Il carcere fa acqua I detenuti? Sardine
Ieri visita di sindacalisti Cgil: «Allibiti»
(s. s.) Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Quando a metà anni Ottanta l’allora procuratore della repubblica Ferdinando Canilli aveva visitato per la prima volta la nuovissima casa circondariale di San Pio X, gli era scappato una giudizio che aveva avuto anche una coda polemica: «Ma questo è un hotel a quattro stelle!». Dopo il trasloco dal vecchio San Biagio molti detenuti avevano protestato perché non avevano gradito di essere stati sistemati in celle con tutti i confort (televisione, un bel bagno, eccetera) ma singole: avevano la sensazione (tutto sommato condivisibile) di essere in isolamento.
Dopo vent’anni proprio l’acqua ha ribaltato, dal punto di vista dell’edilizia carceraria, la situazione a S. Pio X. Dal portone escono (la visita è stata fatta ieri mattina) i sindacalisti della Funzione pubblica-Cgil. Ci sono il segretario provinciale Sergio Merendino, il responsabile Cgil della casa circondariale vicentina Raffaele Divito e Giampiero Pegoraro e Francesco Quinti rispettivamente segretario regionale e nazionale. Sono sbigottiti: «Lì dentro è uno squallore». Più che il sovraffollamento, che ormai da anni è un problema nazionale, li ha colpiti il degrado strutturale: dappertutto infiltrazioni d’acqua piovana, garritte senza tettuccio per cui chi vigila è esposto al sole e alle intemperie, fili dell’alta tensione a cielo aperto, camminamenti nei quali si finisce a bagnomaria. Dice Pegoraro: «Ci è stato spiegato che non ci sono soldi nemmeno per la manutenzione ordinaria, per cui a maggior ragione non ce ne sono per le migliorie. E proprio stamattina in parlamento si stanno discutendo i tagli alla Finanziaria, con previsione di sforbiciate anche al badget per l’edilizia penitenziaria».
Anche la sicurezza è penalizzata. I sistemi antiscavalcamento, che in un carcere dovrebbero essere sempre attivi, non funzionano perché non ci sono soldi per la riparazione-manutenzione, la sala regia dalla quale attraverso i monitor si tiene sotto controllo l’intero carcere è già pronta ma per i “soliti” motivi non è stata ancora attivata, dappertutto ci sono cancelli la cui elettrificazione permetterebbe di spostare personale in altri settori e che invece devono essere aperti e chiusi ancora chiave. Precisa Quinti: «Questa nel Veneto è la quarta visita: indubbiamente Venezia sta peggio, ma la situazione di Vicenza è peggiore di quella di Treviso anche se ha una casa circondariale più vecchia: qui i problemi sono veramente grossi e di difficile soluzione».
Ma quello che è diventato un macigno contro cui il sindacato da anni si scorna è il binomio sovraffollamento-organico insufficiente. Nelle carceri italiane ci sono 59-60 mila detenuti, mentre la capienza sarebbe di 42-43 mila, a Vicenza ce sono 290 mentre il tetto dovrebbe essere di 150. In sostanza nelle celle che dovrebbero essere singole ci sono mediamente 3 persone e il problema del sovraffollamento è aggravato dal fatto che il 40 per cento dei carcerati sono extracomunitari e il 60-65 per cento sono tossicodipendenti. Invece il personale è di 170 unità mentre la pianta organica ne prevederebbe 190-195. Spiega Merendino: «Ma questo è quello che dicono le tabelle del 1992, che noi come sindacato non abbiamo mai accettato» Aggiunge Pegoraro: «Poi nel 1995 ci hanno appioppato anche le traduzioni e i piantonamenti in ospedale, che prima venivani fatti dai carabinieri con il dopppio di uomini che ora possiamo utilizzare noi». Aggiunge Quinti: «E se il governo non interviene, entro fine anno se ne andranno 500 ausiliari, che tramite concorso sono stati dichiarati idonei e stanno già lavorando, ma che non vengono assunti perché non ci sono soldi».
Scontata la mobilitazione. Dopo una manifestazione unitaria a Roma lo scorso 28 settembre a sostegno della piattaforma rivendicativa, il sindacato si prepara a dare battaglia. Intanto la situazione particolare di Vicenza sarà segnalata al provveditorato regionale e al prefetto Tranfaglia.
