10 novembre 2003. Sciopero di otto ore dei lavoratori edili della Liguria. Il tema è quello della sicurezza sul lavoro, della regolarità dei contratti, degli appalti, contro il lavoro in nero. Il motivo è l’ennesima sciagura capitata sul lavoro. Un lavoratore, questa volta di nazionalità albanese, Albert Kolgjegja, di 30 anni, è morto schiacciato dalle solette di cemento armato che gli sono franate addosso sabato. Altri lavoratori sono rimasti feriti. Credo che non sarà mai possibile sapere ufficialmente il numero, dato che alcuni si sono fatti medicare alla chetichella, ed altrettanto frettolosamente si sono dileguati. Facile intuire le ragioni: molti di loro lavorano in nero. Alcuni probabilmente non hanno il permesso di soggiorno e temono, oltre alla perdita del posto di lavoro, il rimpatrio coatto. Al presidio, davanti al luogo del disastro, nel momento di massima affluenza, ci saranno al massimo duecentocinquanta o trecento persone. Apparentemente, sui ponteggi sparsi per Genova, non c’è nessuno, ma qua e là può capitare di sentire rumori di tubi smossi, o passi sulle pedane e sulle tavole. E’ un mondo a se l’edilizia. Nell’era informatica, della robotica, dell’alta tecnologia, qui siamo ancora al Medio Evo. Pochissime le innovazioni tecnologiche, praticamente nulle quelle sul piano contrattuale, o dei rapporti di lavoro, o dei rapporti fra operai. Rarissimo trovare lavoratrici donna, e non solo per questioni di pesantezza del lavoro, dato che molte donne potrebbero pacificamente fare le stesse cose di molti uomini, soprattutto se le regole dettate dalle varie leggi in merito ai carichi di lavoro venissero applicate. E’ solo che qui ancora si ragiona come ad inizio del secolo scorso. Al presidio, capannelli di lavoratori delle grandi imprese; sparsi qua e là pochi operai delle piccole e medie, per lo più da soli. Molti volti stranieri. Albania, nord Africa, Sud America, ma se si volesse guardare con occhi non foderati da razzismo e nazionalismo, si vedrebbe, e si sentirebbe dalle lingue ed i dialetti parlati, che qui inizia il sud del mondo, rappresentato da una fascia che comprende il sud dell’Europa ed il nord dell’Africa, e si estende fino oltre le Colonne d’Ercole del sedicente benessere. Solo che così non è. Alcuni lavoratori cercano di fissare uno striscione del sindacato ad una griglia. Un ragazzo sudamericano porge ad uno di loro un pezzo di filo elettrico trovato per terra, per legare bene l’asta. L’altro lo guarda non esattamente in modo benevolo, poi si gira dall’altra parte e prende un pezzo di fil di ferro che mani italiche gli porgono. Un capannello sta parlottando e facendo commenti su una ragazza che “se la fa con i marocchini”, perché si è fermata a parlare con tre lavoratori nordafricani. E’ l’edilizia delle gerarchie intoccate, del razzismo mai nascosto, quello in cui i tiepidi sindacati confederali stentano ad attecchire, figuriamoci il sindacalismo di base. Il mondo dei mille ricatti, da quello sfrontato del posto di lavoro a quello morale del padrone “buono”. Un mondo fatto ad infinite scale, dove basta essere addetti ad un attrezzo solo un po’ più avanzato di una pala per considerarsi superiori ad un altro, e di conseguenza comportarsi. Dove anche il linguaggio rimane feudale, dato che al manovale non si dice di aiutare il muratore, ma di servirlo. Su questo ha ovviamente buon gioco la frammentazione, dato che le imprese veramente grandi sono poche, e fra l’altro, sempre più ricorrono al subappalto a piccole e medie imprese, senza troppo curarsi della regolarità del loro operare. Infatti, anche sul cantiere di questo crollo, c’erano operai che se n’erano andati un po’ per questioni di sicurezza, dato che in piccolo l’incidente si era già verificato tempo fa, un po’ perché i caporali non li pagavano, e nemmeno sapevano esattamente per chi lavoravano. E’ nella piccola impresa, dove sei in pochi dipendenti, sei sempre sotto l’occhio e la mano diretti del padrone, che continua a regnare col sistema del ricatto, dei soldi fuori busta, delle mansioni che possono migliorare come peggiorare, a seconda del tuo livello di sottomissione. Ben poca meritocrazia (cosa anche questa ben poco accettabile), molta attenzione ai tempi di lavoro sempre più frenetici, all’abbassamento delle paghe orarie, al non pagare i contributi, o pagarne meno possibile. Il tutto grazie ad un clima di pressoché assoluta mancanza di solidarietà fra i lavoratori, un po’ perché in questo settore finiscono prima o poi tutti quelli che non hanno mai trovato posto negli altri, o che ne sono stati buttati fuori in tempi, modi e con motivi diversi, un po’ perché nessuno si è mai preso troppo la briga di mettere il naso per verificare in che condizioni siamo costretti a lavorare. E non solo per il discorso delle vessazioni che, chi più chi meno, siamo costretti a subire (con scarsissime eccezioni per chi ha la fortuna di lavorare per piccole imprese con padroni non affamati di profitti), ma anche per la sicurezza, argomento che solo chi realmente lavora in edilizia può conoscere. Le norme antinfortunistiche, in molti casi, sono paradossalmente inutili o addirittura pericolose, perché sfido chiunque a muoversi agilmente come è richiesto sui ponteggi indossando casco, grembiule, maschera contro le polveri, occhiali contro le schegge, eccetera eccetera. A cosa sarebbero poi servite tutte queste bardature ad Albert? Come può un caschetto di plastica salvarti da cinquanta e più quintali di cemento armato che ti crollano addosso? Non sarebbe piuttosto il caso di stanare imprenditori e politici dai loro salotti di ipocrisia, dai quali tuonano contro “i responsabili” (e chi, se non loro, è veramente responsabile?), ed inchiodarli all’evidenza che solo il ridurre i carichi ed i tempi di lavoro, può consentire di lavorare nel rispetto delle misure di sicurezza; solo l’abolizione del sistema clientelare dell’appalto/subappalto e del profitto facile può rendere sicure le strutture di un cantiere; ma questo, applicato al mondo del lavoro in generale, vorrebbe dire abolire il sistema dello sfruttamento, abolire il regno del profitto. Per questo non se ne parla. Intanto, mentre mi allontano dal presidio, di là da una griglia, in un cantiere tanto vicino a quello del crollo da toccarlo quasi, un italianissimo e solerte lavoratore edile, si affretta spingendo una carriola. Aspetto di conoscere i dati dell’adesione allo sciopero. Ma non sono troppo fiducioso. Spero solo che passi più tempo possibile, prima del prossimo Albert.