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Ristrutturazione e processo penale
Tratto dall'intervento dell'Avvocato Giuseppe Pelazza tenuto all'assemblea sulla repressione organizzata l'11 Febbraio 2000 dal Centro Popolare Autogestito di Firenze. Pubblicato su Senza Censura n. 2 - giugno 2000 Con questo intervento vorrei provare a fornire degli spunti di analisi per una riflessione su alcuni aspetti della azione repressiva (anche in via preventiva) dello Stato nei confronti dei movimenti o comunque di chi fa parte di quelle aree che sono comunemente definite del "disagio sociale". In particolare è interessante esaminare la stretta connessione che lega la situazione dei rapporti di forza tra le classi, nei diversi periodi e il sistema legislativo nel suo complesso, analizzando il sistema penale in parallelo con la legislazione sociale (previdenza, spesa sanitaria, assistenza) e con il diritto del lavoro. Infatti, a fronte dello smantellamento delle legislazione previdenziale ed assistenziale, della legislazione a sostegno dell'occupazione e di tutela della stabilita dei posti di lavoro, é maggiore l'esigenza dello Stato di affrontare il malessere sociale provocato dalle proprie scelte politiche con meccanismi di repressione e controllo, basati sull'utilizzo degli apparati direttamente gestori della violenza istituzionale. Se vogliamo riandare un po' indietro negli anni, possiamo ricordare come alla fine degli anni sessanta, sull'onda di una situazione economica espansiva e di lotte operaie molto avanzate, si verificarono significative innovazioni sul piano della legislazione del lavoro: la legge sui licenziamenti individuali è del 1966, lo Statuto dei Lavoratori di cui si sta ora preparando, anche attraverso il referendum abrogativo del suo articolo 18, il completo scardinamento - è stato approvato nel 1970. Contemporaneamente, a fianco dell'azione nascosta di settori dello Stato, violentemente repressiva attraverso lo stragismo, sul piano penale si verifica uno sviluppo in senso democratico o garantista. Ad esempio, si può citare la c.d. legge Valpreda, ricordando come, alla fine degli anni 60/primi 70, ci fosse il divieto di concessione della libertà provvisoria per chi era imputato di gravi reati: bene, a seguito del forte movimento di massa per liberare Valpreda e denunciare le responsabilità dello Stato nella strage di Piazza Fontana, venne approvata, nel 1972, una legge, che appunto, fu detta "Valpreda", per consentire, anche in quei casi in cui era vietata, la concessione della libertà provvisoria. Proprio in concomitanza, inoltre, con l'uccisione di Pinelli nella Questura di Milano era entrata in vigore, e sembra paradossale, la legge (dicembre 1969) che non consentiva più l'interrogatorio del fermato da parte della polizia. E' poi a metà degli anni settanta (dopo che la tutela dei diritti operai aveva avuto anche significativi sviluppi sul piano giudiziario) che, con una "svolta", comincia l'attacco alle condizioni materiali di vita dei lavoratori ed alle condizioni di lavoro nelle grandi fabbriche: è di quegli anni, ad esempio, la campagna contro il cosiddetto "assenteismo", in realtà vero e proprio attacco ai lavoratori che si ammalano perché non ce la fanno a reggere i ritmi e a quei lavoratori giovani e un po' marginali che teorizzano, poiché ci sono cose migliori da fare che stare alla catena di montaggio, il rifiuto del lavoro. Se in quegli anni, dunque, iniziano grossi cambiamenti sul piano del diritto del lavoro, con una strisciante "regressione" delle tutele, anche sul piano penale le cose si muovono e, nonostante non si siano ancora verificati significativi episodi di violenza armata (l'uccisione del procuratore generale di Genova, Coco, da parte della Brigate Rosse è solo del 1976), viene decisamente rafforzato l'armamentario repressivo con l'approvazione di leggi sempre meno rispettose della Costituzione e delle garanzie dei cittadini. Del 1974, ad esempio, è la legge sulle armi (cd legge Bartolomei), che introduce elevati aumenti di pena, e del 1975 è la legge che