile: attenzione al «federalismo sparpagliato» che tanti reclamano. Perché la sussidiarietà trasferisce in basso i poteri, ma non li correda di adeguate difese: «Chi protegge i sindaci?» dalle pressioni per nuove edificazioni tipo «ti porto una fabbrica e duecento posti di lavoro, non puoi negarmi un lotto...» . E perché la tentazione di affidarsi all’Ici e agli oneri di urbanizzazione - cioè all’espansione ulteriore del cemento e dell’asfalto - è in agguato dietro l’angolo di ogni bilancio comunale in difficoltà.
Ripercussioni sull'"oro blu" delle acque
In vent’anni il 40% di aree in più utilizzate per asfalto e cemento
Domande di nuovi insediamenti industriali nel Veneto presentate in Regione dopo il provvedimento del "blocco dei capannoni": 989. Varianti di Prg approvate nel Vicentino alla vigilia delle elezioni amministrative di primavera: 262. Il pressing sul territorio si legge in questi numeri, portati nel dibattito di ieri alla Cordellina da Antonio Verlato, consigliere nazionale di Italia Nostra. Il risultato è quel «3 per cento circa di occupazione di nuovi territori ogni anno, pari al raddoppio dell’urbanizzazione ogni 40 anni» citato da Francesco Framarin come trend in provincia e messo a base del convegno dell’Accademia Olimpica. Con un ragionamento allarmato: una tendenza così, di tipo esponenziale, non è sostenibile e «la cementificazione di nuovo territorio dovrebbe essere consentita solo in cambio della de-cementificazione di altrettanto territorio» . Un’utopia, stanti la natura incoercibile dell’economia, dell’impresa, dell’immobiliarismo, della speculazione?
Nelle tavole pubblicate qui accanto il "giallo" è territorio urbanizzato della fascia centrale della provincia, letto via satellite dalla Land Technology & Services di Treviso, consulente dell’Accademia Olimpica per la ricerca messa a base del convegno di Montecchio.
In meno di vent’anni - dal 1984 al 2002 - in 91 dei 121 Comuni del Vicentino, aree montane escluse, settemila e passa ettari di nuove urbanizzazioni si sono aggiunti ai quasi 18 mila che già c’erano: il 40 per cento in più, con tutte le relative conseguenze. Come quelle sullo stato idro-geologico dell’area pedemontana e della pianura vicentina di cui hanno parlato Giancarlo Dalla Fontana e Giustino Mezzalira, idraulico il primo, forestalista il secondo.
«L’uso del suolo negli ultimi decenni ha sottratto spazio ai corsi d’acqua, lungo i quali l’indice di occupazione delle superfici con insediamenti urbani e industriali corrisponde perfettamente alla media dell’intero territorio: tre volte di più in cinquant’anni. Bisogna restituire questo spazio - ha ammonito Dalla Fontana - per questioni di sicurezza ambientale e di recupero della naturalità» . Ma dove e come realizzare questa restituzione di spazio alle acque di superficie e come riprogettare i corsi d’acqua perché non siano vasi drenanti che trasportano via l’"oro blu" del Vicentino?
La risposta dovrà essere cercata nel "dimenticato" spazio agricolo, uscito dalle prospettive socio-culturali della civiltà contemporanea e ridotto a zona d’occupazione (per residenze, fabbriche, strade): «È nel territorio agricolo che resta possibile l’azione di miglioramento della sicurezza e della qualità delle acque - ha spiegato Mezzalira - con cambiamenti delle colture che consentano di destinare a cassa d’espansione anti-alluvione i terreni; con creazione di invasi e zone d’infiltrazione che aiutino la ricarica delle risorgive, compromessa dalla cementificazione; con progetti di disinquinamento attraverso la fitodepurazione».