Quaderno n. 1
Aprile 2005

Centro di Documentazione "Krupskaja" - Bologna

I materiali contenuti in questo "Quaderno" sono stati raccolti a cura del "Comitato Cittadino contro i Reati Associativi" di Bologna.

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QUELLI DI PIANOSA
Storie di Comunisti in Emilia-Romagna imprigionati durante il fascismo


prefazione

"Malgrado le leggi eccezionali (1927) e le condanne a delle lunghe pene pronunciate in massa, la federazione Giovanile Comunista d'Italia ha continuato irriducibilmente e con ritmo sempre più intenso, la lotta contro il fascismo. Grazie a ciò la gioventù comunista d'Italia ha conquistato una grande influenza politica.
L'Internazionale Giovanile Comunista giudica necessario che questa lotta sia largamente conosciuta attraverso la stampa, brochure, opuscoli, dalla grandi masse della gioventù lavoratrice e così pure sezioni dell'I.C.G."
Risoluzione del Presidium dell'Internazionale Comunista Giovanile (ICG), Novembre 1929

Il testo di Enrico Bonazzi "Quelli di Pianosa" uscì nel 1981, a cura della Federazione Bolognese del P.C.I., come contributo per la storia dei comunisti bolognesi in occasione del 60° anniversario del P.C.I.. Durante la Festa Nazionale dell'Unità, svoltasi a Bologna, fu organizzato un incontro fra compagni per ricordare le vicende storiche del Partito Comunista Italiano. Ad Enrico Bonazzi fu chiesto di rievocare il caso di un gruppo di compagni carcerati a Pianosa, fra i quali era lui stesso.
Riproponiamo questo intervento per ricordare la storia e i sacrifici di una generazione di militanti comunisti e proletari e la loro coraggiosa abnegazione nella lotta di classe. Più in generale questo breve testo ci ricorda le strategie della reazione fascista, i suoi tribunali, le sue leggi e i suoi carceri, tutti elementi che ritroviamo anche nel presente delle nostre vite.
La Repubblica italiana nata dalla resistenza mantiene inalterati molti aspetti dell'apparato legislativo fascista, tra cui il famigerato Codice Rocco. Il Codice Rocco è del 1930. Nel 1931 entra in vigore il 270 del CP (associazioni sovversive) caposaldo del Codice Rocco, con il quale il fascismo metteva sotto accusa comunisti e anarchici. Primo articolo del 270: "Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordini economici o sociali costituiti dallo Stato è punito".
La criminalizzazione dei comunisti attraverso l'accusa di associazione sovversiva e l'utilizzo forsennato dei Tribunali Speciali, rappresenterà una costante durante il regime fascista. I dati tra il 1927 e il 1943 parlano di 21.000 denunciati. La composizione politica dei condannati parla di 4.030 comunisti (il 90% del totale). La classe sociale più colpita tra i condannati politici fu quella operaia-artigiana con 3.898 (l'85% del totale). L'attività repressiva del fascismo non consisteva solo nelle condanne commiate dal Tribunale Speciale: ad esse va aggiunto il confino, la vigilanza speciale e l'ammonizione. I confinati furono 10.000 e scontarono la condanna, emessa da Commissioni provinciali (di cui facevano parte il prefetto, il questore e il console della milizia), in isole, oppure in piccole località isolate. I vigilati speciali e gli ammoniti furono circa 160.000.
I comunisti seppero, anche in clandestinità, far progredire la lotta e mantenere l'organizzazione, anche se ridotta ai minimi termini. L'esistenza di una cellula di fabbrica, era già un'enorme ricchezza per i comunisti, vista l'impossibilità di organizzarsi e agire pubblicamente. Pur essendoci un vasto segmento di popolazione da sempre contraria al fascismo, non bisogna dimenticare come, per svariati anni, il regime riuscì a conquistare la fiducia di larghe fette della popolazione italiana. Il sacrificio dei comunisti servirà per avviare un processo di riscatto del popolo italiano guidato dal proletariato, nei confronti dell'accettazione di massa del fascismo e delle sue politiche.
Il fascismo torturerà e avvierà politiche razziali. Le favolette degli italiani brava gente, del fascismo meno terribile del nazismo, le lasciamo agli scribacchini del potere. La storia di regime riporta che la persecuzione contro gli ebrei in Italia fu avviata sull'esempio di quanto aveva cominciato a fare in Germania il nazismo fin dal suo avvento al potere (1933) e su pressione di Hitler. Ma il fascismo rivendicò sempre la sua piena autonomia ed il suo primato anche nella "difesa della razza". Nel 1938 il ministro dell'educazione nazionale pubblicava il "manifesto del razzismo italiano" dove si dava ufficialità alla repressione fascista, che era stata attiva ben prima del 38. Le esecuzioni di militanti ed operai antifascisti, le distruzioni di case del popolo e di strutture sindacali, sono lì a confermare la ferocia del regime fascista.
Saranno i comunisti i primi ad organizzare la Resistenza e a dare il maggiore contributo militare e militante alla lotta di liberazione. Si calcola che nel 1945 il 60% del movimento partigiano fosse di ispirazione comunista. La regione che diede il maggior contributo in termini numerici al movimento partigiano fu l'Emilia Romagna con 40.000 persone, e fu anche la regione che ebbe più caduti (6000).
Durante gli anni 30-40 l'azione dei comunisti sarà legata alla propaganda e al radicamento dentro le organizzazioni di massa. Le forme di propaganda e di organizzazione, saranno, a dispetto della solita litania liberal-democratica che descrive il movimento comunista burocratico e privo di fantasia, vivaci e mutevoli. I militanti comunisti riuscirono a sfruttare tutte le contraddizioni del regime fascista e arrivarono a fare proselitismo dentro a sindacati fascisti e associazioni giovanili (1). Si stampavano svariati fogli, si dava vita a strutture sportive e culturali come copertura per l'attività di organizzazione. Dietro ad una palestra di pugilato, ad una associazione di escursionisti o arrampicatori, ad una piccola società di calcio, vi poteva essere la tenace caparbietà di giovani comunisti che non si fermavano davanti al potere fascista, ed attraverso queste strutture si organizzavano, si creavano reti di diffusione di materiale clandestino, si iniziava a porre le basi per la lotta di liberazione.