equipara le bottiglie incendiarie alle armi da guerra, prevedendo, inoltre, delle ipotesi di reato basate sul "tipo di autore", cioè legate alla identità politica di chi commette il reato, per cui chi detiene anche una sola bottiglia molotov ma "al fine di sovvertire l'ordinamento dello Stato" è punito con il carcere da cinque a quindici anni. Dello stesso anno è la legge Reale, che estende, fra l'altro, il cosiddetto "uso legittimo delle armi" da parte della polizia anche al fine di impedire la commissione di gravi delitti, opzione evidentemente larghissima, cosicché da quel periodo (fin dai mesi in cui si discute dell'approvazione della legge e per l'effetto della galvanizzazione delle forze dell'ordine che questo comporta) comincia la nuova epidemia di uccisioni ai posti di blocco, in operazioni di polizia e in manifestazioni (possiamo ricordare, ad esempio, Giannino Zibecchi, Rodolfo Boschi, Anna Maria Mantini, Pietro Bruno, Mario Salvi, Francesco Lo Russo, Giorgiana Masi e molti altri). Sia contro i movimenti di massa di quegli anni, in particolare il "movimento del '77", verrà poi utilizzato il complessivo armamentario repressivo, compresi i reati associativi (che in questo periodo stanno tornando di moda...). Ad esempio, si inseriscono nello schema della banda armata fatti di massa, come espropri nei supermercati, irruzioni in sedi PSDI o di Comunione e Liberazione, nonostante sia evidentissima l'inesistenza, in questi ambiti politici, di organizzazioni rigidamente strutturate, con ripartizioni di ruoli e compiti, dotazione stabile di armi ecc... Alla fine degli anni '70 inizia così il completo snaturamento del processo penale, che dovrebbe essere, per sua essenza, momento nel quale si discute di un certo fatto di fronte alla collettività, verificando l'esistenza o meno di prove a carico di chi è accusato, e valutando, se sussiste la prova della colpevolezza, la "quantità" di punizione in relazione, principalmente, alla gravità del fatto commesso. Ora, invece, il processo si trasforma in un meccanismo da usare "contro" un ambito sociale e politico, e viene a cadere definitivamente ogni parvenza di "terzietà" nell'esercizio della funzione giurisdizionale. L'utilizzo politico della magistratura, di cui tanti da destra oggi si dolgono, nasce proprio in questi anni. Sul piano legislativo, inoltre, viene reintrodotto l'interrogatorio di polizia, mentre il diritto di difesa inizia ad essere scardinato: è del 1978 la legge che stabilisce che l'imputato dopo due espulsione dall'aula (come se il processo fosse una partita di pallacanestro...) non ha più diritto di presenziare al dibattimento, cosicché il processo può essere fatto anche in sua assenza. Ma sono poi il centro e il fine del processo che cambiano radicalmente: non si valuta più la gravità dei fatti commessi, ma si valuta la quantità di omologazione dell'imputato (e la prova sui fatti non ha perciò più importanza) ai valori dominanti: è il decreto Cossiga, della fine del 1979, a introdurre i primi elementi della premialità con l'art. 4, che riduce le pene a chi collabora, e a estendere il meccanismo della colpa d'autore con l'art. 1, che aumenta della metà le pene per tutti i reati commessi per finalità di eversione Nel maggio 1982 entra poi in vigore la legge sui pentiti, che prevede per i collaboratori sconti di pena ancora più consistenti, e in realtà, riferendosi ai reati commessi fino al gennaio 1982, non ha alcuna finalità operativa per il futuro, per cui è manifesto il suo scopo di adempiere alle promesse fatte, dagli organi di polizia e dalle Procure della Repubblica, ai vari grandi pentiti della lotta armata arrestati all'inizio degli anni '80 (Peci, Barbone, Sandalo, Viscardi e cosi via). Il fatto che il processo non abbia più il suo centro nell'accertamento probatorio, ma nella valutazione - come dicevo - dell'omologazione dell'imputato, si riflette immediatamente anche sul carcere, poiché la differenziazione degli imputati secondo l'identità ha il suo preciso riscontro nella collocazione carceraria. Se nel 1975 c'era stata