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26 NOVEMBRE 2006
Dal Molin. In 500 in Fiera con i leader del centrosinistra e con il “fantasma” del corteo di sabato prossimo di Antonio Trentin In cinquecento in Fiera, per tenere alta la tensione del No al Dal Molin base Usa: i Comitati di quartiere e quelli politicizzati, lo schieramento dei partiti di centrosinistra con tutti i leader cittadini e provinciali, i capi dei gruppetti antagonisti, la Cgil unico sindacato mobilitato sul fronte dei contrari, i deputati dell’Unione, tutti meno Mauro Fabris, nome in locandina ma presenza alla fine negata. Ieri pomeriggio l’appuntamento non prevedeva novità strategiche da congegnare né comunicazioni politiche da innovare: solo un rinforzo di posizioni di chi a Vicenza e dintorni è da sei mesi attivo per fermare il progetto per l’aeroporto, una riaffermazione di presenza e di ruoli per anticipare l’arrivo, sabato prossimo, di chi il caso-Vicenza l’ha scoperto nelle ultime settimane e rischia di farne deflagrare il già difficile look. «Che non succeda come a Roma la settimana scorsa, quando in nove che bruciavano fantocci hanno monopolizzato l’attenzione dei mass-media, oscurando i settantamila che sfilavano con posizioni serie e motivate» ha riassunto per tutti don Albino Bizzotto, riferendosi alla manifestazione per la Palestina e agli slogan sulle 10-100-1000 Nassiriya. Lui e i suoi di “Beati i Costruttori di Pace” alla manifestazione ci saranno: «Sulla pace serve unità, non distinzioni» ha raccomandato. Il corteo nazionale atteso per il 2 dicembre ha fatto da fantasma sullo sfondo per l’intero pomeriggio convocato all’insegna del “No alla militarizzazione di Vicenza”. Temuto per i risvolti clamorosi che potrebbe dargli l’ala oltranzista no-global. Capace di muovere i non troppo misteriosi e criptici accenni alle divisioni tra partecipanti e non, specie dentro ai Ds, fatti da Oscar Mancini. Atteso per l’importanza nazionale che definitivamente sarà attribuità alla questione vicentina. Deprecato nei suoi rischi possibili, «ma non accettiamo che il vicesindaco Sorrentino continui a gridare “al lupo! al lupo!”» ha detto ancora il segretario della Cgil. Hanno parlato di dati tecnici e di sentimento politico, i diversi interlocutori coordinati da Gianni Slaviero. In sala niente simboli di partito, ma solo striscioni dei comitati, cartelloni con i motivi del rifiuto della base, mappe per mostrare l’impatto del progetto per il Dal Molin e bandiere arcobaleno della pace: una con annesso liòn de San Marco inalberato da un ospite inconsueto, il venetista Franco Rocchetta presente con Fabrizio Comencini della Liga fronte veneto nel nome dell’«autogoverno del territorio». Le voci dei partiti sono state lasciate per il finale: la deputata dell’Ulivo-Margherita Laura Fincato, tornata a spiegare che il ministro Arturo Parisi «non ha deciso nulla e aspetta il parere della comunità vicentina» e disposta a esserci sabato prossimo in sfilata, con la collega Ds Lalla Trupia, «se la partecipazione e le adesioni saranno ampie e se ci sarà la certezza dell’isolamento di eventuali posizioni estremiste»; Severino Galante del Pdci venuto a ribadire che il governo Prodi può cadere solo su due cose, «le pensioni e la politica estera strategica, caso Dal Molin compreso»; la coppia Rifondazione-Verdi al femminile formata da Tiziana Valpiana e Luana Zanella. Giancarlo Albera, capofila dei Comitati cittadini, ha lasciato a tutti la solita speranza, sempre faticosa: «Che sia dichiarato possibile, in Comune, il referendum con cui la città potrà pronunciarsi». Un affar serio dal punto di vista giuridico: a quasi due settimane dallo stop procedurale davanti agli “esperti” che devono concedere (o no) l’okay, ancora non è scritto il quesito riformulato con cui provare a scavalcare l’ostacolo dell’ammissibilità. Vivian analizza i numeri inviati dagli Usa all’Aim Quanto peserà su Vicenza il progettato arrivo della super-caserma americana? In termini di terreni sottratti ai vicentini molto, esattamente 1.320.000 metri quadrati del Dal Molin condizionato dall’insediamento Usa, e però anche niente, perché l’area è demanio militare nazionale e già adesso è un “buco nero” per la città, come lo definisce il sindaco Enrico Hüllweck. Ma in termini di carico residenziale teorico, di consumi energetici e di impatto ambientale quanto varrebbe la presenza dei reparti della 173. Aerobrigata statunitense traslocanti dalla Germania? È esplosiva la risposta a questo interrogativo, data ieri - a suon di cifre nel convegno in Fiera - da Eugenio Vivian, l’ingegnere vicentino diventato probabilmente il massimo tecnico del fronte del No. È come se una città grande quanto Valdagno venisse a impiantarsi con i tubi dell’acquedotto e i cavi elettrici e come se un paesone grande quanto Costabissara aggiungesse le sue caldaie e i fornelli a metano. Vivian non ha inventato niente di nuovo, a dire il vero: ha semplicemente preso i numeri incontrovertibili di Aim su acqua, elettricità e gas dei vicentini e li ha messi a confronto con gli altrettanto