Si veniva colpiti dalla repressione per aver osato anche solo contestare il regime con una scritta sul muro, per un volantino, per una frase detta ad alta voce. La prima sentenza del Tribunale Speciale del 1 febbraio 1927, condannava a 9 mesi di carcere due operai per "apologia di attentato e offese a Mussolini". I due condannati - un manovale e uno stuccatore - erano colpevoli di aver commentato, in un cantiere di Roma in cui lavoravano, con queste parole il fallimento di un attentato a Mussolini: "Li mortaci sui, 'sto puzzolente, ancora non l'ha ammazzato nessuno". L'ultima sentenza fu emessa il 22 luglio del 1943 con la condanna, per denigrazione delle guerra e offese al duce, a cinque anni di carcere ad un caporale, che nel marzo precedente, in una caserma di Vicenza, aveva detto: "La guerra l'abbiamo perduta; ora, se trovo il duce, gli cavo gli occhi e l'uccido" (2). L'atteggiamento dei militanti colpiti dalla repressione sarà intransigente, i comunisti non fecero concessioni al tribunale, non riconoscevano le leggi e le istituzioni dei fascisti, rifiutavano la difesa legale. I fascisti, pur sapendo di essere smisuratamente più forti, avevano comunque paura, sopratutto della prospettiva di classe con cui i comunisti agivano.
I fascisti riuscirono, tuttavia, a sopravvivere al loro stesso sistema politico. La classe dominante venne duramente colpita dalle masse popolari nella guerra di liberazione, ma i comunisti e più in generale il movimento partigiano non riuscirono, non osarono, rompere il monopolio di potere della borghesia (3). L'apparato repressivo statale del fascismo si riversò nella Repubblica Italiana. Repubblica che manterrà inalterati i presupposti di difesa degli interessi della classe dominante, ampliando il proprio monopolio di potere e violenza. La completa estromissione dei comunisti e della sinistra in generale nel primo dopo guerra permetterà una rapida restaurazione dei vecchi apparati repressivi. Lo stesso Scelba, il famoso delinquente Ministro dell'Interno nel primo dopo guerra, artefice massimo della campagna anticomunista, cosi dichiarava sulla situazione nel 1947: "Ma lo sa lei che in quel periodo avevamo, nelle forze di polizia, ben ottomila, dico ottomila, ex partigiani, tutti comunisti naturalmente…Bene riuscii, o riuscimmo a far piazza pulita". I comunisti, e più in generale le classi subalterne, perdevano il controllo del processo di ricostruzione nazionale. Questa sconfitta, oltre ad essere causata dalla compattezza e dall'aggressività del blocco atlantico, era supportata da una sottovalutazione da parte dei dirigenti comunisti degli apparati statali. La sconfitta dell'ipotesi di Togliatti di un governo di coalizione tra democristiani e comunisti, rendeva ancor più tragica la linea del PCI, che nell'immediato dopo guerra sottovalutò l'apparato statale-repressivo fascista, rimasto intatto dalla caduta del regime. Il tentativo generoso di conquistare spazi di potere nello Stato democratico, cozzava contro una ramificata rete di personaggi dell'apparato legislativo fascista e contro una classe padronale praticamente identica a quella di epoca fascista.
Il P.C.I. diverrà, successivamente, artefice attivo di una completa evoluzione revisionista, da blando, ma effettivo oppositore del potere dominante, diverrà paladino degli interessi padronali contro l'autonomia di classe negli anni 70. Il P.C.I. si trasformava da partito di classe in partito di Stato, sgherro e confidente della polizia. Questa evoluzione andava di pari passo con l'esaltazione della magistratura e degli apparati repressivi di Stato. Questa transizione assumeva tratti ancor più reazionari rispetto al primo tentativo togliattiano, in quanto se nel primo dopo guerra, vi fu un tentativo di trasformazione socialista della società italiana e di difesa del blocco socialista, nel secondo periodo vi fu una completa sottomissione ai piani atlantici. Questo provocò una frattura insanabile tra generazioni di militanti, che si trovavano ad essere colpiti da quegli stessi che avevano assaggiato il bastone fascista.
Nel carcere di Pianosa passarono diversi antifascisti, tra cui lo stesso Sandro Pertini durante il ventennio. Lo stesso carcere servirà anche come "speciale" per incarcerare nuovamente militanti politici di sinistra, questa volta militanti delle organizzazioni comuniste combattenti. Lo Stato democratico, servo degli interessi padronali come nel fascismo, amplierà l'utilizzo dei reati associativi attraverso il 270bis, promulgato all'interno del Decreto Cossiga a fine anni '70, per implementarlo nuovamente dopo l'11 settembre 2001 con il 270 ter. Queste modifiche trovarono, e trovano, nella sinistra ufficiale italiana, ampi consensi, e la stessa sinistra contribuisce con una partecipazione attiva (come corpo legislativo e politico) all'ampliamento delle leggi repressive.
La scientificità della repressione è aumentata, si è dotata di innumerevoli varianti, il controllo è divenuto in alcuni casi vero e proprio delirio di onnipotenza del potere. La scientificità con cui lo Stato e i padroni ora cercano di dissuadere ogni reale opposizione è sempre più evidente. Nella maggior parte dei casi l'azione repressiva è preventiva, senza abbandonare la classica repressione brutale, come nel caso di Genova. Vi è un mix di violenza e rimbambimento, a cui è difficile sottrarsi. Lo Stato democratico si differenzia da quello fascista, non per la repressione e il controllo, ma nel fare a meno dell'inquadramento coatto delle masse. Oggi è più utile promuovere campagne di depoliticizzazione di massa, inondare le nostre vite di surrogati, legarci alla precarietà sociale, più che imporci corporazioni e nuove fedi. Ma in ultima analisi vi è sempre la stessa classe al potere, e ancora oggi lo "sfregiare" un muro con scritte "non allineate" è ritenuto un atto eversivo rispetto al potere.
La pubblicazione di questo opuscolo è un piccolo, ma speriamo utile, strumento, di comprensione della memoria attraverso l'analisi di classe. Lo spirito con cui i militanti comunisti degli anni 30 riuscirono a sopportare l'isolamento, la carcerazione, può darci delle indicazioni, prima di tutto, comportamentali. L'atteggiamento fraterno tra compagni, e la risoluta intransigenza nei confronti del nemico sono elementi che vanno al di là della singola storia. Facciamo sì che il loro sacrificio, le loro lotte trovino nel presente una continuazione: abbiamo ancora parecchia strada da percorre per la liberazione definitiva!

