Sul Manifesto e l’internazionalismo

Nel 1995, l’organizzazione armata ETA aveva diffuso un programma tattico nominato “Alternativa Democratica”, adeguamento alla fase della “Alternativa Tattica KAS”. La forma usata per rendere pubblica tale proposta, fu un video, che il partito di unità popolare Herri Batasuna (ma pure alcune televisioni di stato europee, prima quella tedesca, in seguito anche la RAI) diffuse in assemblee pubbliche per consentire al popolo basco ed a tutte le forze politiche, sociali e sindacali che vi trovavano spazio, di esprimersi. La reazione dello stato spagnolo fu di incarcerare l’intera Direzione Nazionale del partito. Esemplare la risposta del quotidiano sedicente comunista “Il Manifesto”, che continuò a definire Herri Batasuna un partito terrorista, facendo eco all’allora responsabile di relazioni internazionali di Rifondazione Comunista, che esprimendosi sull’appello alla solidarietà lanciato dal partito basco, disse che non avrebbe fatto ritirare le firme concesse in seno al suo partito solo per non dare maggiore risalto a quel partito di terroristi.
Questo non per recriminare, ma al contrario, per rimarcare come il tipo di atteggiamento denunciato da* compagn* di Euskal Herriaren Lagunak, sia biologico di (de)formazioni che nulla hanno a che vedere nella realtà col titolo ideologico di cui si fregiano.
Ritengo che la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, abbiano ampiamente dimostrato di che pasta sono fatti, dalla partecipazione a governi antioperai, alle leggi contro gli immigrati, fino, non in ordine di tempo, al sostegno alle guerre imperialiste. Sarebbe anche l’ora di lasciare affogare questi soggetti nella loro miseria.
Più importante invece credo sarebbe riflettere sulla situazione dei tre popoli, quattro con i lavoratori dello stato italiano, che convocano la manifestazione di sabato 21 febbraio, e sulla parola d’ordine che la caratterizza: “Molti popoli, una sola lotta”.
L’occasione da cogliere è importantissima. Tantissimi infatti i problemi in comune fra questi quattro paesi, senza cadere in tematiche di tipo umanitario che, per quanto incontestabili, da sole sviano l’attenzione dalle questioni di maggiore importanza.
Potremmo iniziare col discorso sulla “democrazia”, più precisamente su quel fenomeno che maggiormente dovrebbe caratterizzarla, le “libere” elezioni.
In Euskal Herria, è ormai fenomeno consueto che le liste della Sinistra Abertzale vengano interdette, con corollario di arresti di militanti e aggressioni alle manifestazioni. In occasione della prima di queste interdizioni, quella di Batasuna, e per retroattività di Herri Batasuna, un ministro dell’allora governo Aznar disse con chiarezza e senza falsi pudori, che al di là dello scopo politico di levarsi dai piedi un partito scomodo, la sua esclusione dalle istituzioni, anche locali, avrebbe dato via libera a tanti appalti e speculazioni che fino ad allora avevano bloccato nei comuni in cui erano alla direzione. Certamente un popolo combattivo, una classe lavoratrice pronta a rispondere colpo su colpo, da fastidio all’oligarchia spagnola (non dimentichiamo che una buona parte di essa è composta dalla borghesia imperialista basca); ma quando si tratta di affari, allora non c’è ostacolo che tenga.
In Palestina, le ultime elezioni sono state vinte dal partito Hamas. Immediata la reazione di Israele, USA ed Unione Europea, con blocco delle frontiere, blocco dei finanziamenti, embargo anche peggiore di quello cui è sottoposta Cuba. Promozione di un colpo di stato per rimettere in sella il governo amico di Abu Mazen, aggressione e pratica di sterminio nella Striscia di Gaza, mentre in Cisgiordania prosegue la repressione “interna”/esterna dei militanti di organizzazioni scomode, soprattutto il FPLP. Dietro fra l’altro ci sono le mire sui pozzi di gas al largo di Gaza.
Nello stato turco, non solo le organizzazioni kurde, ma anche i comunisti della Turchia vengono messi fuorilegge, perseguitati, aggrediti quanti praticano o sostengono la solidarietà allo sciopero della fame dei prigionieri politici, le manifestazioni proibite. Petrolio in Kurdistan? Mah...
Nello stato italiano dei Pulcinella, l’Esecutivo nel suo piccolo si leva di mezzo quelle sacche fastidiose di media e piccola borghesia “progressista” rappresentata dai partiti della mal definita “sinistra radicale”. Lo strumento è lo sbarramento alle elezioni. Ristrutturazione, crisi...
