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28 AGOSTO 2005 dal Giornale di Vicenza
Antenne, ora la protesta si allarga
Elettrosmog. Anche S. Bortolo alza la voce. Il consigliere Guarda: «È l’ora dei miniripetitori» Dal centro storico, la protesta contro le antenne si sposta anche ad altri settori della città, come il quartiere di S. Bortolo, dove un gruppo di residenti - come si legge in una nota inviata da Giuseppe Licciardello e Elisabetta Savian - dice no all’installazione di una stazione radiobase su un fabbricato di via Durando, in una zona in cui nel raggio di poche decine di metri ci sono già altre tre antenne di gestori diversi, a breve distanza da un asilo e dalle scuole di via Prati. Sull’accerchiamento di antenne che cingerebbe d’assedio i licei Pigafetta e Lioy in centro storico, come segnalato dal consigliere diessino della circoscrizione 1 Mattia Pilan, arriva la replica dell’assessore all’urbanistica Marco Zocca: «Tutte le rilevazioni eseguite finora hanno dimostrato che i valori dei campi elettromagnetici sono ampiamente al di sotto della norma. Non c’è alcun motivo, quindi, per decidere di spostare gli impianti, installati seguendo le indicazioni del protocollo d’intesa fra Comune e gestori». Zocca ricorda poi che il problema delle antenne è di competenza di due assessori diversi, da quando l’urbanistica e l’edilizia privata sono state scisse: la programmazione spetta a Zocca, il rilascio dei permessi a Michele Dalla Negra (edilizia privata). La querelle, nel frattempo, registra un intervento del consigliere della circoscrizione 4, Daniele Guarda (Udc), che ieri ha presentato un’interrogazione per sapere che fine hanno fatto le proposte contenute nel “documento finale” elaborato dalla commissione speciale sulla telefonia mobile della zona 4. Alla base del documento, c’è la proposta di ricorrere a un numero maggiore di microcelle ognuna di minor volume e impatto rispetto alle antenne tradizionali. Si tratta, in altri termini, di miniantenne meno visibili che producono un ridotto impatto in termini di elettrosmog. Combinati a speciali estensori che catturano il segnale dall'esterno e lo introducono all’interno di edifici e palazzi, queste soluzioni - secondo Guarda - sono in grado di preservare il centro storico dal proliferare delle tradizionali antenne.
Nascita, sviluppo e fine di un’epoca Le difficoltà strutturali del settore divennero evidenti nel corso degli anni Settanta. L’azienda di Schio fu coinvolta con emorragie di personale di Giovanni Luigi Fontana La fine dell'attività produttiva nella Lanerossi di Schio, per quanto "annunciata", è sicuramente un evento storico e simbolico. Anche nel suo epilogo, come in tutta la sua storia, la vicenda della Lanerossi si intreccia con quella dell'Alto Vicentino, uno dei primi e più importanti poli della macro-regione originaria dell'industrializzazione italiana. Il Lanificio "Francesco Rossi" nacque nel 1817 in una fase di forte regressione del laniero veneto. La tradizione laniera del centro scledense, pur in un quadro di staticità tecnologica e di contrazione dell'apparato produttivo aveva consentito di far crescere energie imprenditoriali in grado di rispondere coraggiosamente alla sfida dell'avversa congiuntura economica/politica e della concorrenza boema e morava. Tra queste si mise sempre più in luce la figura di Francesco Rossi (1782-1845), laniere "integrale" per le discendenze familiari da pastori ed intermediari di lane dei Sette Comuni e per l'esperienza maturata senza soluzione di continuità fin dal 1809 nella conduzione dell'opificio di Sebastiano Bologna, zio della moglie e grande notabile del Regno Italico. Egli fondò sull'introduzione del filatoio meccanico la nascita della società Rossi-Pasini nel 1817-19 e, con essa, del sistema di fabbrica nel Veneto. Un crescente tasso di innovazione accompagnò le fasi del decollo (1842-60) e dell'espansione (1860-72) della "Francesco Rossi" prima della creazione della grande anonima (1872-73). Per tutto l'Ottocento, nel Lanificio Rossi l'innovazione comparve in genere con largo anticipo sul lanificio italiano o ebbe comunque un'incidenza molto superiore. Alla metà del secolo, mentre Thiene e Valdagno erano ancora nella fase di transizione tra vecchi e nuovi sistemi produttivi, la centralità della produzione di fabbrica trovò in Schio e in Alessandro Rossi (1819-1898), figlio di Francesco, dagli anni