IL COSTO DI UNA GUERRA

28 aprile 2005
Altri due morti sul lavoro. Democraticamente ripartiti uno al nord ed uno al sud, equamente suddivisi per fascia d’età, uno più grande al sud, ed un diciassettenne al nord. Anche la situazione contrattuale è equamente distribuita, uno in regola al sud ed uno in nero al nord.
Il democratico telegiornale di Rai tre si preoccupa dei costi, oltre che sociali, anche economici, in termini di giornate di lavoro perdute a causa degli infortuni. A seguito Fassino parla di sviluppo del paese. Ma i conti che non tornano sono sempre gli stessi: nel 2004 ci sono stati 1.400 morti sul lavoro, il che vuol dire quasi quattro morti al giorno. Questo è il costo di una guerra.
La maggior parte di questi incidenti d’altra parte si verifica nel settore dell’edilizia, quello che più di ogni altro è rimasto legato a sistemi produttivi vecchi, rapporti di lavoro improntati al massimo livello di sfruttamento e di ricatto grazie alla struttura delle imprese, in prevalenza medio - piccole e difficilmente controllabili. Ammesso che ci sia la volontà di controllarle.
E’ un dato che emerge ogni volta che nelle “grandi opere” si verifica un incidente mortale (come quello al Museo del Mare di Genova): la pratica del subappalto è la più diffusa, e questo significa che i lavori vengono affidati per l’appunto a imprese medio – piccole che si fanno beffa della tutela dei diritti e dell’incolumità dei lavoratori. Ditte che fanno uso massiccio di manodopera straniera per via dell’alto livello di ricattabilità: sono costretti a trovare un lavoro per non avere il foglio di espulsione o non finire nei lager denominati CPT. In ragione di questa ricattabilità devono accettare orari arbitrariamente imposti, paghe inferiori, condizioni di lavoro insopportabili, e come se questo non bastasse, devono subire spesso anche l’ostilità dei lavoratori italiani, che ancora non hanno capito il vecchio gioco del padrone, dividere i lavoratori per meglio controllarli.
In una situazione come questa, ben poco, o nulla addirittura, fanno i sindacati. Di fronte ad un tasso così elevato di mortalità, e di incidenti sul lavoro, anziché fermare tutto, finché non si sistemino le cose, fanno due ore di sciopero solo quando è inevitabile, gioiscono per accordi contrattuali raggiunti, omettendo il fatto che con quei contratti si è aggiunta solo un’altra maglia alla catena che lega i lavoratori dell’edilizia al carro dei padroni.
Perché non ci si chiede come mai il settore edile sia fra quelli che registrano il livello più basso di occupazione femminile?
Perché non ci si chiede come mai il livello di partecipazione dei lavoratori edili alle lotte della classe sia fra i più bassi in assoluto? O perché in questo settore come in pochi altri il caporalato continui a prosperare inosservato?
Le ragioni sono evidenti. In questo settore i profitti sono più che mai legati al grado di sfruttamento della forza lavoro. Le modalità stesse del lavoro, permettono interi settori di lavorazione occulta, fuori cioè da sguardi indiscreti, il che significa orari senza limitazioni, modalità di lavoro incontrollate, gestione diretta e dispotica della forza lavoro e della sua mobilità.
Come potrebbe il sistema capitalistico privarsi di una delle poche situazioni che ancora, nel Primo Mondo, consentono livelli di sfruttamento che richiamano sostanzialmente al Terzo Mondo? E come potrebbero i sindacati asserviti contrastare realmente tutto questo?
Lavorare a queste condizioni somiglia realmente al vivere una guerra, ma bisognerebbe che gli stessi lavoratori, per conto proprio, si rendessero conto del fatto che, se la loro situazione è invivibile, è anche vero che non si possono più aspettare aiuti dall’alto, o mani tese da parte di chi guarda più alle carriere sindacali ed alle poltrone di potere, visto che quello è il libro paga.
Sarebbe l’ora che i lavoratori dell’edilizia seguissero l’esempio di tanti altri lavoratori ed iniziassero ad autorganizzarsi, ma per fare questo, si devono innanzitutto abbattere le barriere che separano e talvolta contrappongono lavoratori italiani e lavoratori stranieri. Nessuno ruba il lavoro a nessuno, è il capitalismo che ruba pane e lavoro a tutti, e l’unico vero nemico sono i padroni.

 

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