«I clandestini a quota nove mila»
La Caritas sfida l’emarginazione
di Eugenio Marzotto
Dall’indagine Caritas emerge una nuova immigrazione da est a ovest, piuttosto che da sud a nord. Cosa cambia sotto il profilo dell'integrazione?
Sono cambiati gli equilibri dei flussi, ma l'immigrazione è come un fiume in piena, domani le proporzioni potrebbero cambiare di nuovo. L’integrazione poi non è uno "stato di natura" o una categoria dello spirito. Forse è più utile rappresentarla come un cammino, visto che si parte da posizioni diverse, nel quale l'appartenenza nazionale può contare, ma fino ad un certo punto. È indubbio che in molti casi con le persone di origine europea i punti di partenza sono più simili. Questo facilita molto le cose. Va anche detto però che le scelte individuali, gli atteggiamenti dei compagni di cammino, gli stessi italiani in questo caso, gli strumenti che sono a disposizione, penso alla scuola, contano molto, nel bene e nel male, e permettono che gli esiti non siano scontati.
Istituzioni, enti locali e associazioni sono alla prese con diversi problemi, che decisioni strutturali servono per evitare un impatto violento tra due culture.
Ma le culture non sono due. Non abbiamo gli italiani da una parte e dall'altra coloro che provengono da 50 e oltre nazionalità, come un corpo unico, magari pronto allo scontro violento. Abbiamo provenienze diverse, famiglie miste, non comunitari che sono diventati comunitari o lo diventeranno presto, come i rumeni, la prima comunità di stranieri del Veneto. Credo servano condizioni stabili di soggiorno in modo tale che uno non si senta precario. Poi vale la pena di rendere le persone immigrate protagoniste del destino della comunità più ampia in cui si sono inserite. Questa è una scelta che si fa dal basso, a livello locale. È lì che parte la sfida dell'integrazione. È lì che può affermarsi un modo non violento di esprimere i conflitti.
Esiste una crisi di appartenenza dei cattolici rispetto alla coesione dei fedeli islamici?
Non sarei così sicuro che gli islamici siano coesi. Ci sono riscontri di modi di vita molto secolarizzati e di scarsa frequenza ai riti, oltre alla storica pluralità di modi di vivere l'islam. Credo sia opportuno essere realistici nel valutare le dimensioni dei fenomeni e distinguere tra i timori, anche legittimi, e i dati di fatto. Certo è che il clima di confronto e conflitto, continuamente alimentato da modi integralisti di vivere la fede e amplificato non poco dai media contribuisce a dare molta identità e peso al fattore religioso delle persone. Credo, però, che per i cattolici, per i cristiani, non sia prima di tutto una questione di appartenenza, ma di fede e di annuncio, che per altro è annuncio a tutti gli uomini, non solo ai "nostri". E siccome l'annuncio si fa soprattutto con testimonianze di vita, spero davvero che il confronto con altre fedi contribuisca a mettere in crisi le coscienze dei cristiani.
Quasi 90 mila immigrati regolari in provincia di Vicenza, ma esistono stime su quanti siano gli irregolari, senza permesso di soggiorno?
Posso provare a dire che siano i 9 mila per i quali sono state avanzate domande di ingresso dall'estero, tenuto conto che va detratto un certo numero di persone che sono davvero all'estero e aggiunto un certo numero di persone per la quali nessuno ha presentato domanda. Sono calcoli approssimativi, ma credo di non essere distante dal vero.
La proposta Amato prevede cinque anni di permanenza regolare per poter far domanda di cittadinanza. Sono pochi o giusti?
Ma la cittadinanza è solo un problema di numero di anni? Abbreviare il periodo significa rendere più vicino l'obiettivo e può essere senz’altro una buona cosa. D’altra parte 5 anni era il requisito in vigore in Italia dal 1912 al 1992, non è mica una novità, ed è pure il requisito previsto in altri Paesi dell’Ue. A dire il vero, per l'iter burocratico attualmente previsto, a quegli anni va aggiunto il numero di anni necessari allo svolgimento della pratica, che oramai è quasi di altri tre. A noi pare, tuttavia, che non sia tanto un diritto da legare in modo automatico ad una misura cronologica (4,5 o 10 anni di permanenza in Italia) quanto piuttosto un diritto da riconoscere a fronte di una precisa volontà, oggettivamente verificabile, nel soggetto richiedente. Non si tratta di "colonizzare" ma di esigere almeno il rispetto di quella misura minima di coscienza civica.
