RENATO MARTINONI / Il Caffé 6 giugno 2021

Tiene banco la questione dei “molinari”. C’era una volta un “centro sociale”. E c’era una contesa: fra gli “okkupanti” e le “istituzioni”. Tutto si è risolto in una demolizione contestata da alcuni e presentata da altri come inevitabile (e non premeditata, si ostina a dire qualcuno). Intorno alle macerie di quello che è stato il covo dei “molinari” si è sentito di tutto: dagli inni di esultanza alle geremiadi, dagli inviti a manifestare nelle piazze alle esortazioni a scendere a più miti consigli, dalla disponibilità a mediare fra i contendenti agli insulti. Da un lato stanno gli “antagonisti”. Dall’altro i “patrioti”.
Non si sa molto sugli “okkupanti”: celano i loro volti dietro un ideale di vita dove prevale la collettività sull’individualismo; e anche perché hanno sempre badato più a coltivare i loro orti che a cercare il dialogo. È invece meno difficile dire qualcosa dei rappresentanti delle “istituzioni”. Di loro si sa tutto, dato che sono sempre e ovunque sui media. Rappresentano vari colori partitici, con la chiara prevalenza, nel caso della “Regina del Ceresio”, di una tinta. Quella degli ex zapateri nel frattempo rientrati per la gran parte (avrebbe detto il poeta Guido Gozzano) nella “gioventù clericale”. Le differenze di opinione, sul fronte dell’”ordine”, hanno prevalso sulla concordanza. Tanto che la decisione di demolire l’edificio della vergogna è stata presa in maniera non democratica. Si è letto di municipali non avvisati (“tanto si sapeva che erano contrari”: speriamo che l’infelice battuta sia stata inventata dai giornalisti); di una fretta improvvisa, anzi sospetta, come se a qualcuno fosse venuta la diarrea; di una fragile “collegialità” andata a farsi benedire; di abusi di potere, prontamente coperti di cenere cosparsa sul capo; di mancanza di rispetto delle disposizioni giuridiche. C’è chi parla di aperture di inchieste “contro ignoti” che poi finiranno nel nulla. Alcuni giuristi hanno avvertito: non c’erano le basi legali per mandare la polizia e le ruspe: ma questo sembra non preoccupare il Municipio di Lugano, dove pure qualche avvocato siede sulle scranne. Tutto si sistema con una “sanatoria”.

Ognuno di questi due fronti ha i propri simpatizzanti. I buonisti della sinistra, che insorgono “indignandosi” (usando cioè il modo più comodo per lavarsene le mani), i “molinari”; gli energumeni della destra, le “istituzioni” luganesi: gente, quest’ultima, facile all’uso di insulti e di minacce, ma pronta a scandalizzarsi come le educande e a parlare di offese e di morale quando sono gli altri, cioè i “teppisti”, a rubargli il mestiere. Ammettiamolo: non era facile, specie per la testardaggine degli “okkupanti”, arrivare a una conclusione condivisa, tranne forse a quella di lasciare le cose come stavano. Poi, all’improvviso Re Erode ha preso il posto di Pilato. Il vero problema, in realtà, non è il problema in sé, ma quello che ci sta attorno. È il desiderio, da un lato, di affermare la propria volontà di indipendenza, quello degli “okkupanti”: un’indipendenza incoerente perché basata sull’appropriazione di un luogo che non gli appartiene. È la smania, dall’altro, quello delle “istituzioni”, di mostrare di saper tenere in mano uomini e cose, costi quel che costi.
I “molinari” hanno le loro colpe: eterogenei per definizione, al di là di interessi e di ideali comuni, sono difficili da gestire, a meno che non li si lasci vivere nel loro brodo, così come sono assai poco disposti a uscire dalle loro tane per dialogare, fosse soltanto per mostrare di essere diversi da come vengono presentati. Sembrano avere scelto la via “anarchica”, cioè del non-dialogo, per spirito di rivolta, dato che l’anarchico è contro (quasi) tutto. Altrettanto certo è che i “molinari”, pur nella loro scarsa coerenza fra scelte di vita e dipendenza dalla vita sociale, e delle loro traballanti “rivendicazioni”, meritano rispetto almeno per i loro ideali. Soltanto nell’isola di Utopia, però, è possibile vivere mettendo prima i sogni e poi la realtà. Fingere di non saperlo è ingenuo.

