La trappola poliziesca e il topo sbagliato
di Danilo Baratti, storico
Intervengo sulla questione dell’autogestione a Lugano non tanto come firmatario, a nome dei Verdi di Lugano, della denuncia penale «nei confronti di ignoti, da identificarsi presso il Municipio di Lugano, per i titoli di reato di violazione delle regole dell’arte edilizia, esposizione a pericolo della vita altrui, delitto contro la legge sulla protezione dell’ambiente, ed ogni altro che dovesse emergere». E neppure come membro di Aida, l’associazione nata un paio di anni fa per «mettere in luce il valore sociale, culturale e politico delle esperienze di autogestione nel contesto urbano svizzero» e per «civilizzare il dibattito sull’autogestione», che si riteneva, nel contesto luganese, incancrenito e asfittico. Qui mi esprimo a titolo personale e solo per una valutazione politica generale dell’agire del Municipio, come lo potrebbe fare ogni cittadino un po’ attento. Non torno sugli accadimenti, ma per entrare in materia ricordo almeno il dato più recente: l’ultimissimo «Caffè» ha reso noto che la Fondazione Vanoni, del tutto ignara dell’occupazione temporanea, sarebbe stata sollecitata dalla stessa polizia a sporgere denuncia. Già lo si poteva immaginare. Ora c’è da credere, con i particolari emersi, che la polizia non aspettasse altro per mettere in atto un piano prestabilito (e che magari già sapesse, come insinua il «Caffè», che sarebbe stato occupato simbolicamente proprio quell’edificio). In questo senso si può anche ritenere che gli autogestiti siano caduti in una trappola. Ma se in trappola fosse finito invece, avallando acriticamente i piani polizieschi, il Municipio? E che ruolo ha avuto il Dipartimento delle istituzioni (con la sua polizia sempre più intraprendente) nell’approntare la trappola in cui è rimasto il topo sbagliato?
Torniamo indietro. Varie esperienze di autogestione si sono consolidate, negli ultimi decenni, in parecchie città svizzere. Realtà mutevoli nello spazio e nel tempo, ognuna con la propria storia, le proprie caratteristiche, la propria relazione col potere istituzionale. Tutte però nate e affermatesi nel conflitto. Si parla spesso, in relazione all’autogestione, di riconoscimento e di diritto. Se esiste un diritto alla libera espressione, anche fortemente dissidente, non esiste certo un diritto a fruire di uno spazio pubblico in cui far crescere questa dissidenza. Il riconoscimento di questo “diritto” poggia su rapporti di forza (forza sociale e politica). Se esperienze legate a una visione del mondo antagonista riescono a far emergere un bisogno che viene recepito e accolto da una parte della società, e quindi a ritagliarsi uno spazio sociale (e magari anche a conquistarsi uno spazio fisico tramite un’occupazione), si danno le condizioni per un riconoscimento di fatto da parte delle istituzioni. È successo per qualche tempo anche in Ticino, ma solo in forma instabile e parziale. Negli ultimi anni Lugano ha riconosciuto questa realtà solo a parole, altrimenti si sarebbe mossa per tempo nel cercare un’alternativa credibile all’ex Macello invece di buttar là una proposta solo dopo lo sgombero e le polemiche che ha generato (ma anche su altri temi la politica luganese sembra improntata a un’improvvisazione travestita da progettualità). Dopo l’intervento delle ruspe tutto è precipitato in un buco nero. L’inchiesta della magistratura potrà forse chiarire l’ingarbugliata dinamica decisionale di quella notte (e dei giorni precedenti!) ma è chiaro fin d’ora che sul piano politico l’abbattimento è stato un errore madornale (o magari provvidenziale, a seconda dei punti di vista). Prima del 30 maggio sembrava che l’autogestione luganese non godesse più di un grande sostegno esterno, anche per la sua propensione a chiudersi in se stessa (senza però mai rinunciare, va detto, a intervenire pubblicamente denunciando situazioni di ingiustizia e sopraffazione). Poteva sì contare sul sostegno più o meno automatico dei partiti di sinistra, ma i rapporti di forza intorno al nodo dell’autogestione non sembravano certo quelli di qualche anno fa. Poi l’intervento efferato di quel sabato notte ha cambiato le carte in tavola. Da un lato ora abbiamo un Municipio in evidente difficoltà, che si arrabatta da più di un mese, con ripetuti ritocchi maldestri, nel costruire una narrazione plausibile intorno all’abbattimento, e che ha perso molta credibilità (anche in merito alla volontà e alla capacità di dialogo).
Dall’altro un’autogestione ringalluzzita che ha ritrovato un sostegno esterno che si era affievolito. Un’autogestione che, uscita dal suo ghetto ormai precario, ha fatto delle piazze e delle strade il proprio luogo di aggregazione e di espressione. L’errore politico grossolano del Municipio è amplificato anche dal momento scelto, alla vigilia di due stagioni – l’estate e l’autunno – che favoriscono l’organizzazione di attività all’aperto e quindi la continuità in altre forme della vita del centro sociale. Finora i “molinari” hanno (auto)gestito abbastanza bene il regalo politico che il Municipio ha fatto loro. Potranno fare a loro volta degli errori politici, ma per il momento navigano in mare aperto, senza approdo, con il vento in poppa.
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