In altre parole ci pare che la cittadinanza italiana potrebbe essere riconosciuta dopo che la persona immigrata e regolare abbia, oggettivamente, la conoscenza dell'assetto costituzionale e culturale dell'Italia e la volontà di rispettarlo e di parteciparvi.
Africa addio, il nuovo immigrato ora arriva da est
Nel rapporto veneto “Migrantes” è la comunità serba la più numerosa della provincia
Novantamila immigrati, nuovi arrivi dall’est europeo, un calo sensibile della presenza di donne straniere e asili pieni di bambini extracomunitari.
È la sintesi vicentina del rapporto sull’immigrazione della Caritas che mercoledì scorso ha presentato i dati relativi al 2005, sulla presenza immigrata in Italia, nel Veneto e nelle singole province. Dati che non si scostano di molto da quelli della questura di Vicenza e che mettono la nostra provincia al sesto posto in Italia per presenza di immigrati residenti.
Se si scava dentro numeri e statistiche però, ci si imbatte in una realtà complessa e che impatta sulla società vicentina sotto tanti punti di vista. Dall’occupazione, alla scuola, dalla religione, all’ordine pubblico. L’obiettivo è unico ed è sempre lo stesso, quello dell’integrazione di fronte a masse di genti che si spostano da sud a nord e da est a ovest, sradicando equilibri e storiche convivenze. È toccato anche a Vicenza.
E per analizzare una presenza diventata strutturale già da dieci anni, abbiamo chiesto al direttore della Caritas diocesana, don Giovanni Sandonà, quanto e cosa manca per giungere ad un punto di equilibrio.
Strada Nicolosi, i nomadi
si sono “autosgomberati”
Dopo cinque anni, il primo risultato contro il campo abusivo
(g. m. m.) C’era un velo di nebbia, ieri mattina, a nascondere i campi di strada Nicolosi. Ma dentro la foschia, non c’erano più né camper, né roulotte, né donne, uomini e bambini rom. Dopo cinque anni, il campo abusivo occupato da un clan di nomadi è stato sgomberato. Anzi, per la verità, si sono autosgomberati. Degli Halilovic da un paio di giorni non c’è più traccia: l’accampamento oltre la cancellata è svanito.
Sul prato pochi resti: tappeti, i segni dei pneumatici, l’erba gialla che stava sotto le baracche di legno e latta. Sembra persino ordinato, ora che non ci sono più la sporcizia, gli escrementi, la spazzatura che hanno guastato per anni la vita di chi abita in quel lembo di capoluogo, fra Anconetta e Monticello Conte Otto.
Il vicesindaco e assessore alla Sicurezza, dopo aver trangugiato l’amaro calice delle polemiche, degli smacchi al Tar e delle interrogazioni in consiglio comunale, canta vittoria: «L’ordinanza ha avuto effetto. Se ne sono andati di loro spontanea volontà. Questo dimostra che con fermezza costanza si possono ottenere risultati».
L’ordinanza a cui fa riferimento Sorrentino era stata firmata quindici giorni fa dal sindaco Enrico Hüllweck. Dopo lunghe insistenze, Sorrentino era riuscito a ottenere che a monte del provvedimento urgente ci fossero motivi di igiene e sanità. La scadenza dell’ultimatum comunale era fissata per mercoledì: se non fosse stata rispettata la disposizione del Comune a sgomberare l’area regolarmente acquistata dai rom, ma abusivamente occupata a fini abitativi, sarebbe scattato lo sgombero coercitivo. «Lo avremmo fatto di sicuro, non se ne poteva più», afferma Sorrentino.
Andandosene di spontanea volontà, gli Halilovic hanno però tolto dal fuoco una patata bollente: la gestione dei minori, che in caso di sgombero coatto sarebbe ricaduta sulle spalle dei servizi sociali comunali, con evidenti problemi.
D’altra parte, proprio le condizioni in cui erano costretti a vivere i bambini è stata la molla che ha fatto partire l’operazione: «Non è accettabile - aveva detto il vicesindaco, che aveva presenziato al sopralluogo a sorpresa della polizia locale con il comandante Cristiano Rosini - che nel 2006 dei bambini siano costretti a vivere senza bagno, riscaldamento e un tetto».
«Avevo promesso ai cittadini che entro l’anno il campo sarebbe stato liberato e così è stato - conclude -. Ora vigileremo perché il problema non si ripeta».