Il sindaco era andato in visita privata da Alternativa sociale
Hüllweck nella sede “nera” Ultime polemiche e repliche
Quesito in Comune e attacco di Cioni alla «sinistra reazionaria»
Andato a vuoto il tentativo di discuterne in consiglio comunale - l’altra sera, per l’assenza del sindaco - diventerà materia per una futura interrogazione dibattuta in sala Bernarda il "caso" della visita di Enrico Hullweck alla nuova sede di Alternativa sociale (nella foto è con Renzo Piccolo). Era avvenuta sabato scorso, nel pomeriggio delle opposte manifestazioni rossa e nera in centro città, e in Comune si sono fatti avanti con le critiche al capo dell’Amministrazione i consiglieri Ciro Asproso (Verdi), Antonio Dalla Pozza (Ds) e Emilio Franzina (Prc).
Perché questa «legittimazione tributata dal sindaco nella sede unificata dell’estrema destra, “tra cimeli del ventennio mussoliniano e riproduzioni dei giornali fascisti”»? In attesa di una risposta - se Hullweck una volta o l’altra gliela darà - i tre consiglieri d’opposizione hanno già argomentato polemicamente sulle sue giovanili passioni politiche (i «trascorsi missini») e sull’eventualità di «un puro calcolo elettoralistico» fatto per «ammiccare compiaciuto ai nostalgici del fascismo». E insistono: «Che significato dare a questa pubblica legittimazione? Forse una patente d’impunità, consegnata preventivamente alle frange più estreme della destra cittadina? Come può un sindaco rappresentare appieno la città, riconoscersi nelle sue più profonde radici democratiche e partecipare a rituali di rievocazione, di uno dei periodi più nefasti nella storia d’Italia?».
Sull’iniziativa della sinistra in consiglio comunale - e più in particolare sulla precedente richiesta di dimissioni di Hüllweck avanzata dalle segreterie provinciali di Verdi, Prc e Pdci - lancia le sue critiche Alex Cioni, come coordinatore regionale del partito di Alessandra Mussolini (Azione sociale) e portavoce del tandem con Forza nuova che forma Alternativa sociale.
«Si tratta dell'ennesima dimostrazione d'intolleranza politica di una sinistra che con i fatti dimostra ancora una volta di non conoscere nel proprio vocabolario il termine pluralismo delle idee e confronto democratico - sostiene Cioni - Questi personaggi sono degli artisti nel montare le polemiche sul nulla. Imperterriti continuano la caccia alle streghe, vedono fantasmi ovunque e si dimenticano che così facendo non si pongono contro il tanto vituperato sistema, ma come una delle colonne portanti».
«Questi reazionari - conclude Cioni nel nome della "destra rivoluzionaria" - continuano a sbagliare il bersaglio dando così fuoco alle polveri di una inutile e sterile lotta fra opposti estremismi, la quale è funzionale al sistema che questa pseudo-sinistra dice di voler contestare. Noi comunque non cadremo nel tranello, non ci faremo tirare per la giacca di uno scontro che non ha più senso di esistere».
Una raccolta firme per la variante contro le antenne selvagge in città
Ne bastano 500 per una mozione popolare da sottoporre al consiglio comunale
di Chiara Roverotto
Ormai, a forza di seguire i vari comitati sorti in città, un dato è inconfutabile, la nostra salute è irrimediabilmente minata: dallo smog, dalle onde elettromagnetiche dei ripetitori per la telefonia mobile, dagli scarichi delle auto piuttosto che dal buco dell’ozono. Sarà vero? Ogni comitato sforna dati, cifre, studi di università italiane, meglio ancora se americane.
Tutti a dire che servono piani, protocolli d’intesa, direttive precise, che i limiti di ogni sostanza inquinante vengono di norma superati. Alla fine chi si deve rimboccare le maniche dovrebbe essere la pubblica amministrazione. «A cui però molte cose sfuggono, approva regolamenti che poi restano disattesi, visto che la Regione li rimanda al mittente, nomina periti che spesso non sanno nemmeno se verranno pagati con i chiari di luna della nuova Finanziaria».
A parlare è il consigliere dei Verdi, Ciro Asproso e il tema è quello annoso della tutela dei campi elettromagnetici. In città, in questi anni, oltre a sorgere antenne dappertutto, sono nati anche comitati che le osteggiavano. Questi ultimi hanno unito le forze e, ora, lavorano sotto un’unica sigla Co.na.Cem (Coordinamento comitati di Vicenza per la tutela dai campi elettromagnetici) non solo per uniformare gli interventi, ma per fare richieste precise a palazzo Trissino.