la riforma in senso democratico della legge penitenziaria, l'unica applicazione concreta della legge, sul piano della detenzione politica, era stata quella del suo art. 90, dell'articolo, cioè, che negava i contenuti e l'applicazione della riforma negli istituti di pena ove vi fosse un clima di particolare tensione. Riferendosi a questo articolo, e al di fuori di ogni previsione legislativa, venne addirittura costruito un circuito ad hoc di carceri speciali, le varie Trani, Cuneo, Pianosa, Nuoro, Asinara, Novara, Fossombrone, Palmi ed altre. Carcere speciale voleva dire colloquio con i parenti e con il difensore attraverso i vetri, ispezioni corporali umilianti quando il prigioniero andava al colloquio o era tradotto alle aule processuali, e, visto che al peggio non c'è mai limite, c'erano anche i cosiddetti "braccetti della morte", dove poteva andare a finire chi comunque era giudicato particolarmente poco lealista, e quindi costituivano un ulteriore "deterrenza". Qui c'era l'isolamento ventiquattro ore su ventiquattro, quattro ore d'aria alla settimana, fatte in una specie di corridoio con delle grate in lamelle anche in alto, quindi senza possibilità di vedere il cielo se non in corrispondenza della perpendicolare di ogni singola apertura della grata, impossibilità di tenere più di un libro alla volta (e comunque della biblioteca del carcere), possibilità di tenere una sola matita e cinque fogli protocollo timbrati e vistati dal maresciallo, blocco totale della corrispondenza, impossibilità di qualunque forma di spesa e divieto di tenere i normali apparecchi per cucinare qualcosa. Una situazione, dunque, di vero e proprio annientamento: a questo punto, perciò, se l'imputato che deve partecipare al processo è mantenuto in simili condizioni, non aveva alcun senso riferirsi al diritto di difesa o alle garanzie processuali. Lo sviluppo di questa impostazione ha poi portato a fatti che, apparentemente, sembrano "deviazioni dalle regole", ma che, in realtà, non erano altro che ulteriori conseguenze di questo tipo di meccanismo: mi riferisco ai numerosi casi, documentati, di torture vere e proprie compiute in quegli anni. Si può ricordare, ad esempio, che dopo il caso Dozier, generale della NATO nel nord est dell'Italia, rapito dalle Brigate Rosse partito comunista combattente nel gennaio 1982, venne tenuta una riunione del Comitato Interministeriale per la sicurezza che adottò nuove misure contro il terrorismo (così intitolarono i giornali); ma queste nuove misure non furono mai rese pubbliche, non presero mai forma di decreto o regolamento. Però, dopo quella riunione, incominciarono i fatti di tortura, fatti di tortura molto pesanti, come ebbero a patire gli arrestati per il caso Dozier, e come dimostrano queste citazioni, tratte dal decreto di citazione a giudizio dei poliziotti torturatori: "... lo caricavano, con mani e piedi legati, con gli occhi bendati, nel bagagliaio di un'autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta dove Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e alle minacce descritte nel capo seguente... violenza consistita in percosse in varie parti del corpo, minacce consistite nell'esplosione di un colpo d'arma da fuoco e successivamente ancora violenza consistita nel legarlo su un tavolo sul quale era stato steso e facendogli inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca e, permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli impedito di respirare con il naso e facendogli ingoiare una grande quantità d'acqua..." e ancora "nella provocazione di ustioni alle mani e in altre parti del corpo, nonché in una serie di ferite provocate al polpaccio della gamba sinistra con strumenti taglienti ed acuminati e nella somministrazione di scariche elettriche mediante applicazione di strumenti idonei..." Evidentemente, in questo contesto, i processi non avevano più alcuna ragione d'essere. Fra l'altro, una curiosità: il Parlamento negò l'autorizzazione a procedere nei confronti del capo dei torturatori, nel frattempo eletto deputato nelle liste del