Conclusa l’inchiesta sulla demolizione del centro autogestito di Lugano. Intervista al magistrato

di Francesco Bonsaver

La parola fine non è ancora stata scritta. La chiusura delle indagini sulla demolizione dello stabile del centro sociale autogestito luganese il Molino nella notte di maggio, può considerarsi la fine di un capitolo, ma non dell’intera questione. Almeno un paio d’incognite restano tuttora aperte.

Prospettato per ben due volte, il decreto d’abbandono emesso lo scorso venerdì dalla Procura nei confronti dei due imputati, il capo delle operazioni di polizia e la municipale luganese, difficilmente potrà essere accettato da chi il danno lo ha subito. «Un’inchiesta finita in farsa» l’ha definita il Molino nel suo comunicato. E per quanto voluminosa nei suoi incarti, le conclusioni assolutorie a cui giunge l’inchiesta non convincono nemmeno una parte significativa dell’opinione pubblica a cui pare incredibile che le autorità possano demolire uno stabile nottetempo, senza licenza o perizie sulle sostanze pericolose, uscendone poi indenni dal profilo giudiziario. È la fiducia popolare nella giustizia, a trovarsi sul banco degli accusati. È quindi immaginabile l’inoltro di ricorsi alle varie istanze giudiziarie superiori alla ricerca di risposte alle criticità che l’inchiesta non ha saputo dissipare. Alcune criticità, area le ha sottoposte al Procuratore generale nell’intervista che segue. Ma il filone giudiziario è solo uno degli aspetti rimasti aperti sulla vicenda.

Il secondo è prettamente politico. La demolizione non ha posto fine alla questione dell’autogestione nel Luganese. Alcuni forse s’illudono che l’autogestione sia un discorso chiuso, morto e sepolto sotto le macerie del macello. Vi sono seri motivi per dubitarne.

Non sappiamo in che forma o quando sarà scritto il nuovo capitolo, ma vi sono seri indizi che presto o tardi tornerà a manifestarsi. La partecipata manifestazione post-sgombero (dalle due alle tremila persone), le numerose attività seguenti (di cui poco si è saputo sui media), inducono a pensare che il movimento non sia scomparso. E quando riemergerà, le autorità politiche cittadine saranno costrette nuovamente a confrontarvisi. Non sono certo segnali distensivi e di apertura al dialogo le dichiarazioni del neosindaco luganese Michele Foletti, che, intervistato dalla Rsi sul decreto d’abbandono, ha definito gli autogestiti “delinquenti”. Il conflitto resta aperto.

Procuratore generale Pagani, ci aiuti a far capire al lettore questo passaggio. La mattina dell’11 marzo, il municipio luganese decide lo sgombero del Centro sociale il Molino. Nel pomeriggio si costituisce lo Stato maggiore incaricato di dar seguito alla decisione municipale. Il primo atto dello Stato maggiore documentato nell’inchiesta è la mail dell’11 pomeriggio in cui si domanda cosa si possa abbattere. A quasi tre mesi di distanza, lo stabile viene demolito. A suo giudizio, è stata una decisione presa in urgenza. Come si spiega questa contraddizione?

Il 18 marzo il Municipio revoca l’ordine di sgombero una volta resosi conto che sia necessario seguire una procedura legale per intimare la disdetta della convenzione dell’ex Macello. A quel punto, l’attività dello Stato Maggiore si rallenta fortemente. A procedura non ancora conclusa completamente, attorno al 20 maggio il Molino indice la manifestazione del 29 maggio. A quel momento, lo Stato Maggiore si riattiva. Dopo l’occupazione del Vanoni, la polizia sgombera il Molino e per timore di una possibile rioccupazione dei manifestanti, ritiene che l’unica soluzione per evitare pericoli alle persone, sia demolire il tetto e una parete. Il municipio lo autorizza. Stando alla giurisprudenza, quella decisione presa nell’urgenza e nella necessità di salvaguardare l’incolumità delle persone è superiore ai danni cagionati dalla distruzione dell’immobile.

Facciamo un passo indietro. Il 6 maggio, lo Stato maggiore e due municipali, il sindaco Borradori e Valenzano, si riuniscono. Tra le varie cose dette, la polizia informa i municipali dell’ipotesi di demolire lo stabile in cui dormono gli occupanti. Nel verbale della riunione, vi è scritto «la rioccupazione è un elemento da considerare e quindi la ditta dovrà essere subito presente per eliminare l’infrastruttura». I due municipali negano l’accenno alla demolizione. Siamo alla parola di poliziotti contro quella dei politici. (qui l’articolo su versioni contrastanti)
Nel decreto d’abbandono, scrivo «pur facendo fatica a credere che durante la riunione non si sia accennato almeno genericamente all’ipotesi di una demolizione, può rimanere aperta la questione a sapere quale delle due posizioni sia quella aderente alla verità». Va poi specificato che Polizia e i due rappresentanti municipali avranno un secondo incontro a pochi giorni dal corteo del 29 maggio. E in quel rapporto, non si parla mai di demolizione.

La sera del 29 maggio, le versioni dei medesimi poliziotti e della municipale convergono invece sull’aver discusso la demolizione del solo tetto, escludendo la demolizione totale. Eppure lo stabile va giù.
È successo quel che ho definito «un malinteso dovuto ad un claudicante passaggio di informazioni all’interno della polizia». La comunicazione tra lo Stato maggiore a Bellinzona e chi coordinava le azioni sul posto ha fatto sì che invece di una demolizione parziale si demolisse tutto.

Interrogato, il titolare dell’impresa che demolì materialmente lo stabile, afferma: «Durante il sopralluogo si è parlato di demolizione dello stabile, non di smontaggio del tetto. Del resto per smontare un tetto occorre posare dei ponteggi e per di più la mia impresa non ha mai smontato tetti». L’ordine di cercare un’impresa che avesse la pinza demolitrice arrivò dallo Stato Maggiore a Bellinzona…
Sono convinto che all’origine dell’errore vi sia la malacomunicazione interna alla polizia, presa nella concitazione della serata del 29 maggio e a tutela dell’incolumità dei presenti. La paventata demolizione totale espressa in precedenza, era solo uno dei tanti scenari ipotizzati nel caso di sgombero.

Dato che l’autorizzazione alla demolizione, fosse anche parziale, la diede Valenzano Rossi a nome del municipio, non era più corretto definire imputati i municipali, invece del poliziotto esecutore?
L’inchiesta è un lavoro lungo, che si costruisce passo dopo passo. Dopo aver sentito il poliziotto in qualità d’imputato, mi sono convinto che il reato non fosse stato commesso. Questo perché, il reato di abuso di autorità presuppone, oltre al fatto materiale, l’intenzione di cagionare un danno a terzi. La giurisprudenza insegna che il reato non è riempito se l’autore crede di agire conformemente ai suoi obblighi. In altre parole, tra la scelta di salvare il tetto dello stabile o la salvaguardia dell’incolumità delle persone, l’aver deciso la demolizione parziale dal punto di vista giuridico è corretta.

Pubblicato Mercoledì 15 Dicembre 2021
Edizione cartacea Anno XXIV – N°20 – 17 dicembre 2021

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