La prima: una mozione, ai sensi dell’articolo 12 dello statuto comunale, per la quale serviranno 500 firme di cittadini che dovranno essere autenticate (per cui si potrà firmare nelle sedi delle Circoscrizioni e in Comune, ne sono già state raccolte 300) che conterrà la richiesta di una variante urbanistica «che dovrebbe servire ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti fissi della telefonia mobile, con l’individuazione dei siti per la loro localizzazione, e questo - ha spiegato ieri nel corso di una conferenza stampa l’arch. Giuseppe Maria Padoan - per minimizzare l’impatto elettromagnetico e ambientale, oltre che per adottare provvedimenti diretti a sanare alcune situazioni già esistenti».
Se dovesse passare l’ipotesi della variante i cittadini potrebbero dire la loro, infatti avrebbero 60 giorni di tempo per esprimere un parere. A Vicenza, a tutt’oggi, ci sono circa 150 antenne e un terzo è posizionato in città. «Non solo - aggiunge Mattia Pillan, consigliere della circoscrizione 1 - molte si trovano vicine a luoghi sensibili mentre il regolamento, mai applicato, sosteneva che non dovevano essere installate accanto a scuole, ospedali, parchi pubblici: basta pensare a via del Quartiere, contrà Lioy e zone limitrofe, per capire che tutto questo è stato disatteso. Di fatto da porta Castello fino a Contrà Pescherie il numero di antenne è elevatissino. E se anche le misurazioni fatte dall’Arpav parlano di 2,7 volt per metro rispetto ai limite dei 6 volt per metro non siamo tranquilli e gli studi al riguardo ci danno ragione visto che dicono che già la soglia dello 0,6 diventa pericolosa».
Al riguardo l’avv. Francesco Vettori ha citato studi su malattie causate dalle onde elettromagnetiche provenienti da mezzo mondo. «Non è una questione da sottovalutare, al contrario - ha affermato - anche perché le antenne si potenzieranno sempre di più visto che i servizi aumentano e che la telefonia fissa è destinata a finire in soffitta».
«In pratica il Comune deve per forza rimboccarsi le maniche - conclude Asproso - non bastano i protocolli con i gestori, serve un piano più articolato». «Senza contare - conclude il consigliere Valentina Dovigo - che bisogna accertarsi che i gestori utilizzino la migliore tecnologia possibile, sperando che sia anche la meno dannosa».
Al processo per l’assegnazione della palestra di Laghetto il pm Severi chiede la condanna per il capogruppo di An
«Infliggete un anno a Milani»
Chiesti 9 mesi per il presidente della Nastro Rosso. Le difese: «Non ci sono prove»
di Ivano Tolettini
Quasi mezz’ora di serrata requisitoria del pm Alessandro Severi con la richiesta che gela Luca Milani, giovane capogruppo in consiglio comunale di An, ma sul banco degli imputati come ex presidente del consiglio di circoscrizione 5. «Un anno di reclusione per abuso d’ufficio con la condizionale - chiede Severi -, per avere favorito in maniera sfacciata la neonata associazione Nastro Rosso nell’estate 2002, perché pur non avendo le carte in regola era stata preferita alla consolidata Ginnastica Vicenza che aveva presentato la domanda entro il termine del 15 giugno».
Il pm Severi sollecita il tribunale presieduto da Giuseppe Perillo (giudici Michele Bianchi e Agatella Giuffrida) a condannare anche Mirto Zordan, presidente dell’associazione sportiva Nastro Rosso, accusato di avere dichiarato il falso nell’autocertificazione del 6 agosto 2002. Un falso che sarebbe stato duplice: avere dichiarato che il neonato sodalizio aveva 65 iscritti e che era affiliato al Centro Sportivo Italiano (Csi), quando in realtà l’adesione sarebbe stata deliberata in ottobre.
Ma grazie a questi due falsi, osserva il pm, la Nastro Rosso potè presentare carte formalmente in regola per partecipare a un’assegnazione da cui avrebbe dovuto comunque essere esclusa per due motivi: erano ampiamente scaduti i termini (15 giugno) e il bando prevedeva che in ordine di importanza avrebbero avuto la preferenza le associazioni iscritte alle Federazioni legate al Coni oppure quelle aderenti al Csi. «Ecco perché la Nastro Rosso - aggiunge il pm - non aveva le carte a posto».
La quarta udienza del processo per il presunto abuso d’ufficio contro Luca Milani (difeso dagli avv. Marco Dal Ben e Gaetano Mazzeo) e contro il presidente della Nastro Rosso Mirto Zordan (avv. Ilaria Benedetti), è iniziata con la breve deposizione dell’attuale presidente della “5” Marco Bonafede, 27 anni. «Il modello per la presentazione delle domande per avere in gestione gli impianti sportivi è uguale per tutte le circoscrizioni - ha detto -. Non so se è stato modificato dal 2002, perché si tratta di questioni che attengono agli uffici comunali».