Quaranta a capo dell'impresa familiare, il luogo e la figura più rappresentativi e dinamici dell'industrializzazione veneta. I riflessi della combinazione tra addestramento interno e formazione europea risultarono evidenti nelle politiche aziendali di Alessandro Rossi: prodotti di qualità, decisa meccanizzazione, senso commerciale e della pubblicità. Nella seconda metà dell'Ottocento la grande impresa rossiana svolse una fondamentale funzione anche quale veicolo di diffusione di tecnologia secondaria, di conoscenze aggiornate e specialistiche sulle innovazioni di processo e di prodotto, sui modelli organizzativi e sulle istituzioni formative atte a migliorare il livello tecnico della produzione. Il Lanificio Rossi trainò il passaggio al sistema di fabbrica di piccole ditte artigianali, la cui iniziativa venne stimolata dalla maggiore facilità a procurarsi macchine, tecnici, manodopera specializzata e ad introdurre processi produttivi già sperimentati in loco. La fabbrica e poi i grandi stabilimenti fecero la loro comparsa nel paesaggio pedemontano con tutto il contorno di canali, ponti, strade, ferrovie, centrali idroelettriche e di strutture edilizie, socio-assistenziali, culturali e del tempo libero che fecero delle istituzioni operaie, create dal Rossi rielaborando le coeve esperienze europee, un modello di patronage per tutta la nuova classe imprenditoriale italiana noto ed ammirato anche all'estero. A Schio le fabbriche più importanti si distribuivano lungo la Roggia Maestra, da quella più antica, il Lanificio Conte (1757), ripetutamente ristrutturato ed ampliato nel secondo Ottocento, per risalire all'imponente complesso del Lanificio Rossi, con il neoclassico stabilimento della Francesco Rossi (1849), ingresso alla vasta area, coperta di fabbriche, dominata dalla svettante "Fabbrica Alta", costruita nel 1862 su progetto dell'architetto belga Auguste Vivroux. Nel tratto più a monte la Roggia alimentava il Lanificio Cazzola (1860-70), nato da un ex-incollatore dei Rossi, mentre risalendo la Val Leogra si incontravano gli altri stabilimenti della "costellazione rossiana": il Lanificio Rossi di Pievebelvicino, costruito negli anni '70, e il coevo stabilimento di Torrebelvicino. La sequela delle fabbriche si diramava poi nella valle dell'Astico con gli stabilimenti Rossi di Piovene Rocchette e il Cotonificio creato da Gaetano Rossi a Chiuppano nell'ultimo decennio del secolo. Prolungamento delle fabbriche sul territorio, la rete di quartieri e case operaie, istituzioni culturali, sociali, civili e del tempo libero, infrastrutture territoriali ed interventi edilizi, tra i quali spiccava il Nuovo Quartiere di Schio (1872-1890), progettato dal Caregaro Negrin, il primo e più impegnativo intervento del genere realizzato in Italia sulla scorta delle più avanzate esperienze europee. Il Nuovo Quartiere di Schio costituì un insediamento-modello che si riprodusse a diverse scale non solo nell'orbita rossiana, con le case operaie di Pieve e Torrebelvicino e soprattutto con il villaggio operaio di Piovene-Rocchette (oltreché con le realizzazioni a contorno del Cotonificio fondato negli anni Ottanta a Vicenza dai figli di Alessandro Rossi, Francesco e Gaetano), ma anche nella vicina Valdagno, a Thiene e in varie altre sedi di insediamenti industriali della regione. Il vecchio proto-distretto laniero irrobustì così i rapporti tra le imprese e con gli altri soggetti del territorio dando vita ad un'"area sistema integrata" che dagli anni Ottanta dell'800 al primo '900 strutturò un articolato apparato produttivo ai vertici della graduatoria regionale e ai primi posti di quella nazionale. L'area giunse ad uno stadio di maturità sulla linea del diverso modello evolutivo delle due grandi imprese Rossi e Marzotto, le maggiori imprese laniere del paese e tra loro vivaci concorrenti. La prima s'irradiò nel territorio circostante coesistendo con un fitto tessuto di attività minori; la seconda assorbì interamente nel processo di integrazione/verticalizzazione il variegato patrimonio tecnico-produttivo creatosi nella valle dell'Agno. Gli impianti industriali del nucleo scledense-valdagnese, uno dei tre poli lanieri italiani, superarono il Biellese per consistenza delle attrezzature, numero di imprese e di occupati. Per tutta la prima metà del '900, il comparto laniero altovicentino continuò a rappresentare il più forte nucleo manifatturiero del