Non meno riprovevoli sono le “istituzioni” luganesi. Abbiamo sentito di decisioni prese senza avvertire chi di dovere. Preoccupa il sospetto che una parte del mondo politico, peraltro non unanime, anzi senza democraticamente coinvolgere gli altri, abbia voluto schiacciare il bottone rosso. Grazie a un’operazione chirurgica il sistema si costruisce l’immagine dello Stato forte ed efficiente. Lottando contro quattro gatti, ne approfitta per rinfrescarsi la faccia, per darsi un volto degno del ruolo istituzionale che gli compete. Sappiamo di provocazioni, da una parte e dall’altra (mettiamoci pure cosa scriveva il “comunista” Pasolini, che affermava, di fronte agli scontri fra polizia e contestatori, negli anni Settanta, di stare dalla parte dei poliziotti, perché erano loro i figli dei proletari). Si sono udite, nel movimento di maggioranza luganese, lamentele alte e scandalizzate per le minacce indirizzate a qualche politico. C’è perfino chi (ma da che pulpito!) ha invocato le pubbliche scuse nei confronti degli offesi (alcuni di loro sono dei veri e propri campioni nell’arte di ingiuriare e di diffamare impunemente) e pesanti sanzioni per i “molinari” e i loro sostenitori.
Ora l’ex macello è come un peccato che non c’è più, e molti sentiranno dentro di sé quella leggerezza che prova chi esce dal confessionale dove ha lasciato le proprie macchie in cambio di un modesto rosario di padrenostri e avemarie. Ecco che una volta (finalmente!), hanno pensato in molti, il mondo politico ha mostrato di saper tirare fuori gli attributi, accontentando chi invocava la mano pesante. Chi proprio non riesce a sentirsi “sereno”, si dice almeno “sollevato” pensando all’”emergenza” rientrata. Resta l’incognita di chi sapeva e di chi dice di avere saputo solo “dopo”: nel palazzo del Comune, a Lugano; al Dipartimento delle Istituzioni, per definizione il garante (ma lo è davvero?) della legalità; nello stesso Governo cantonale; e di chi ha dato gli ordini a una polizia che negli ultimi mesi, con arresti improvvisati, proditori e sbandierati, e con parole sconsiderate e arroganti, nei momenti difficili della pandemia, ha buttato alle ortiche una parte importante della propria immagine.
Dalla contesa non escono vincitori né vinti. E neanche eroi da una parte o dall’altra. Corre semmai qualche brivido nell’osservare, dietro le quinte, le ombre di chi, mostrando la faccia sorridente, senza le maschere e i bavagli degli “anarchici”, anzi nel nome delle “istituzioni”, sta forse già pensando, oltre a qualche capro espiatorio, di mandare le ruspe anche in altri luoghi: non più nelle tane dei “molinari”, ma dove vivono coloro che osano pensare diversamente dai populisti e dai sovranisti. Le macerie non sono solo quelle dei mattoni buttati giù dagli operai: sono anche la metafora di una realtà che non si vorrebbe vedere in un paese democratico. Toccherà ora alle commissioni di inchiesta: ci saranno denunce e controdenunce, cioè lavoro per gli avvocati e superlavoro per i tribunali. Qualcuno ha già scelto per protesta di salire sull’Aventino. Qualcun altro canterà: “Addio, Lugano brutta!” La religione di questo paese, fatto di rivoluzionari improvvisati e di molti “oregiatt” (cioè di “taja e medega” che nel nome degli interessi di parte giustificano tutto, anche il Male: la coscienza, si sa, è più elastica di un elastico), vuole che si metta via il morto senza il prete.

  • Professore emerito, Università di San Gallo
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