05.01.2012 CineMolino – AKIRA
di Katshuiro Otomo, Giappone 1988, animazione a colori, 124′, interpretato da Mitsuo Iwata, Hiroshi, Nozomu Sasaki, Mami Koyama, Tessho Genda, Masaaki, Yuriko Fuchizaki, Tatshuiko Nakamura, Takeshi Kusao e Kazhuiro Kamifuji.
IL FUTURO SURREALE DI OTOMO ALLA LUCE DELLA MINACCIA REALE NEL PRESENTE DI FUKUSHIMA. IL GIAPPONE E LO SPETTRO ATOMICO
Neo Tokio 2016. La metropoli giapponese alla fine della Terza Guerra Mondiale è in preda al caos. Bande di giovani motociclisti scorrazzano per i quartieri periferici, la polizia corrotta distribuisce pallottole ai deboli e protezione ai forti, le governance della violenza e della paura hanno preso il posto del governo cittadino ormai defunto! Una gang giovanile di motociclisti, capeggiata da Kaneda, viene casualmente a contatto con uno strano ragazzino. Il giovane Tetsuo, che con la sua moto ha investito il bambino (rimasto inspiegabilmente illeso), viene portato via senza spiegazioni dai militari; Kaneda, venuto a contatto con un’organizzazione clandestina antigovernativa, cerca di scoprire dove è stato portato il suo amico.
Il film, tratto dal colossale manga dello stesso Otomo, ha fatto di anime un nuovo concetto cinematografico: Akira è il nonno di tutti gli anime giapponesi. Il credito di cui gode Akira presso gli appassionati del genere (e non solo) è infatti enorme: una popolarità acquisita e cresciuta di anno in anno (malgrado una distribuzione penalizzante in diversi paesi occidentali: in Italia ad esempio arrivò tre anni dopo la sua uscita in Giappone), e a dispetto degli inevitabili limiti di una sceneggiatura che ha dovuto condensare in un film di due ore un monumentale manga. Le cause della grande popolarità di questo film presso il pubblico di tutto il mondo sono da ricercare innanzitutto nella sua indiscussa, altissima qualità tecnica: la cura con cui sono stati realizzati i disegni e le animazioni è davvero sbalorditiva, tenendo conto anche del fatto che stiamo parlando di un film realizzato ben ventiquattro anni fa. Per moltissimi spettatori, abituati ad identificare l’animazione curata, di qualità, con i prodotti americani (Disney in primis) fu un vero e proprio shock vedere i personaggi di Otomo muoversi in modo completamente realistico in una città ricostruita con una cura maniacale, nei minimi particolari, e del tutto credibile. L’animazione giapponese usciva dal ghetto, quindi, e dalla semplicistica identificazione con le serie televisive che fecero la sua fortuna, nel nostro paese, negli anni ’80.
Questo film vive e si nutre di componenti e umori molto diversi, tutti fondamentali per il risultato finale: c’è la componente cyberpunk, da sempre presente nel genere, con il dolore della mutazione del corpo e della sua fusione con il metallo; c’è l’aspetto politico, con il potere dei militari, le macchinazioni governative e le continue tensioni sociali che si respirano in città; c’è l’orrore, sempre presente, per il nucleare, ben riassunto nella sequenza iniziale dell’esplosione che distrugge la città; c’è una componente più strettamente filosofica, che si interroga sull’origine e il significato della vita, e che è anch’essa tipica della cultura e di tutte le espressioni artistiche del Sol Levante. Quella che Otomo ha portato sullo schermo è una città che cerca disperatamente di dimenticare la tragedia che l’ha sconvolta, nascondendosi dietro una facciata opulenta e scintillante: la notte, a Neo-Tokyo, è colorata da luci, suoni, locali notturni, ristoranti di lusso; ma sotto questa patina colorata, c’è una ferita più che mai aperta e sanguinante: ci sono disuguaglianze sociali, con ghetti che esplodono di rabbia e malcontento, c’è la polizia che spara su gente inerme, ci sono gang giovanili che dettano la loro legge, ci sono predicatori che auspicano l’avvento di un messia (Akira, per l’appunto) che dovrà purificare la città nel fuoco. Kaneda e i suoi amici si muovono in questo scenario come outsider, ribelli senza causa; spiriti liberi che con le loro moto squarciano, fisicamente, la notte di Neo-Tokyo facendo esplodere il contrasto tra la facciata scintillante della città e la sua realtà effettiva, fatta di sofferenza e disagio. Il fascino del finale del film è totale, e per la sua forza visiva, esso può essere tranquillamente paragonato al finale di un capolavoro della storia del cinema come 2001: Odissea nello spazio. Ulteriore elemento di elemento di pregio è la musica: la splendida colonna sonora composta da Shoji Yamashiro, con i suoi suoni sintetici, ipnotici, uniti a motivi quasi tribali, si integra alla perfezione con la potenza delle immagini, creando un insieme di grande suggestione. Alla luce di tutto questo, quindi, poco importa se alcuni particolari della trama restano piuttosto oscuri, o se la comprensione di alcuni passaggi ci è negata da una sceneggiatura che non poteva condensare un’opera di tale complessità in sole due ore: quella che conta è lasciarsi andare a un’esperienza visiva straordinaria, che ha un impatto devastante ma è allo stesso tempo pregna di significato, mai fine a sé stessa.
Pare che Hollywood sia intenzionata a proporre un remake “dal vivo” di questo film, secondo una moda che ultimamente sta coinvolgendo diverse produzioni (soprattutto recenti) orientali: consci che sarà difficilissimo restituire la grande potenza delle immagini create da Otomo e dal suo staff, ma soprattutto che sarà estremamente arduo ricreare l’atmosfera e le suggestioni, tutte tipicamente giapponesi-anni-ottanta, che hanno animato e fatto la fortuna di un’opera come questa, rispolveriamo l’originale con la purezza del sabotaggio mainsteam hollywoodiano. E ‘intenso. E’ emozionante. E ‘mindboggling…. assolutamente indimenticabile!
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