Veneto. A fronte della crisi degli anni Trenta aumentò ancora il proprio peso, procedendo ad ulteriori rinnovamenti impiantistici ed alla concentrazione delle imprese. Il Lanificio Rossi fece leva sulla forza della tradizione evocata dal marchio mantenendo un'ampia tipologia produttiva che tuttavia lo indebolì nei confronti della Marzotto, la quale potenziò grandemente gli stabilimenti, accentuò la sua specializzazione nel pettinato riducendo i tipi prodotti, conquistando la leadership nella fascia mediana dei tessuti di qualità e consolidando la sua presenza all'estero. Negli anni Trenta la Marzotto divenne così il principale produttore laniero italiano e il maggiore esportatore grazie ad una strategia imprenditoriale particolarmente attenta al continuo aggiornamento tecnologico degli impianti, perseguito con forza da Gaetano Marzotto Jr (1894-1972) a partire dalla crisi laniera del 1920-21. Alle soglie della seconda guerra mondiale, il tessile vicentino conservava il primato conquistato nel corso della prima industrializzazione. Dopo la temporanea espansione delle esportazioni nell'immediato dopoguerra, il tessile puro entrò tuttavia in una fase di crescenti difficoltà. Vennero al pettine diversi nodi strutturali: l'invecchiamento tecnologico degli impianti rispetto ai competitori internazionali; il sovradimensionamento occupazionale; la ridotta innovazione produttiva; la rigidità dei prezzi; la concorrenza delle nuove fibre. Nel 1951 il Vicentino continuava a concentrare circa la metà dell'occupazione tessile regionale e manteneva il suo assoluto primato nella lana, ma in ambito regionale il maggiore dinamismo si riscontrava nelle produzioni di abiti confezionati e della maglieria, specie in area trevigiana dove il settore presentava una più equilibrata ripartizione di imprese e di addetti tra i diversi comparti. Ciò evitò al Trevigiano i difficili passaggi che dovette invece affrontare il Vicentino, dove all'inizio degli Sessanta l'Eni incorporò la Lanerossi colpita pesantemente dalla crisi. I contraccolpi occupazionali della ristrutturazione vennero peraltro efficacemente attutiti grazie alle capacità di assorbimento di manodopera del meccanico che nello stesso periodo operò lo "storico" sorpasso sul tessile come settore dominante dell'economia vicentina. Negli anni del boom l'industria laniera fece invece segnare indici di incremento sensibilmente inferiori alla media, con costi ed invecchiamento tecnologico crescenti. La vicenda era comune a buona parte dell'industria laniera dell'Europa occidentale, ma non a quella americana caratterizzata da larga disponibilità e forte impiego di capitali. Tutto ciò, unito alle crescente pressioni salariali, rese inevitabile l'ammodernamento, pena la sopravvivenza stessa dell'industria laniera. Nel '64 iniziò il rinnovamento della Lanerossi finalizzato ad ammodernare e razionalizzare gli impianti riunendo in unità omogenee le lavorazioni che si svolgevano in stabilimenti separati; di dare ulteriore impulso alle consociate e crearne di nuove per attuare un'integrazione più spinta e fornire al consumatore una gamma più vasta di prodotti finiti. Lo sforzo compiuto nel periodo più difficile della sfavorevole congiuntura internazionale non trovò confronto nell'industria laniera italiana. Per garantire uno stretto contatto tra l'alta direzione della Lanerossi e le unità produttive, dopo molti anni di assenza tornarono a Schio la Direzione Generale e i maggiori uffici da essa dipendenti. Dopo questa prima concentrazione si procedette alla riunificazione, razionalizzazione e ammodernamento degli impianti produttivi. Gli stabilimenti si concentrarono in due grandi unità produttive che inaugurarono la nuova zona industriale di Schio: la tessitura e apparecchio cominciò a produrre nel giugno 1966. Si trattava di un unico fabbricato in struttura metallica di 55 mila mq, con un flusso razionale del ciclo dal magazzino filati al magazzino tessuti finiti. Si potevano produrre nove milioni di metri quadrati di tessuti medi e pesanti, quasi la metà della capacità produttiva Lanerossi di tessuti per vestiario. La seconda unità, di altri 50 mila mq coperti, iniziò l'attività nel luglio 1967, riunendo le lavorazioni precedentemente svolte a Torre, Schio e Pieve (filatura cardata, tessitura e finissaggio coperte, con verticalizzazione completa del ciclo produttivo di questo importante articolo). Un