Comitato cittadino contro il 270
e tutti i reati associativi - Bologna

www.inventati.org/reati_associativi


Note

1) Un ricostruzione autobiografica dell'intervento delle avanguardie operaie comuniste dentro i sindacati fascisti a Bologna si può leggere nel libro di Raffaele Gandolfi, I fiduciari di fabbrica, l'attività degli operai comunisti all'interno del sindacato fascista di Bologna, La Pietra, 1980. E' la storia di un giovane comunista, che su incarico della federazione bolognese clandestina del PCI si infiltrerà dentro i sindacati fascisti, dove verrà eletto dagli operai "fiduciario di fabbrica", per poter operare dall'interno contro il regime. Parteciperà alla riorganizzazione della cellula comunista all'interno della Sabiem di Bologna. Sarà membro del comitato clandestino del PCI della Ducati di Borgo Panigale (Bo), poi ufficiale di collegamento tra la Brigata garibaldina "Stella Rossa" e il Comando Unificato Emilia Romagna.

2) D.Tarantini, La maniera forte, elogio della polizia, storia del potere politico in Italia: 1860-1975, Bertani editore, 1975

3) Vi è da parte della storiografia di sinistra una duplice valutazione della resistenza, una ne esalta i limiti parlando di rivoluzione tradita, l'altra appiattisce il movimento di liberazione ai soli contenuti patriottici. Si perde di vista la complessità del fenomeno della resistenza, il suo essere stato un incredibile laboratorio dove i comunisti, nel bene e nel male, hanno rappresentato la parte più reattiva, legando la propria azione alla classe operaia e contadina. Per un approfondimento si consiglia l'ottimo testo di S.Solano, Il piano inclinato, i comunisti italiani tra prospettive rivoluzionarie e politica di unità nazionale (1943-1948), Saverio Moscato Editore, 2003.

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Introduzione

Enrico Binazzi, nato nel 1912, da una famiglia di mezzadri già iscritti alla "lega rossa" e divenuto lavoratore calzolaio a domicilio, passò alla militanza attiva nel partito comunista a 18 anni, nel comune di Granarolo Emilia, ove aveva preso residenza. I primi contatti con l'organizzazione comunista, li ebbe nell'estate-autunno 1930, attraverso Oreste Bolelli, un comunista di Quarto Inferiore, che lavorava in una officina meccanica di Bologna. Lui ed altri giovani militanti, seppero che esisteva una organizzazione clandestina comunista, che bisognava reclutare altri giovani ed altri lavoratori per fare della "propaganda contro il fascio": ebbero della stampa clandestina, che veniva dalla Francia, e la lessero e diffusero.
I giovani clandestini discutevano della crisi economica, delle angherie fasciste passate e presenti. Imparavano che il fascismo avrebbe portato l'Italia alla guerra. Si prepararono a fare delle scritte: "abbasso il fascismo, abbasso il Duce, liberate Gramsci", e fu la prima volta che Bonazzi senti parlare di Gramsci. Per quei militanti, nel 1930, i nomi dei veri rivoluzionari erano quelli di Lenin e Stalin, ma famigliare era pure il nome di Giacomo Matteotti, il parlamentare socialista ucciso dai fascisti.
Già nel 1932, era costituita una consistente cellula clandestina comunista tra giovani di Quarto, Viadagola e Granarolo. D'apprima era costituita da Bolelli e da Bonazzi, poi si aggiunse Gilberto Tomasini muratore, Ugo Tassinari calzolaio, Armando De Maria operaio alle officine Minganti di Bologna, e poi il fratello Elio Bonazzi pure calzolaio, e quindi ancora, Umberto Pinardi ed i fratelli Cacciari, muratori, Paolo Avoni, Tarozzi e Trigari, giovani operai meccanici e un tipografo, Giacomino Masi giovane mezzadro, Ubaldo Masi calzolaio di Corticella. Nell'agosto del 1932 - nella giornata internazionale della pace, contro la guerra - e per il successivo 28 ottobre, il decennale della marcia su Roma, i giovani comunisti eseguirono scritte murali in rosso, in varie parti della Provincia. A Granarolo Emilia non vi furono arresti, mentre numerose furono le "cadute" a Bologna ed in altri comuni. Alla fine del 1932, quando Bolelli fu chiamato per il servizio di leva, Enrico Bonazzi ebbe un maggiore impegno nella organizzazione clandestina, per altro abbastanza compatibile con la sua professione di lavoratore a domicilio, e perciò relativamente autonomo nei movimenti e nell'organizzazione del suo stesso lavoro. Ciò che non poteva fare di giorno, lo faceva di notte, senza che un padrone o i sindacati fascisti potessero controllarlo. Ai primi del 1933 fu designato dirigente della cellula e messo a contatto con altri comunisti. Nell'estate del 1933 ebbe il primo incontro con un funzionario del Partito, proveniente dall'estero, Marcello Canova, che portò direttive fresche e stampa da diffondere. Nei mesi che seguirono, il lavoro clandestino si orientò verso le organizzazioni di massa del fascismo: nei sindacati, nelle formazioni pre-militari, nei dopo lavoro, persino tra i giovani fascisti. L'indirizzo era di rivendicare l'attuazione pratica di quanto il fascismo demagogicamente proponeva e propagandava in campo sociale, ma che non realizzava. Poi ebbe altri incontri con due funzionari del Partito, provenienti dall'estero.
Poco dopo avvenne un nuovo arresto da parte della polizia che coinvolse diversi comunisti. E.Bonazzi fu arrestato in via delle Casse (l'attuale via Marconi) n.35, presso il negozio del suo datore di lavoro, nella mattina del 19 dicembre 1934, verso le 9,30. Quindi segui la carcerazione e un lento e lungo iter istruttorio.
Dopo oltre quattro mesi, l'istruttore, il 5 aprile 1935, emise una sentenza di rinvio a giudizio (la n.15), contro la "organizzazione comunista emiliana scoperta nel dicembre 1934", colpevole di intensa… "attività di propaganda verso i giovani e nelle associazioni di massa fasciste". Gli imputati di "associazione e propaganda sovversiva" erano diversi comunisti di Bologna e della provincia. Al processo, sei mesi dopo, andarono 10 imputati.
Gli estremi della sentenza, venne emessa il 24 gennaio 1936 contro dieci comunisti dal Tribunale Speciale. Si accusavano alcuni militanti, funzionari del Partito Comunista nel 1934, di aver lavorato nell'organizzazione emiliana "riuscendo - come riporta la sentenza - a penetrare nei sindacati, nei dopolavoro, nelle associazioni sportive e culturali" col risultato d'ottenere "adesioni tra i giovani inesperti", e che il gruppo aveva svolto una intensa attività propagandistica attraverso la diffusione di migliaia di stampati di vario tipo (il periodico "il Premiliatare rosso", volantini con rivendicazioni sindacali ed appelli, ecc…). I sei giudici, invocando i "delitti" di "costituzione del Partito Comunista d'Italia, appartenenza allo stesso e propaganda", sancirono dure condanne per molte decine di anni ai comunisti bolognesi. Nel complesso 109 anni e 6 mesi di pena. Allo stesso E. Bonazzi gli vennero dati 20 anni di carcere. Per i più cominciava la parte di gran lunga più pesante della carcerazione. E. Bonazzi che era già stato "ospite" del carcere di San Giovanni in Monte a Bologna e a Regina Coeli a Roma, nel novembre 1936, partì per il penitenziario di Civitavecchia, uno dai più frequentati dagli antifascisti di tutt'Italia e, poi, di li, per malattia - come dice lui stesso agli inizi dell'episodio che narra - nel carcere di Pianosa, nell'arcipelago toscano.