incontrovertibili numeri delle richieste presentate alle Aziende (e quindi al Comune) sei mesi fa, giusto quando l’ipotesi del Dal Molin americanizzato sono diventate di pubblica conoscenza. In pratica ha diviso per il carico/utenza medio “nostrano” - cioè quanto ogni vicentino consuma tra rubinetti, interruttori e termostati - il totale dei fabbisogni segnalati dai comandi militari statunitensi al momento di concordare con le Amministrazioni cittadine i contenuti del progetto per la base. Il risultato è il seguente: la parte di Combat Team che si riunificherebbe a Vicenza e gli annessi e connessi civili e militare consumerebbero come 30 mila vicentini per l’acqua, 26 mila per l’energia elettrica e 5500 per il gas. Da cosa dipende questa prospettiva? Dai diversi parametri di consumo (rispetto alla realtà dei consumi cittadini) che le forze armate Usa hanno previsto di doversi garantire. Perché, insomma, acqua, luce e gas corrono nei contatori “americani” molto più che in quelli vicentini. Dalle carte di Vivian si può citare, come esempio, il caso dell’acqua: Vicenza ne consuma 11 milioni e mezzo di metri cubi all’anno; i rappresentanti militari americani hanno preventivato una fornitura minima di 60 litri al secondo e una massima di 260; «tenendo una media pur bassa di 100 litri al secondo - ha spiegato l’ingegnere - fanno 3,15 milioni di metri cubi all’anno». Come se ci fossero, appunto, 30 mila residenti in più che aprono la doccia, cuociono e lavano i piatti, abbeverano orti e giardini, lavano l’auto.
Deiana (Prc): «Parisi alla fine dirà no» Si può fare una crisi di governo per un Sì alla base Usa al Dal Molin? Tornando da Roma, l’altro giorno dopo l’incontro dei Comitati del No con Arturo Parisi, qualcuno dei vicentini colloquianti al ministero ha rifatto balenare l’eventualità. Davvero può succedere? Girata a Elettra Deiana, deputata di Rifondazione e vicepresidente della commissione Difesa della Camera, la domanda ottiene in risposta parole battagliere, ma anche di evidente consapevolezza che tutto è per tutti molto difficile. La Deiana racconta che di Dal Molin parla ogni volta che può, durante l’indagine conoscitiva parlamentare in corso sulla servitù militare: «L’ho fatto tre volte, con i tre interlocutori che abbiamo avuto». Cita la strategicità dell’insediamento chiesto dagli americani, appena verificata nella Settimana dei Parlamentari dei Paesi Nato alla quale ha partecipato: «Il ridispiegamento delle forze Usa è in funzione dell’intervento possibile sugli scacchieri dell’Africa, del Centro Asia, del Medio Oriente». Conferma che la posta politica messa in gioco è alta: «Dare l’avallo a una base sarebbe un potente appoggio a questa strategia. Il progetto è un’eredità pesante del passato governo e su questo c’è confronto». Ma tanto confronto fino a minacciare o fare una crisi, da parte della sinistra dell’Unione in caso di un “via libera” alla base? «Si tratta di materia da crisi, ma sulle opportunità politiche non mi pronuncio» dice ancora la deputata. E il ministro, che cosa farà? «Cercherà di tirare avanti». Per arrivare dove? «Alla fine dirà di no». Dario Fo, Chomsky, Ovadia e Rigoni Stern: quattro No Un premio Nobel che fa da sempre politica militante. Un intellettuale americano pacifista e iper-critico verso il sistema “imperiale” del suo governo. Un protagonista di testi, arte scenica & spettacolo che va per la maggiore negli ambienti colti italiani. E il cantore di uomini e boschi dell’Altopiano appena scelto dalla Regione per fare da “radice vivente” della storia montana veneta. Sono i quattro testimoni illustri che ieri sono arrivati - in video o per lettera - a dare il loro appoggio al No sul Dal Molin base militare Usa. Il primo, naturalmente, è Dario Fo: «Sono con voi che vi battete» ha garantito agli anti-caserma riuniti in Fiera. E ha scritto poche ma accese righe contro la cementificazione delle città, le servitù militari «che rubano una parte di territorio», l’adesione tramite il “via libera” a nuove strutture militari all’«ipocrita dottrina dell’esportazione della democrazia con le armi». Il secondo è un nome che non dirà nulla ai più dei vicentini che si occupano di Dal Molin, ma che nella cultura mondiale è un nume da decenni: Noam Chomsky, «forse il più grande intellettuale americano», come generosamente lo definisce Andrea Licata - ieri relatore davanti alla platea convocata dai Comitati del No - che lo ha contattato e gli ha chiesto una pagina di considerazioni per Vicenza. Chomsky è stato linguista per mestiere accademico, ma è diventato noto come attivista per la pace dall’area della sinistra radicale americana e contestatore della politica militare e strategica del suo paese («catastrofica per la popolazione irachena la guerra» ha scritto tra l’altro). Stessa solidarietà per il No degli anti-base da Moni Ovadia, lo scrittore diventato uomo di teatro con i testi su storia, costumi e musiche della tradizione ebraica centroeuropea e sull’Olocausto, e dallo scrittore Mario Rigoni Stern.
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