Uno dei punti che caratterizzano lo Stato, strumento specifico per il controllo
della società da parte della classe dominante “è l’istituzione
di una forza pubblica che non coincide più direttamente con la popolazione
che organizza se stessa come potere armato. Questa forza pubblica particolare
è necessaria perché un’organizzazione armata autonoma della
popolazione è divenuta impossibile dopo la divisione in classi. (...)
Questa forza pubblica esiste in ogni Stato e non consta semplicemente di uomini
armati, ma anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere.
(...) Essa (...) si rafforza nella misura in cui gli antagonismi di classe all’interno
dello Stato si acuiscono”
(Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata
e dello Stato)
È un segno dei tempi il fatto che, a sette anni circa di distanza, quanto
accaduto a Genova nel luglio del 2001, come pure i conseguenti strascichi, continuino
a destare stupore ed indignazione.
Dopotutto non è successo nulla di così diverso da molte altre
volte in cui la popolazione di questo o quel paese sia scesa in piazza per cercare
di interrompere l’inesorabile avanzare dello schiacciasassi capitalista.
La storia di queste lotte è costellata di morti “giustiziati”,
abbattuti per strada, incarcerati, torturati, eccetera. Ed il fatto di abbassare
i livelli di aggressività o delle richieste in dette manifestazioni,
non è mai stato garanzia di minor livello repressivo, soprattutto quando
si parla di capitalismo in crisi e furiosamente alla ricerca di mantenere le
proprie quote di profitto.
Così non è strano che la repressione appunto si sia abbattuta
su chiunque sia sceso in piazza in quei giorni. Semmai strano è il non
aver notato i segnali abbondanti che avvisavano di tale repressione.
A Napoli (occorre ricordarlo, con governo di “centrosinistra”) i
manifestanti erano stati rinchiusi e pestati senza scampo in una piazza.
A Goteborg, solo l’errore di mira del poliziotto che ha sparato ha fatto
sì che non ci fosse il morto. Chi ha visto il filmato lo può confermare.
A Genova, il dispiegamento di forze, sia nella quantità, sia nella qualità
di queste forze (incursori, reparti speciali dei carabinieri e dell’esercito
impiegate in scenari di guerra, equipaggiamenti particolarmente avanzati) rendeva
manifesto quello che in effetti è successo dopo: la città è
stata presa militarmente, e le decine e centinaia di migliaia di manifestanti
sono stati utilizzati come bersagli di un addestramento alla repressione di
una sommossa popolare.
Niente truppe sfuggite al controllo, niente panico e disorganizzazione, o ragazzini
sprovveduti. Le linee del comando erano saldamente collaudate e coordinate.
Indicativa anche la presenza nella sala operativa di tre esponenti di AN, partito
che, oltre ai legami di parentela diretti (fratello di Gasparri alto ufficiale
dei Carabinieri), da anni lavora capillarmente per radicarsi nelle forze armate,
che occorre ricordarlo, non sono più i “figli del popolo”
di cui parlava Pasolini, ma professionisti addestrati e lautamente ricompensati.
L’equipaggiamento, il numero dei colpi sparati, le percosse e le torture
inflitte, la spedizione punitiva alla Diaz, tutte cose già ampiamente
commentate.
Ma come sottolinea la citazione da Engels, la forza pubblica non si compone
solo di uomini armati; di essa fanno parte anche settori che dovranno in seguito
ed a titolo più duraturo gestire ed amministrare la repressione: istituti
di pena, e magistratura, anch’essa parte di questa forza pubblica.
Ecco perché appare abbastanza desolante vedere quanta gente, anche uomini
e donne che hanno vissuto le lotte degli anni ’60 e ’70, in lacrime,
stupiti ed indignati per sentenze che non rispondono alle loro aspettative.
Come se si potesse sperare che la mano sinistra punisca quel che ha fatto la
destra.
È ingenuità pura sperare che uno Stato ordini tramite un suo funzionario
un’azione repressiva di una certa intensità, vista l’efficienza
lo promuova a ruolo di maggiore responsabilità, dopodiché, lo
punisca per soddisfare la voglia di giustizia degli oggetti della repressione.
Ma d’altra parte è ingenuità tipica dei tempi, in cui si
usano impropriamente termini come “globalizzazione”, “neoliberismo”,
“impero”, senza rendersi conto che si sta parlando sempre della
stessa bestia, lo sfruttamento capitalista, confondendone anzi la percezione
proprio dandogli mille nomi.
E di questa ingenuità hanno responsabilità enormi tutte quelle
forze politiche e sindacali della “sinistra” che per decenni, ma
tuttora lo fanno, hanno incitato i lavoratori ai sacrifici per salvare il paese,
la produzione, l’economia; che hanno additato, denunciato e consegnato
nelle mani della repressione quanti non si adeguavano ai loro giochi di potere
e poltrona; proprio quelli che nei giorni del G8 di Genova chiedevano a gran
voce perché la repressione ha colpito loro e non i Black Bloc, accreditando
così le menzogne dello Stato inventate per giustificare in maniera ipocrita
una repressione di massa in realtà voluta e pianificata freddamente.
L’unico modo per trarre profitto dagli insegnamenti di quei giorni in
realtà consiste nel buttare nella spazzatura tutte le illusioni e le
menzogne che continuano a rifilarci in nome di un presunto progresso: sacrifici,
guerre, miseria, sfruttamento, individualismo, e si torni a sentirci tutti e
tutte parte di un’unica classe che ha rispetto se stessa un unico dovere,
quello di liberarsi del capitalismo.
So che può sembrare semplice teoria, ma è la pratica nella storia
a dire questo, non certo io, e d’altra parte, non c’è bisogno
di formule magiche pronunciate da questo o quell’intellettuale per capire
che non si può più subire e starsene a piangere.