Poi è stato il turno dell’istruttrice Giulia Pruner, 29 anni, alla quale è toccato incrociare i guantoni della dialettica con il patrono di parte civile Lino Roetta (rappresenta il presidente della Ginnastica Vicenza Maurizio Magrin), che ha usato tutte le sue frecce per metterla in difficoltà.
L’avv. Roetta è stato abrasivo con Zordan, il quale aveva esordito dicendo che l’autocertificazione del 6 agosto 2002 l’aveva soltanto firmata, ma non compilata.
In quel luglio accadde che dall’associazione Vicenza Ginnastica presieduta Magrin fuoriuscirono per dissidi le istruttrici Giulia Casarotto, Giulia Fruner, Anna Marin e Marta Fin, che diedero vita alla nuova associazione. Il 5 agosto ci fu la costituzione con atto privato e l’indomani fa richiesta di affiliazione al Csi. Il presidente Milani, denunciò Magrin, perché si sarebbe fatto beffa del regolamento comunale e favorì la Nastro Rosso.
Il pm Severi inquadrando quello che per lui è stato un abuso, ha sottolineato che Milani ha violato in maniera oggettiva il bando di concorso (termine del 15 giugno 2002) e soggettivamente perché ha intenzionalmente favorito la neonata società che presentò 90 iscrizioni vere a ottobre. «Il problema - afferma - lo conosceva bene perché le due associazioni avevano scelto la stessa palestra di Laghetto con i medesimi orari negli stessi giorni. A Milani del caso avevano parlato l’assessore allo Sport Dalla Negra e il difensore civico Buso. Non ha svolto alcuna istruttoria ed ha deciso per la Nastro Rosso».
I difensori Dal Ben e Mazzeo, alla conclusione del processo il 10 febbraio, vorranno dimostrare che il termine del 15 giugno per le preiscrizioni non era tassativo e che la decisione di Milani fu neutra. Per loro non ci sono prove. Riusciranno a dimostrarlo?
Indagini antidroga illegali. La clamorosa inchiesta del pm Giacomelli
Terzo ordine di custodia per un maresciallo dei Cc
Dopo i sottufficiali Menolascina e Marcon, il turno di Mirigliani
di Ivano Tolettini
L’accusa è di essere stati un manipolo di militari fuorilegge. L’inchiesta si allarga e le ordinanze di custodia salgono a tre. Lo scandalo è quello dei tossicomani usati illegalmente dai carabinieri del nucleo operativo di Valdagno, tra la primavera 2004 e quella 2005, come “agenti provocatori” per incastrare presunti spacciatori di droga. Ma è anche il disagio perchè a finanziare i confidenti usati in operazioni illecite era Riccardo Bauce, arrestato per traffico di rifiuti.
Il maresciallo Ignazio Mirigliani, 45 anni, non è ancora in carcere, ma sa qual è il destino che l’attende al rientro in Italia dal Sudamerica dove presta servizio. Gli stessi investigatori dell’Arma incaricati di fare pulizia, guidati dal procuratore capo Ivano Nelson Salvarani e dal sostituto Vartan Giacomelli, gli hanno perquisito l’altro giorno l’abitazione a Trissino. Egli era in missione all’ambasciata italiana di Bogotà in Colombia dopo che qualche mese fa era stato trasferito per punizione a Belluno per i gravi fatti che emergevano.
Mirigliani è il terzo sottufficiale destinatario dell’ordine di custodia cautelare che sta scuotendo il mondo investigativo vicentino. Un simile ciclone per i suoi contorni non era mai avvenuto.
Così nel giorno in cui al San Pio X il maresciallo Francesco Menolascina, 41 anni, accusato di induzione allo spaccio di droga, falso ideologico, favoreggiamento e violenza privata, ha fatto scena muta davanti al giudice Agatella Giuffrida, il braccio destro Mirigliani ha prenotato il biglietto d’aereo.
«La Procura non può tollerare simili abusi di potere da parte di chi è chiamato a far rispettare la legge», ha sottolineato con forza e intransigenza il procuratore Salvarani. L’ha detto illustrando la sconcertante inchiesta per la quale è agli arresti domiciliari anche il maresciallo Andrea Marcon, 48 anni, all’epoca comandante del nucleo radiomobile di Valdagno. È stato coinvolto come esecutore degli ordini impartitigli dai colleghi.