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Processo al Tribunale Speciale il 24 gennaio 1936

di Giacomo Masi

Eravamo stati arrestati tutti fra il dicembre 1934 ed il gennaio 1935. Tredici mesi di carcere erano trascorsi da quando ci ritrovammo tutti uniti, per il processo, la mattina del 24 gennaio 1936. Fu un momento di commozione quell'incontro. Ci abbracciamo con slancio fra un incrociare rapido di domande, sulla salute dei compagni, delle loro famiglie, sulla vita trascorsa in quei mesi di separazione. E senza nulla domandare ciascuno di noi cercava di leggere nel viso dei compagni con quale animo ognuno si apprestava a ricevere la condanna. E il morale era elevato. Eravamo veramente contenti. Nessuno si illudeva sull'esito del processo, ma in noi era la gioia sincera di ritrovarci uniti «compagni», nell'affrontare a viso aperto lo stesso tribunale che già aveva condannato Granisci e tanti e tanti dei nostri, nella certezza che, dopo la condanna, saremmo stati inviati al penitenziario dove, già si sapeva, sarebbe cominciata per noi una vita di studio intenso e quindi la possibilità di migliorare la nostra preparazione politica. sotto la guida e l'esempio di altri compagni.
Ricordo chiaramente le discussioni fatte fra noi in attesa di essere portati al palazzo di Giustizia. Fabiani affermava che la situazione politica per il regime fascista diveniva sempre più critica e pertanto il Tribunale Speciale ci avrebbe colpito con il massimo della pena. Bonazzi elencava continuamente i compagni dirigenti già precedentemente condannati ed esternava l'unico desiderio di ritrovarsi in penitenziario con costoro.
Il più ottimista ed allegro, Vezzi, faceva pronostici sulla propria sorte. Come recidivo, si dichiarava certo di venire condannato ad almeno dodici anni di carcere. Ma si riteneva parimenti certo di arrivare a malapena a scontarne la metà, riservando l'altra metà ai propri aguzzini. Dopo un'ora circa di colloquio fraterno e sereno vennero i carabinieri a prelevarci.
Ammanettati e legati l'un l'altro con catene fummo tradotti al Palazzo di Giustizia, dove attraverso sotterranei per ripide scale raggiungemmo l'aula del Tribunale.
Nella gabbia degli imputati ci furono tolte le manette, mentre invece raddoppiata era la guardia dei carabinieri.
Si attendeva l'ingresso della corte.
Nella sala nel frattempo, entrarono alcune persone, che in maggioranza erano agenti di polizia e militi che avrebbero dovuto ricevere dallo svolgimento del processo, esperienza professionale.
Nella gabbia fummo avvertiti che all'entrare della Corte avremmo dovuto alzarci in piedi.
Preceduti da un trillo di campanello e accompagnati dal fruscio delle toghe, i nostri «giudici» finalmente entrarono. Nell'aula tutti si alzarono in piedi. Noi restammo seduti non potendo riconoscere ad un Tribunale di parte il rispetto dovuto ai Tribunali di Giustizia. Iniziato il processo, per primo fu interrogato il Fabiani. Sotto la fila di domande del Presidente il Fabiani non fece ammissioni. Si limitò solamente a rispondere: «Queste sono cose che riguardano il mio Partito e me, non riguardano lei». Subito dopo fu interrogato il Bonazzi, il quale si dichiarò fiero del proprio operato, che per nessun motivo avrebbe rinnegato o misconosciuto.
A questo punto il Fabiani applaudì e venne ammonito dal presidente di espulsione dall'aula. Fu poi la volta del De Maria. A lui, più anziano di noi, coniugato e con figli, il Presidente rimproverava di avere con il suo atteggiamento politico, arrecato danno alla famiglia. De Maria rispose che appunto per amore dei propri figli, per il benessere del loro futuro e dei figli di tutti i lavoratori, egli era entrato nel Partito Comunista.
Fu questa volta il compagno Bonazzi che gridò: «Bravo De Maria! ». Il Presidente irritatissimo, minacciò di nuovo di espellere dall'aula gli imputati «indisciplinati». Toccò poi a me. Subito, il Presidente sottolineando la mia giovane età (ero allora diciannovenne) dichiarò che il Tribunale avrebbe dovuto usare particolare clemenza, poiché indubbiamente io ero stato traviato inconsapevolmente da elementi corrotti. Risposi allora sinceramente: «Io non sono ancora un comunista: so di non potermi ancora considerare tale. Mi impegno fin da questo momento, durante questi anni di carcere che voi mi darete da scontare, che farò tutto il possibile per diventarlo». Alle mie spalle ci fu un tumulto. Dalla gabbia i compagni applaudivano. Nitida mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Bonazzi, che gaiamente gridava: «Bravo Giacomino!».
A questo punto il Presidente fuori dai gangheri, ordinò la espulsione dall'aula del Fabiani e del Bonazzi che venne subito eseguita, ammanettandoli e legandoli insieme con l'abituale catenella da guinzaglio.
Nel passare ammanettati davanti ai membri del Tribunale, a voce alta e chiara il compagno Fabiani gridò: «Viva Stalin»! Fu immediatamente colpito da un gragnola di pugni dai carabinieri di scorta e assieme al compagno Bonazzi sparì come inghiottito da quegli energumeni, mentre lanciava loro l'insulto «Vigliacchi, vigliacchi! ».
Dopo di me fu interrogato Marciatori. Il Presidente, ironizzando sul fatto che l'imputato, iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, aveva conservato l'iscrizione ai Fasci Giovanili (e questo per potere con maggiore facilità comunicare con i coetanei e svolgere opera di propaganda) chiese: «Iscritto ai due partiti avversi, quale dei due tradite? ».
Senza esitare, candidamente, Marciatori rispose allora: «Quello fascista». A questo punto l'udienza fu sospesa.
Riprese due ore dopo. Ad uno ad uno tutti i compagni confermarono la propria fede. Nessuno rinnegò il proprio operato, nessuno si umiliò in discolpe, a danno di altri. Alle ore 16 iniziarono le arringhe di difesa. Nessuno fra gli imputati si era preoccupato di procurarsi un difensore e, pertanto, la difesa era affidata ad avvocati di ufficio.
Fra costoro uno ne ricordo, giovane, di cui non riuscii mai a sapere il nome. Questi un po' eccitato dal contegno fermo degli imputati, e preso da un impeto di sdegno contro i metodi del regime, osò ad un certo punto paragonare i suoi difesi agli eroi del Risorgimento nostro. Ma il Presidente scattando in piedi troncò con parole aspre lo slancio dell'arringa. Il processo era così terminato. Trascorsa un'ora in Consiglio, la Corte si ripresentò fra un ampio fruscio di toghe per la lettura delle sentenze. Dieci imputati: 110 anni e 6 mesi di condanna.
Al Fabiani e al Bonazzi precedentemente allontanati, la sentenza fu letta in camera di sicurezza. Gli altri ascoltarono la condanna nell'aula, in piedi, senza battere ciglio.
Prevedendo che alla lettura delle condanne potesse fare seguito una manifestazione di fierezza, il compagno Canova fu condotto per primo e da solo fuori dall'aula. E già come aveva fatto il Fabiani il compagno Canova apostrofò il Tribunale e i giudici fascisti di vigliacchi e di assassini.
Ritrovammo poi Fabiani e Bonazzi al ritorno in Regina Coeli. Da lì fummo poi destinati ai vari penitenziari, dove altri compagni trovammo, dove altri ci raggiunsero, dove assieme soffrimmo e studiammo, temprandoci per le ore di lotta che ancora ci attendevano.


