Il corteo dei molinari e il teatro dell’assurdo
Discutere di autogestione a Lugano, negli ultimi mesi, è impresa delicata che non può prescindere dalla preoccupante spada di Damocle che continua a oscillare, minacciosa, sulla Città. Prosegue infatti l’inchiesta penale sui fatti di fine maggio all’ex Macello di Lugano, con la demolizione di quella che per lunghi anni è stata la sede dei «molinari». Ad oggi, i risultati delle indagini sono ancora imprevedibili. Fatta questa doverosa premessa, è innegabile che l’onda emotiva seguita all’abbattimento di quel luogo simbolico si sia decisamente attenuata, per non dire spenta, e che ora ci si trovi in una impasse che mette nuovamente a nudo i limiti di un’autogestione che a Lugano sembra vivere in un piccolo mondo a parte, se non addirittura in un’altra epoca. Il corteo (al solito non autorizzato ma tollerato), folcloristico per non dire bizzarro, di sabato scorso per le vie del centro di Lugano, con una città semi-paralizzata per pochissime centinaia di manifestanti, ha di fatto confermato che quando si parla di autogestione, sulle rive del Ceresio ci si rivolge in realtà a un numero limitato di persone.
Quella che è andata in scena è stata una sorta di rappresentazione goliardica a cielo aperto, con pure una capra a sfilare. E bisogna essere sinceri: tale surreale manifestazione non ha aggiunto nulla al dibattito sugli spazi
eventualmente da destinare a questa microcomunità che non vuole relazionarsi con una società che non riconosce come valida. Per gli ex-molinari, un’altra occasione persa. E non si sa quante altre ce ne potranno essere. Il Municipio è confrontato attualmente e fino al 28 novembre con la sfida decisiva sul PSE e sembra non preoccuparsi troppo di una problematica che non è più prioritaria, fatta astrazione naturalmente dell’inchiesta penale in corso. Si aprirà forse un varco per le trattative quando verranno resi noti i risultati dell’indagine. E per quel momento ci auguriamo che gli ex-molinari abbiano fatto chiarezza circa le proprie istanze. Nessuno contesta che sia politicamente corretto offrire spazi a esigenze e culture marginali che vengono dal basso, come quelle del CSOA o di quel che ne resta, ma tali luoghi, comunque la si pensi, dovranno sottostare a regole ben precise legate ai rumori molesti, agli orari e alle norme di sicurezza. È importante, affinché la storia non si ripeta, evitare che un nuovo centro ufficialmente di aggregazione torni ad essere una zona franca, un’area sigillata verso l’esterno in cui sono concessi diritti di ogni tipo, senza però alcun dovere. Il nuovo spazio, lo sa bene l’Esecutivo, una volta individuato dovrà dunque diventare inclusivo e non esclusivo per pochi.
È utile ricordare che i centri sociali nelle altre città svizzere sono riconosciuti e funzionano perché sono strutturati, propongono una reale offerta culturale alternativa e riescono così ad attirare persone di tutte le fasce d’età. A Lugano, oltretutto, non vi sono solo gli autogestiti a chiedere spazi e attenzione. Altri giovani, non per forza contestatori o politicizzati, hanno il legittimo desiderio di portare avanti le proprie attività in contesti più ampi: il Comune li conosce, avendo avuto in passato colloqui e incontri con loro. Sono minoranze silenziose, paradossalmente più dialoganti: occorrerà tenerle presenti, nell’ottica di una Città che non può certo privilegiare una fascia di giovani, solo perché più turbolenta, rispetto a un’altra.
Per concludere sugli autogestiti, essi non riconoscono l’Ente pubblico e non hanno delegati al loro interno che possano e vogliano instaurare una vera trattativa. La loro gestione assembleare continua a non portare a nulla. Una situazione che non è sbagliato, ormai, definire grottesca, tra chi avanza pretese senza di fatto palesarsi nelle sedi competenti e chi aspetta un interlocutore che non arriva mai. Una pièce da teatro dell’assurdo.
di Paride Pelli 27 ottobre 2021 – Corriere del Ticino
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