terzo stabilimento venne costruito a Foggia per la filatura di fibre acriliche (23 mila mq coperti). Potenziamento di linee, rinnovamento, automazione del macchinario e riorganizzazione produttiva vennero effettuati con massicci investimenti non solo nei nuovi stabilimenti, ma anche in tutti gli altri del Vicentino: nella pettinatura di Vicenza, nella filatura e apparecchio di Rocchette, nella tessitura di Dueville. Grande sviluppo ebbero anche le consociate, specie la Lebole che produceva abiti pronti per uomo e donna (la superficie globale degli stabilimenti passò da 33 mila a 72 mila mq) e che vide aumentare la propria capacità produttiva del 200%. Sensibili incrementi di impianti e produzioni si verificarono anche in Rossiflor (tappeti e tappeti-pavimento) e Sapel (lane e pelli). Due nuove società vennero costituite per operare in settori nuovi: la Rosabel (maglieria nello stabilimento di Torre) e la Rossitex (tessuti per arredamento nello stabilimento di Pieve), entrambe con utilizzazione di filati Lanerossi. Parte della manodopera accedente venne riassorbita con le nuove iniziative. Il programma realizzato tra il 1964 e il 1967 comportò un investimento di 24 miliardi. Il fatturato annuo (60 miliardi di lire) aumentò del 40% rispetto al '62. Tra le unità produttive proprie e le 8 consociate Lanerossi comprendeva 16 stabilimenti, 15 centrali idro e termoelettriche, un'area coperta di 400 mila mq, una potenza installata di 26 mila kW. All'epoca gli occupati del Gruppo Lanerossi, il più vecchio gruppo laniero italiano, erano ancora 12 mila. 150 anni di integrazione tra comunità, ambiente e industria tenevano ancora legate all'azienda le sorti di migliaia di nuclei familiari. Si trattò di un grande sforzo ma tutto impostato sulle "quantità", sui volumi, e sulle economie di costo. Le ripetute crisi congiunturali del settore, lungi dal venire superate con la ripresa della domanda verificatasi durante gli anni del "miracolo economico", si trasformarono in crisi endemica. Le imprese tessili reagirono nei decenni successivi con profonde innovazioni di processo e di organizzazione. Nell'insieme dei comparti e delle produzioni di fase si verificò un complesso sistema di interazioni e compensazioni. Il laniero vide aumentare la produzione nei filati industriali o nei tessuti destinati ai confezionatori. Come conseguenza della specializzazione d'impresa si segnalò anche un incremento del comparto della tintura, stampa e finissaggio dei tessuti. Ma l'orizzonte rimase contraddistinto da molte ombre, mentre, nel suo insieme, il tessile-abbigliamento mantenne il profilo di un aggregato di imprese assai differenziate per dimensioni, funzioni e livello tecnologico, con una coesistenza di grandi e piccole imprese, di produzioni ad intensità relativamente elevata di capitale con altre di tipo labour-intensive, con comparti performanti ed altri in stagnazione o declino. Le difficoltà strutturali del settore divennero più evidenti nel corso degli anni Settanta. Lanerossi ne fu coinvolta con una consistente emorragia di personale. Muovendosi nell'alveo della tradizione, pur con un alto livello qualitativo della produzione, attraversò le crisi successive e i diversi tentativi di riorganizzazione del tessile di Stato, come quello della Tescon, conclusosi nel '78 col ritorno di Lanerossi a caposettore del tessile Eni. Appesantita dalle ulteriori aggregazioni di imprese in difficoltà, Lanerossi attraversò gli anni Ottanta con progressive perdite di mercato fino alla cessione, nel 1987, alla Marzotto, la quale, con diversificazioni ed acquisizioni a vasto raggio, consolidava il suo primato nel tessile-abbigliamento italiano e si collocava al vertice del settore europeo. Nella "Fabbrica Alta" di Schio, simbolo della prima industrializzazione italiana, rimasero ancora gli uffici della Direzione fino al 1990, quando con la fusione delle società e a compimento di una progressiva confluenza delle diverse funzioni direzionali a Valdagno, nell'antica "cattedrale del lavoro" calò definitivamente il silenzio. Ora anche gli altri stabilimenti Lanerossi di Schio diventeranno luoghi della memoria. È auspicabile che, come per la "Fabbrica Alta", anche questi possano trasformarsi in centri di produzione di nuove vocazioni territoriali e di competenze in grado di presidiare con la stesse capacità del passato le nuove frontiere della conoscenza e dell'innovazione. |