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Quelli di Pianosa

di Enrico Bonazzi

I
Dopo il crollo di Benito Mussolini, il 25 luglio 1943, con provvedimenti graduati (assai più lenti per i comunisti), i militanti antifascisti furono liberati dal carcere e dal confino e poterono avviare la lotta aperta contro il fascismo e l'occupante straniero, per la conquista della pace e per il rinnovamento del Paese. lo però non fui liberato e dovetti prolungare la mia detenzione, che era iniziata il 19 dicembre 1934. Due gruppi di condannati del Tribunale Speciale seguirono questa sorte. Io appartenevo a quello proveniente dall'ergastolo sanatorio dell'isola di Pianosa che era composto da una ventina di detenuti politici, tutti comunisti ad eccezione di tre che erano stati condannati per spionaggio politico. Il solo compagno socialista detenuto a Pianosa, era stato Sandro Pertini, il quale però terminò la sua condanna ancora prima del mio trasferimento a Pianosa, che avvenne al primi di novembre del 1936.
Al Penitenziario di Pianosa venivano inviati detenuti politici gravemente malati, e qui il regime carcerario era un po' meno duro e severo:c'erano concesse tre ore di passeggio al giorno, in cortile, altre due ore d i veranda con la possibilità di disporre di carta, penna e calamaio, una vera fortuna rispetto al regime carcerario ordinario. Il permesso di scrivere era un grande sollievo per noi politici. Ricorderò sempre che a Roma, nel carcere di Regina Coeli, mi buscai otto giorni di cella di rigore a pane ed acqua per «avere violentato un pennino» che mi serviva per fare la punta ad un pezzetto di matita procuratomi da un secondino. Anche queste punizioni erano un modo per tentare di annullare la nostra personalità e fiaccare la nostra resistenza.
Anche il vitto, a Pianosa, era un po' più abbondante ed un po' migliore, e inoltre più attenta era l'assistenza medica, che per me si traduceva in endovenose di calcio. Noi politici eravamo concentrati nel quinto braccio dell'ergastolo, in piccole celle contenenti tre posti-letto. Eravamo, come di norma, separati dai detenuti comuni.
La vita carceraria è monotona, lenta a trascorrere e non è possibile dimenticare i compagni con cui si è vissuto e che erano passati in quelle celle. Seppi così che in quelle stanzette avevano trascorso anni di reclusíone, tra gli altri, oltre a Pertini, il comunista Battista Santhià, protagonista del movimento operaio torinese del quale potei leggere i suoi quaderni sulle esperienze dell'occupazione delle fabbriche e della FIAT, nel settembre 1920, e sui Consigli di fabbrica. Anzi, attraverso quei quaderni cominciai a conoscere le lotte della classe operaia di Torino, la formazione e la funzione del Gruppo «Ordine Nuovo» e la personalità di Antonio Granisci.
Ero giunto a Pianosa, insieme al compagno Goliardo Chiarugi, un giovane operaio livornese condannato a sei anni di carcere dal Tribunale Speciale. Per quanto mi riguarda seppi che mi fu accertata la tubercolosi, un male a quei tempi che lasciava poche speranze e queste diminuivano ancora tenendo conto del carico di venti anni di condanna al carcere inflittimi dal Tribunale fascista. Tuttavia, dopo una giornata maledetta di mal di mare, sofferto nel fondo della stiva puzzolente della motonave, per di più con le manette ai polsi, appena sbarcato nell'isola provai un grande sollievo.
Ricordo che, assieme al compagno Chiarugi, ci accompagnarono su di un carretto scoperto trainato da un somaro, verso l'ergastolo: respiravo a pieni polmoni l'aria aperta che odorava di rosmarino e osservavo le pecore e le capre disperse nei pascoli brulli. Anche le guardie erano più umane e già presentivo che, pur nella detenzione, qualcosa sarebbe mutato. Mi risentii giovane e subentrò una nuova speranza che si aggiunse alla fiducia che non mi verrà meno durante i dieci anni di carcere. Insomma mi convinsi che ce l'avrei fatta, che sarei tornato libero. Ma quando?
I compagni del «collettivo» di Pianosa ci accolsero - noi due giovani compagni ventiquattrenni - molto bene e con tante premure. Io fui subito battezzato il «Cino», il ragazzo.
Ero il più giovane, avevo da poco compiuto 24 anni, ma ero quello che tra i presenti avevo subito la maggiore condanna: 20 anni di reclusione. Il compagno Marcello Canova, del mio stesso processo, condannato a 22 anni, era ancora a Turi di Bari, nel noto carcere, dove per tanti anni fu rinchiuso il compagno Gramsci.
Forse nei compagni suscitavo tenerezza anche perché ero magrolino, con una vocetta fievole e anche rauca, causata da una grave laringite; e forse anche perché avevo tanta voglia di leggere, di apprendere, di ascoltare, di discutere. Nutrivo una grande stima ed una grande considerazione per i più anziani di me, specie per quelli che più volte erano passati dal Tribunale Speciale fascista. Tra quelli che sono rimasti più impressi nella mia memoria e che su di me esercitavano un maggiore ascendente, ricordo, primo fra tutti, il compagno Guido Sola Titetto, operaio tessile di Biella, capo del nostro collettivo: era un compagno serio e studioso e suscitava in me tanta stima e persino soggezione; poi il compagno Otello Putinati, ferrarese, operaio pastaio, per la terza volta condannato dal Tribunale Speciale, padre di cinque figli: un carattere forte e che sprizzava fiducia nella nostra causa, nel Partito, da tutti i pori della pelle; il compagno Luigi Porcari, di Parma, tanto impulsivo e «ribelle» al regolamento carcerario da essersi accapparrato il primato delle punizioni; il compagno Cesare Marcucci, ascolano, l'«intellettuale», mio maestro di italiano e compagno di cella; il compagno Giovanni Fusconi di Cervia; l'anziano compagno Furoni, di Novara, ancora legato idealmente ad Amadeo Bordiga il primo segretario nazionale del Partito; l'anarchico «Luigi», di Verona, che viveva fuori dal nostro collettivo, ma con il quale avevamo ottimi ed amichevoli rapporti e che andava sempre cantarellando inni dell'anarchia.
Ma il numero più grande dei compagni con i quali avrei vissuto in carcere più a lungo sono quelli che, numerosi, giunsero a Pianosa dal 1937 in poi: i compagni Enrico Minio, di Civita-Castellana; il già ricordato Canova, Onorato Malaguti, Leonida Roncagli, Alcibiade Palmieri e Armando Marocchi, tutti di Bologna; Severino Spaccatrosi e Aldo Falchetti, di Roma; Cesare Manetti di Firenze, Silvio Barlagelata, di Genova; Ercole Bazzoni, operaio meccanico della «Breda» di Milano; Romolo di Giovannantonio di Teramo, operaio fornaio. E tanti altri ancora. E' difficile, impossibile, graduare i sentimenti eppure un posto particolare nella mia memoria lo conserva il compagno Giuseppe Reggiani, un bracciante di Borgo Panigale, condannato a quattro anni di carcere nell'ottobre del 1937. Nella primavera del 1938 arrivò a Pianosa già molto malato e verso la fine del 1939 venne trasferito, gravissimo, all'infermeria dei carcere di Civitavecchia, dove mori il 4 marzo, assistito dal compagno Antonio Pesenti, egli pure detenuto in quel severissimo penitenziario. Alla partenza da Pianosa, Giuseppe mi abbracciò e mi disse: «Cercherò di farcela, ma sarà difficile. Mi dispiace per mia moglie, per mio figlio. Ho il conforto di sentirmi un comunista. Addio Cino». Pesenti scrisse e ci fece conoscere le ultime parole dettate da Reggiani: «Cari compagni! poco mi resta da vivere, sono sereno e orgoglioso di morire per il mio Partito, mi dispiace solo di non aver potuto dare di più per la causa dei lavoratori. A tutti voi giunga il mio estremo saluto e l'augurio che possiate sopravvivere alla vostra pena e lavorare e lottare ancora fino alla vittoria sul fascismo e alla emancipazione della classe operaia. Una sola cosa vi chiedo: aiutate moralmente e se potete materialmente la mia giovane moglie e il mio bambino, fate in modo che cresca onesto e laborioso nelle idee per le quali suo padre ha dato la vita».
Pippo, come io lo chiamavo, fu un esempio incancellabile degli umili, ma valorosi proletari combattenti comunisti bolognesi, contro il regime fascista. Anche questi combattenti hanno fatto la loro «scelta di vita» per combattere e vincere il fascismo, per il trionfo della causa del socialismo. E non vanno dimenticati.