Invece Menolascina, che è difeso dall’avv. Tiberzio De Zuani di Verona, da settembre è dipendente del battaglione mobile di Mestre, anche se dopo l’arresto è stato sospeso. Stessa sorte per Marcon (avv. Lucio Zarantonello), il quale sarà interrogato nei prossimi giorni, e per Mirigliani, atteso a Fiumicino nelle prossime ore. Inoltre, per i tre si aprirà anche l’inchiesta della Procura militare di Padova poiché indossano le stellette.
Sono ben nove gli episodi durante i quali i tre marescialli, secondo il gip Agatella Giuffrida, a vario titolo non avrebbero rispettato la legge sull’uso dei “collaboranti” per attirare in trappola altre persone. È emerso dalle numerose testimonianze raccolte dagli investigatori del tenente Graziano Ghinelli e del luogotenente Lorenzo Barichello.
Il problema di fondo di quest’inchiesta è che in più occasioni individui che non avrebbero spacciato quantitativi significativi oppure, come in un caso, che non avrebbero avuto a che fare con la droga, sono stati spinti ad acquistarla. Quindi venivano arrestati dai tre carabinieri, i quali falsificavano il contenuto dei rapporti ai magistrati dicendo di averli pedinati, mentre in realtà avevano usato come infiltrati esche tassativamente vietate dalla legge.
È il caso dell’arresto di Azzedine Rhabdane, il quale sarebbe stato spinto a procurarsi un chilo di fumo da uno straniero, diventato per sua stessa ammissione una sorta di “pubblico ufficiale”, visto che aveva consentito ripetutamente ai carabinieri di catturare più persone. Oppure dell’arresto il 28 settembre 2004 di Redouani El Yamani, il quale sarebbe stato picchiato selvaggiamente nonostante fosse stato già immobilizzato e ammanettato. «I risultati a ogni costo, con qualsiasi metodo, non ci interessano», ha ripetuto intransigente il procuratore Salvarani.
«Un ragazzo fu incastrato dai nostri»
La denuncia di un militare fedele: «Mi vergognai di essere presente»
(i. t.) «Mi vergognai di essere presente perché ho capito che Cariolato era stato incastrato». A pronunciare queste parole non è una persona qualsiasi. È un investigatore dell’Arma che il 24 settembre di un anno fa era presente all’arresto di Giulio Cariolato, 20 anni, di Valdagno. Quel giorno la squadra di Menolascina - come ricostruisce il pm Giacomelli - adottò lo stesso metodo. Si mette in contatto con uno straniero attivo negli ambienti dello spaccio. «È stato Menolascina a sollecitarmi», confesserà l’immigrato, che dopo essersi messo in contatto con Cariolato, il quale evidentemente qualche spinello con i coetanei lo fumava, gli chiede di fargli una cortesia. Cioè di tenergli 90 grammi di hashish in casa. Evidentemente in cambio di fumo gratis.
Poco dopo, però, entrarono in azione i carabinieri in via Cantore 3. Il ragazzo cercò di difendersi dicendo che la droga non era sua, che gli era stata consegnata da un altro, ma i marescialli Menolascina e Mirigliani non vollero sentire ragioni. Scattarono le manette. Nel rapporto al magistrato di turno, però, non scrissero come le cose sarebbero andate. Parlarono di una fonte confidenziale che indicava il ragazzo come spacciatore di hashish. Anche se in realtà non avevano alcuna prova, salvo quei 90 grammi che lo straniero-infiltrato gli aveva chiesto di tenere in casa.
Il 27 settembre 2004 nell’interrogatorio dal gip Cariolato disse che la droga non era sua. Il giudice, avendo il rapporto dei carabinieri sul tavolo, non gli credette. Il 10 marzo il giovane per chiudere la sua partita con la giustizia patteggiò 1 anno di reclusione e 4 mila euro di multa. Proprio in quei giorni, però, la Forestale nell’inchiesta per il traffico sui rifiuti contro Riccardo Bauce di Sovizzo metteva a fuoco il ruolo del maresciallo Menolascina.
Adesso si apprende, come ha confessato lo straniero, che la droga effettivamente non era di Cariolato ma sua. E il ragazzo per limitare i danni è stato costretto a patteggiare per colpe non proprie. Non è grave tutto questo?
Ecco spiegata la durezza del procuratore Salvarani nel tratteggiare l’attività illegale di Menolascina e dei suoi colleghi. Certo, la presunzione d’innocenza è sacra. Il quadro che emerge è però sconfortante.
A tal punto che uno dei carabinieri che parteciparono all’arresto di Cariolato, rendendosi conto di quello che avveniva, ha sentito il dovere morale e giuridico di testimoniare ai magistrati. «Mi vergognai di essere presente perché ho capito che Cariolato era stato incastrato».