PSDI, mentre per gli altri poliziotti si arrivò ad un proscioglimento, in Cassazione, per la prescrizione dei reati.... Il modello processuale basato sulla differenziazione per tipologie degli imputati (pene esorbitanti per chi si difende o rivendica, sostanziale impunità per i pentiti) diventa ancora più sofisticato nel 1986-87. quanto viene approvata la legge sulla dissociazione, che spinge l'imputato ad allinearsi ai valori dominanti con la promessa della non punibilità del reato associativo e dei reati connessi a patto che vi sia una espressa dichiarazione di rifiuto della violenza come metodo di lotta politica. E, penso, appare veramente abominevole richiedere questo tipo di dichiarazione a soggetti sottoposti al massimo di violenza istituzionale da parte dello Stato. Senza contare che una simile affermazione di principio cozza contro il dato di fatto che la violenza, volenti o nolenti, è un metodo di lotta che sta purtroppo, nella natura stessa della politica. Ed è paradossale il pensare che i legislatori che allora pretendevano questa dichiarazione, diedero, negli anni successivi, il via libera a spaventosi massacri di massa con i bombardamenti prima sull'Iraq e poi sulla Repubblica Yugoslava. Tornando al tema del processo, è forse interessante ricordare che è nei processi di quegli anni che inizia ad essere esteso a dismisura il "concorso morale", che si ritrova poi nella impostazione accusatoria dei processi, ben più piccoli, di oggi, per fatti, che so, di centri sociali, occupazioni, resistenze, radunate sediziose e così via. Concorso morale significava, allora, che la sola presenza, per esempio, nella direzione di una colonna BR, implicava automaticamente la responsabilità penale per tutti i fatti riconducibili alla colonna stessa, senza alcun bisogno di provare un effettivo apporto causale al verificarsi di quei fatti. Cosi, oggi, nei processi per manifestazioni, il semplice dato della presenza è, per l'accusa, sufficiente a incriminare per concorso in radunata sediziosa, resistenza e quant'altro. Vale la pena, a questo punto, di sottolineare che questo spostamento del processo sul piano dell'identità dei soggetti, non è poi, superata la cosiddetta "emergenza", stato fatto oggetto di ripensamenti. Si deve cioè avere ben chiaro che in questi anni non si è andati avanti per emergenze: le emergenze non esistono! Abbiamo, invece assistito allo svolgersi di un preciso disegno di rimodellamento dello Stato che aveva, ed ha tuttora, una sua chiara logica. Questo rimodellamento in senso autoritario si e sviluppato in modo sofisticato perché i livelli di garanzia e democraticità precedenti non erano più ritenuti compatibili con la situazione economica e sociale che si andava prefigurando. Ad esempio, il nuovo codice di procedura penale, che è stato ritenuto da molti un modello positivo di svolta (il rito accusatorio di tipo anglosassone e fandonie di questo tipo), è in realtà un modello che può vivere solo sviluppando al massimo i cosiddetti riti alternativi, come il patteggiamento, nel quale lo schema del controllo dell'identità del soggetto è in massima evidenza: a proposito di omologazione dell'imputato al sistema basta pensare che é l'imputato stesso che chiede di essere condannato a quella pena che egli stesso ritiene giusta, e la contratta con il PM. Questo è diventato il nuovo centro della routine del processo penale che, per quanto riguarda le garanzie, ha visto reintrodurre, ad esempio, le cosiddette dichiarazioni spontanee dell'imputato (e tutti sanno che sono "spontanee" proprio perché sono rese in balia dei poliziotti e in assenza del difensore). Elemento nient'affatto secondario di questa progressiva trasformazione dello Stato è stata la clamorosa rottura della legalità costituzionale attuata nel 1991 con la guerra del Golfo. All'inizio ho fatto riferimento alle stragi di stato, che non venivano rivendicate, ma erano il lavoro sporco fatto dai servizi cosiddetti deviati (perché i servizi ogni volta che si scopriva che cosa facevano, dal Piano Solo del 1964 in poi, erano chiamati "deviati"....): ebbene, con la guerra del Golfo la strage, immane, viene rivendicata direttamente dallo Stato, e, sul piano delle forme giuridiche, la Costituzione, nel suo fondamentale art. 11, é completamente "rotta". Parallelamente alla guerra del Golfo, si sviluppa, del tutto al di fuori della Costituzione (che prevede esclusivamente la difesa del suolo patrio), il nuovo modello di difesa, che ha come suo obiettivo la difesa degli interessi economici dell'Italia dovunque nel mondo. E ben sappiamo come questo obiettivo sia stato perseguito, nel 1999, con la feroce guerra alla Repubblica Federale Yugoslava. Ecco perché, dunque, sono stati messi da parte tutti i discorsi sul superamento delle leggi d'emergenza: primo, perché quelle leggi non erano affatto d'emergenza, bensì un dato strutturale di questo assetto istituzionale, e, secondo, perché quelle leggi vogliono tenerle saldamente in piedi. Nel frattempo, infatti, la situazione generale (economica, sociale) è peggiorata: sul piano del diritto del lavoro, ad esempio, hanno reintrodotto il caporalato (lo chiamano lavoro interinale, ma in realtà è vero e proprio caporalato), e il sistema della stabilita del posto di lavoro che aveva trovato nel 1962, con la legge sui contratti a termine, nel 1966 con quella sui licenziamenti individuali e, soprattutto, nel 1970 con lo Statuto dei Lavoratori, i suoi riconoscimenti formali sul piano delle leggi, è diventato una grande bubbola: ora è tutto un fiorire di contratti di formazione. di consulenza, di collaborazione coordinata e continuativa, sui quali i sindacati fanno gli accordi in sede territoriale, e il contratto a termine è diventato, anche quello, la regola. Tutto questo, alla lunga, creerà sicuramente malessere sociale, malcontento, con difficoltà da parte di uno Stato che tende ad azzerare ogni spesa sociale a gestire in modo morbido queste contraddizioni. Per questo ci vuole (e c'è) un generale armamentario ad hoc, cosi come è stato preparato uno specifico armamentario repressivo per la forza lavoro immigrata. Gli strumenti, lo abbiamo visto, li hanno a disposizione, a partire da quel vecchio 270 bis utilizzato in questi ultimi mesi nella inchiesta romana sui Carc ed altri, a Pordenone contro chi e accusato di opporsi radicalmente all'allargamento della base di Aviano, e il tutto è condito da maggiori tecnologie informative e dall'abbassamento delle soglie di garanzia del cittadino (le normative sulle intercettazioni sono più o meno tutte peggiorate, e, in più, oggi ci sono le intercettazioni ambientali che vanno per la maggiore). In conclusione, io direi che i meccanismi repressivi sui quali ci ritroviamo a discutere sono più o meno gli stessi di molti anni fa, e questo non ci deve sorprendere perché, nonostante i differenti rapporti di forza, oggi decisamente sfavorevoli, identica è la paura da parte dello Stato nei confronti di ciò che si muove al di fuori delle sue compatibilità. Questa considerazione, fra l'altro, mi é stata confermata, in concreto, dalla partecipazione, in questo periodo, ad alcuni interrogatori (delegati alle varie Digos e Carabinieri) nelle indagini cosiddette sui Carc; il modo con cui vengono fatte le contestazioni è antico: "non c'è niente sui singoli ma si sospetta e si configura l'esistenza di una struttura occulta...". Era poi la paura del comunismo, quella che trasudava da uno dei Commissari che conduceva un interrogatorio, una persona anche simpatica, spigliata, moderna, che ha studiato e che cercava di impadronirsi di un linguaggio "marxista", ma che aveva un problema: è ancora viva un'ipotesi di comunismo, di sovvertimento dello stato di cose presenti? Che era poi la stessa preoccupazione, ricordo, dei giudici di un Tribunale di Sorveglianza che dieci anni fa doveva decidere sulla semilibertà di un prigioniero politico, e che se ne vennero fuori con la domanda: "ma questo ci crede ancora nella rivoluzione?" E per fortuna "questo" non era presente, perché, se avesse risposto, la semilibertà gliela avrebbero subito negata... [scarica il testo in formato .RTF] |