II
Gli anni trascorsi al quinto braccio dell'ergastolo di Pianosa furono per me, per la mia formazione politica, assai proficui: le mie condizioni di salute migliorarono, le letture ed i «corsi politici» organizzati all'interno del collettivo mi appassionavano: ricordo i corsi di «economia politica», quelli sulle «questioni del leninismo», e sulla «storia del movimento operaio e del Partito».
Godevamo invero di alcune condizioni di privilegio rispetto ad altri detenuti. I compagni, a Pianosa, riuscirono infatti a conservare importanti opere, ben camuffate: fra queste il primo volume del «Capitale» di Carlo Marx, alcune opere di Lenin e fra queste «l'Empiriocriticismo», la «Questione agraria», il «rinnegato Kautzky e la dittatura del Proletariato», il «Che fare?». E inoltre, tutta una serie di libri dai quali si potevano ricavare parti importanti degli scritti e del pensiero di Marx, di Engels ed anche di Lenin. Particolarmente utile per me fu la lettura del libro di Kautzky sulla «Questione agraria». Ai fini della nostra formazione politica una particolare funzione ebbero i testi (ricevuti per via clandestina dal compagno Sola Titetto, con i pacchi pasquali del 1937) dei discorsi di Giorgio Dimitrof e di Ercoli (Palmiro Togliatti) al VII Congresso dell'Internazionale Comunista. Questi documenti giunsero al collettivo nascosti in un paio di scarpe spedite nel pacco al compagno Fusconi da sua moglie. L'organizzatore dell'operazione fu il compagno Celso Ghini, in accordo con Pietro Secchia, allora confinati. Tramite dell'operazione fu il compagno Giuseppe Cervellati di Santa Viola di Bologna, il quale, rientrando a casa dal confino consegnò il fatidico paio di scarpe alla moglie del Fusconi. E queste arrivarono a destinazione. Ricevemmo pure, contemporaneamente, il nuovo testo della Costituzione Sovietica, con il relativo discorso del compagno Stalin.
Furono per noi, quei documenti, il sale della nostra vita: la svolta nella strategia dell'Internazionale; la politica del «fronte unico» e del «fronte popolare» in Francia; la guerra nazionale e rivoluzionaria contro il fascismo franchista in Spagna, la lotta per la pace. (Sono sempre stato convinto del fatto che, senza lo studio di quei materiali non avrei mai potuto, anni dopo, cioè alla fine del 1944, quando liberato raggiunsi Bologna, assumere ed assolvere il compito di Commissario politico delle Brigate S.A.P. Grande parte del giusto orientamento politico, dopo dieci anni di carcere, proveniva certamente dall'assimilazione lenta, ma profonda e duratura di quei documenti).
Eravamo - come ho detto - un collettivo molto affiatato, politicamente omogeneo, fiduciosi verso il centro del Partito e l'Internazionale comunista, verso l'U.R.S.S. e Stalin.
E dell'importanza di questa coesione e di questa fiducia – come dimostrarono in seguito gli eventi - ne raccogliemmo i vantaggi quando, negli anni futuri, per noi detenuti politici, isolati dalla realtà esterna, dovemmo misurarci con i mutamenti delle situazioni, con i quali prima o poi avremmo dovuto fare i conti.
Con l'entrata in guerra dell'Italia contro la Francia, fu presa la decisione di traslocare noi detenuti politici in uno stabile assai peggiore, completamente isolato: dovemmo sottostare a restrizione nel passeggio, non avevamo più la possibilità quotidiana di scrivere, ci fu un peggioramento del vitto per le accresciute difficoltà nei collegamenti bisettimanali dell'isola con la terraferma. Quello stabile si chiamava «Sembolello». Ricordo che ancora prima di questo trasloco, per settimane e settimane avevamo discusso a lungo sul patto di non aggressione sovietico-tedeco del 1939. Non si produssero lacerazioni nel collettivo, il nostro discorso in sintesi fu questo: «Se Stalin e Molotoff hanno fatto queste scelte, avranno le loro buone ragioni».
Era certo una risposta sbrigativa e approssimata. Era però fondata sulla certezza delle ragioni dell'U.R.S.S., sulla fiducia totale nella vittoria del socialismo. Questa fiducia era tutto ciò che possedevamo, la nostra fondamentale forza politica e morale, la nostra ragione di vita nell'isolamento totale in cui ci trovavamo, circondati dall'ostilità e persino dal dileggio di quanti ci vivevano attorno. Senza questa fiducia vi sarebbe stata solo disperazione e noi non fummo mai dei disperati.
E prima ancora avevamo dovuto digerire la sconfitta della Repubblica di Spagna: la vittoria - l'avevamo compreso - non era stata solo del generalissimo Franco, ma anche di Hitler e di Mussolini, delle forze della guerra.
Fu questa per il nostro collettivo la prova più dura. Poi venne lo scoppio della seconda guerra mondiale, l'avanzata delle armate naziste in occidente, l'aggressione dell'Italia alla Francia, militarmente già vinta, ed infine, nel giugno 1941, l'aggressione all'U.R.S.S., la profonda avanzata delle armate naziste in territorio sovietico fin sotto Leningrado e Mosca. E la Direzione e le guardie, in quel primo periodo dell'aggressione all'U.R.S.S., non esitavano a farci conoscere le avanzate tedesche e dell'«Armir» in terra sovietica. Queste notizie cominciarono però a diradarsi dalla battaglia di Stalingrado (nel febbraio 1943) in poi e noi avevamo orecchi per intendere. Pur tenendo conto delle inevitabili differenze di temperamento, di carattere e anche di opinione tra i singoli compagni nel giudicare gli eventi, non venne mai meno la convinzione che l'Armata Rossa e gli Alleati, alla fine, sarebbero usciti vittoriosi ed avrebbero sconfitto gli aggressori nazifascisti nelle loro tane.
Questi sentimenti e queste certezze ci diedero la forza di sopravvivere, con viva coscienza e fierezza politica, gli anni più duri e difficili della nostra vita di detenuti politici «nelle mani del nemico».