Il tutto dimostra solo una cosa, e cioè il fatto che in una fase di crisi come quella che dura ormai da tre decenni, la borghesia imperialista non ha alcuna intenzione di concedere spazi ancorché formali che possano ostacolare il suo cammino. In poche parole, la lezione è che se le elezioni servissero davvero a qualcosa, sarebbero proibite.
Altro punto in comune fra i quattro paesi in questione, è quello relativo al flusso in due direzioni di forza lavoro, immigrazione ed emigrazione. Il dominio raggiunto complessivamente sul pianeta da parte del sistema capitalista, seguendo il gioco delle convenienze economiche, spinge milioni di persone ad abbandonare la propria terra ed il proprio ambiente alla ricerca di migliori, o anche solo maggiori, possibilità di sopravvivenza, dato che la ricerca del massimo profitto genera carestie, disoccupazione e guerre da cui la forza lavoro è costretta a fuggire, o a subire l’eterno ricatto di condizioni di vita e di lavoro sempre peggiori. È un dato questo che accomuna tutto il mondo. Negli USA, che respingono a fucilate i messicani che tentano di entrare lungo la frontiera fortificata, mentre i lavoratori interni, travolti dalla crisi, saranno costretti ad accettare riduzioni di salario, ambienti ed orari di lavoro disumani, a meno che non accettino di andare a farsi ammazzare per lo Zio Sam in una qualsiasi delle sue guerre in giro per il mondo. Nell’Unione Europea, quella che vede morire per annegamento, stenti o incidenti di vario genere quanti tentano di immigrare; che rinchiude quanti ci riescono nei campi di concentramento, che sottopone quanti ne escono a leggi razziali e situazioni di sfruttamento estremo, mettendo loro contro i lavoratori interni, esasperati dalle sempre più precarie condizioni di lavoro e di vita ed intossicati dalla propaganda razzista. In quello che veniva definito Terzo Mondo, dove, se non ti arruoli in qualche guerra definita “tribale”, in realtà che ti porta a morire per garantire a questa o quella multinazionale il controllo sulle materie prime, puoi scegliere fra morire di fame, malattie, rappresaglie, o tentare la fortuna attraverso mille pericoli nel mondo che cerca di apparire così ricco e benestante. Come lo stato italiano, che attrae, rifiuta, sfrutta, lascia morire, lusinga, discrimina, a seconda delle esigenze produttive, i lavoratori “stranieri”, nello stesso tempo in cui fa scempio delle conquiste ottenute dai lavoratori con le lotte dei decenni precedenti. Al giorno d’oggi, nei posti di lavoro ci sono situazioni paradossali per cui quattro lavoratori che svolgono le stesse mansioni, possono avere quattro tipi di contratto diverso. E con l’attacco al contratto nazionale che viene portato di questi tempi, l’avvento della contrattazione diretta individuale, porrà il timbro definitivo sulla sconfitta.
È per questo, per arrivare al punto, che la parola d’ordine che convoca la manifestazione, è importante, e può essere dirompente se interpretata ed applicata alla lettera. Molti popoli, una sola lotta. Anche se a questo punto sarebbe più appropriato dire “una sola classe, una sola lotta”, perché l’unico scontro realmente determinante a questo punto è quello fra la classe dei lavoratori, dovunque si trovino e da dovunque ne vengano, e la classe degli sfruttatori ed i loro servi. E l’unica direzione praticabile per noi lavoratori, è quella della comunità di interessi e delle lotte. Ci sono esempi più che validi di solidarietà fra lavoratori, dal sostegno alla lotta dei lavoratori INNSE, a quella vittoriosa alla Bennet di Origgio; da quella dei cassintegrati Alfa di Arese per far ottenere un contratto degno ai lavoratori stranieri delle cooperative, a quella degli operai delle Riparazioni Navali di Genova per parificare le condizioni salariali a 200 lavoratori fatti venire dalla Romania.
Sono pratiche esportabili e da prendere ad esempio, perché quando gli operai di Bilbo, di Pomigliano, i lavoratori di Palestina, scendono in lotta per conquistare il loro diritto all’esistenza contro i profitti dei padroni, diventano tutt’uno con gli interessi della resistenza a Gaza, nel Kurdistan, in Euskal Herria come nell’America Latina.
Ed a questo punto, fanno scomparire nell’oblio quanti, Manifesto o Rifondazione o finti comunisti di ogni genere, tentano di farsi belli sulle spalle dei lavoratori.
Sarebbe una vittoria grandissima se la manifestazione di sabato 21 sapesse fare propria in questo senso la parola d’ordine dell’internazionalismo. Ci vediamo in piazza.


Stefano, operaio di Genova.

 

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