III
Intanto passò il primo periodo delle avanzate militari nazi-fasciste e giapponesi sui vari fronti di guerra. Vennero anche i rovesci militari di Mussolini in Africa, poi lo sbarco angloamericano in Sicilia. E venne il 25 luglio 1943: il crollo del regime fascista, l'arresto di Mussolini, la sua sostituzione col generale Pietro Badoglio.
Sapemmo della caduta di Mussolini l'indomani mattina, lunedì 26 luglio, durante il passeggio. Ce lo comunicò il direttore in persona, accompagnato dal comandante. Fu lo scoppio di una grande gioia, certamente superiore alla sorpresa. Immediata fu la nostra richiesta: «Che cosa intendete fare? Telefonate, telegrafate a Roma e chiedete che siano liberati i detenuti politici ed antifascisti! Vogliamo uscire!».
Il direttore ci assicurò che avrebbe preso contatto con il ministero, che ci avrebbe mantenuto informati e intanto ci pregò di attendere con calma gli eventi e le notizie.
Passavano i giorni e della nostra liberazione nessuno parlava. Allora chiedemmo di essere trasferiti sul continente in un altro carcere dove vi erano altri detenuti politici e di non rimanere doppiamente isolati al «Sembolello». Chiedemmo anche di smettere la divisa del galeotto e di indossare i nostri vecchi abiti civili, il che ci fu concesso. Anche il trasferimento ci fu concesso e in una notte buia di metà agosto fummo avviati alla nuova destinazione, che però era il tetro ergastolo di Portolongone, nell'isola d'Elba. E così cademmo dalla padella alla brace. L'unico fatto positivo era che c'eravamo avvicinati al continente e questo ci sembrava essere un pur tenue elemento di favore.
A Portolongone fummo ristretti in piccole celle con poca luce, senza sole. Nello stesso braccio erano rinchiusi da anni i bolognesi Claudio Melloni, Albertino Masetti, Luigi Martelli ed altri compagni, per i quali il regime carcerario era stato più duro e severo rispetto al nostro, che venivamo dal sanatorio carcerario.
Riuscimmo a stabilire un contatto con questo gruppo di compagni. Si cercò di fissare una comune linea di comportamento, ma in quelle condizioni, lontani dalla terra ferma e dalle popolazioni, con il regime carcerario ferreo di Portolongone, ben poco c'era da fare. Noi di Pianosa continuammo ad indossare i nostri abiti civili conservati dal momento dell'arresto e ciò ci dava la sensazione di essere più vicini e pronti alla liberazione.
Poi, nei giorni seguenti arrivarono dalla Procura del Re di Livorno due o tre telegrammi di scarcerazione di politici. Ricordo quelli riguardanti il compagno Enrico Minio - il nostro stimatissimo primo maestro - ed il compagno Angelo Fontana di Milano.
Ma i giorni passavano, l'esasperazione nostra cresceva: come sarebbe andata a finire? Dall'esterno non riuscivamo ad avere notizie. Nessun giornale da leggere. Verso il 6-7 settembre decidemmo di iniziare lo sciopero della fame. Lo dicemmo alla direzione: volevamo essere liberati. Badoglio doveva impartire l'ordine della scarcerazione di tutti i politici antifascisti.
La risposta data alla nostra delegazione fu chiara: «State attenti a quello che fate, l'isola d'Elba è nelle mani dei tedeschi. Qui a Portolongone, chi, comanda sono ufficiali tedeschi; se fate lo sciopero della fame dovrete fare i conti con loro». E per non lasciare in noi delle incertezze, l'indomani mattina fummo chiamati alla spicciolata in magazzino per indossare di nuovo la casacca con matricola dei reclusi: non ricordo bene se quello toccato a me era il numero 113 oppure il 115.
Nei fatti accadde che quando la sera dell'8 settembre 1943, nel momento in cui Badoglio fuggendo da Roma col Re verso il sud, emanò l'ordine di scarcerazione per tutti i detenuti politici antifascisti, per noi politici, rinchiusi a Portolongone, ci fu un doppio giro di chiave. Ancora una volta il Re e Badoglio ci avevano colpiti. Avrebbero potuto liberarci nel corso dei «45 giorni», ma non lo fecero, e non casualmente. I mesi che seguirono furono per noi mesi di buio, di fame e di impotenza, accompagnati dall'impossibilità di sviluppare qualunque forma di lotta efficace; ma furono anche mesi di una lotta ideale, repressa, ma nutrita dalla certezza che l'Armata Rossa e gli eserciti alleati sarebbero alla fine stati vittoriosi.
E la nostra fiducia non andava soltanto verso l'Armata Rossa e gli eserciti alleati, ma anche ai nostri compagni che dirigevano il Partito, che avevano combattuto la guerra di Spagna, o che erano stati nostri compagni di carcere, ma che, già liberati, non sarebbero rimasti con le mani in mano ad attendere gli eventi. Quei nostri compagni si chiamavano Onorato Malaguti, Giacomino Masi, Leonida Roncagli, Guido Sola Titetto, Otello Putinati, Luigi Porcari, Marino Serenati, Dalife Mazza, e tanti e tanti altri ancora.
Intanto gli alleati avanzavano, risalivano l'Italia verso il Nord: saremmo stati liberati? Come si sarebbe comportato verso di noi il comando tedesco? Improvvisamente una sera, sul tardi, verso la fine di febbraio 1944, noi politici fummo svegliati di soprassalto; ci fecero vestire e raccogliere in fretta e furia le nostre pochissime cose e, ben ammanettati ed incatenati, venimmo spinti in fila indiana giù dal promontorio, verso il porticciolo, poi fummo stivati sopra ad un paio di grandi zattere e, sotto la scorta di militari tedeschi e carabinieri, fummo avviati verso destinazione ignota. E tutto questo a luci spente, poiché non bisognava richiamare l'attenzione degli aerei alleati in permanente perlustrazione.
Ancora prima dell'alba fummo scaricati a Piombino e di lì, in «accelerato», dirottati verso il carcere giudiziario di La Spezia. Una semplice sosta di un giorno e di una notte, durante la quale vi fu un bombardamento aereo che colpì anche il carcere, fortunatamente senza vittime.
I due gruppi vennero di nuovo smistati e fatti partire. Ma verso dove? Nessuno ne sapeva nulla. Poi conoscemmo le destinazioni: noi, del gruppo dei malati, quelli di Pianosa, fummo trasferiti al Penitenziario di Saluzzo, mentre il gruppo originario di Portolongone fu instradato verso Parma e di lì verso il campo di sterminio nazista di Mauthausen. (Qui, purtroppo, morì il compagno Luigi Martelli, con il quale avevo lavorato nell'organizzazione clandestina di Partito nel 1933 e 1934, prima del mio arresto).
Eravamo usciti dall'inferno di Portolongone («perdete ogni speranza voi che entrate» - dicevano i delinquenti comuni condannati a quell'ergastolo), ma restavamo nelle mani dei tedeschi e dei repubblichini. Ma per noi, a Saluzzo, crebbero le speranze in una prossima liberazione. Ma in quale modo, e per quali compagni? Quale fu invece l'atroce sorte di cui rimasero vittime alcuni compagni del nostro gruppo dei politici di Pianosa e la vicenda di alcuni altri? Tutto questo non potevamo prevederlo.


IV
Le nostre condizioni di vita e di detenzione a Saluzzo migliorarono decisamente rispetto a Portolongone. Se ricordo bene eravamo rimasti in 14 compagni ed i 3 condannati per spionaggio politico, i quali, nolenti o volenti, seguivano la nostra sorte. Ottenemmo anzitutto di rimanere un gruppo compatto sistemati in due camere adiacenti. Non più il bugliolo come a Portolongone, un vitto discreto, concordato col direttore del carcere, il quale accettò di aprire una specie di credito a nostro favore. Si sentiva il «vento del nord» e con esso il clima di sviluppo della guerra partigiana. Non soltanto: ottenemmo pure che il compagno Alcibiade Palmieri, che sapeva cucinare, preparasse per noi il vitto in cucina. Tutto questo ci consentì di riprendere le forze e di rimetterci in salute. Leggevamo dei giornali, seguivamo gli avvenimenti, ci preparavamo spiritualmente ad essere prima o poi liberati dai partigiani: questo era il nostro stato d'animo nell'estate del 1944.
Nell'agosto, vi fu a Saluzzo un'azione partigiana per liberare dei detenuti politici. Pensavamo fosse giunto il nostro momento. Ma l'attacco si svolse al carcere giudiziario (e non contro il Penitenziario dove eravamo noi) per liberare ostaggi nelle mani dei tedeschi, destinati alla fucilazione per rappresaglia anti-partigiana. Ancora una volta le nostre speranze furono deluse e la vigilanza dei tedeschi e dei repubblichini su di noi, sia all'interno che dall'esterno del carcere, venne intensificata.
Ai primi di settembre avemmo una felice sorpresa: le mie sorelle, Elsa e Maria, mi vennero a trovare, cariche di ottimi cibi e di pane bianco casareccio, segni dell'amore e della solidarietà non soltanto familiare, ma delle genti e dei partigiani bolognesi verso noi comunisti rinchiusi da anni ed anni nelle galere fasciste. Fu una grande festa per il collettivo. Io rimasi frastornato dalla commozione: quante notizie, quante cose volevo sapere, dopo ormai dieci anni di galera, di separazione forzata dalla mamma e dal babbo, dai fratelli e dalle sorelle, dagli affetti amorosi, dagli amici e dai compagni!
Una buona notizia sovrastò tutte le altre: i compagni lottavano, i partigiani combattevano, la casa dei miei vecchi genitori fungeva da base per il Partito e vi si organizzava la lotta di liberazione. Quei miei vecchi genitori, quelle mie sorelle, mio fratello Guido, caduto sul fronte russo, le cui ultime parole prima di partire soldato furono rivolte a me con tanto affetto e stima: ecco, un altro dei principali sostegni morali, durante la mia decennale vita di carcerato del fascismo!
Ma il fatto più sorprendente ed imprevisto del mese d'ottobre 1944 fu, per noi, il provvedimento di amnistia e di condono emanato da Mussolini a nome della Repubblica di Salò. Con quel provvedimento, applicato a noi politici, quattro del nostro gruppo venivano ad avere cessata la propria pena e avrebbero dovuto essere liberati. Essi erano: Marcello Canova, Giuseppe Bigiordi, Alcibiade Palmieri ed io. Ci chiedemmo quale doveva essere il nostro comportamento. Il collettivo non ebbe incertezze. Bisognava impegnare il Direttore del carcere affinché chiedesse al Ministero di Giustizia del governo di Salò l'applicazione del provvedimento di amnistia e condono nei confronti di noi quattro. Così accadde. Di ritorno da Salò, il Direttore del carcere ci informò del parere del Ministro Pisenti e di Mussolini, secondo i quali dovevamo senz'altro essere scarcerati.
Tuttavia rimanemmo increduli sino a quando, il 26 novembre 1944, un sabato, di primo pomeriggio, mentre nei cubicoli prendevamo il sole come lucertole, sentimmo il Capo-guardia chiamare per nome e cognome, e non con il numero di matricola, i quattro compagni destinati alla scarcerazione immediata.
Quale fu in quell'istante il tumulto dei sentimenti in chi usciva ed in chi rimaneva? Quali avvenimenti e quale sorte attendeva per l'immediato futuro gli uni e gli altri? Che cosa significava doverci salutare tra compagni, forse anche per l'ultima volta, dopo avere per anni ed anni vissuto e sofferto insieme il carcere fascista?
Non ho mai rivelato e non ho mai saputo descrivere quel turbinio di sentimenti e di emozioni. So che non fui capace di proferire chiare parole di saluto e di augurio: rimasi muto, strinsi uno per uno lungamente i compagni che rimanevano a passeggio nei cubicoli. Con il nodo alla gola e le lacrime agli occhi mi separavo da loro, forse per poco tempo, forse per lungo tempo, forse per sempre.
In ogni caso uscivo per riprendere di nuovo e continuare la lotta, in condizioni diverse. Di questo mi sentivo sicuro.
Sbrigate le pratiche per la scarcerazione, ottenuta una coperta a testa come mantello contro la pioggia ed il freddo durante il viaggio, chiedemmo ed ottenemmo dal direttore che sul foglio di via di ognuno di noi non venisse specificata la natura della nostra condanna di detenuto politico. Verso sera uscimmo dal Penitenziario di Saluzzo. Era la sospirata liberazione.
Nel lontano 19 dicembre 1934, verso le ore 9,30 del mattino ero stato arrestato e condotto in Questura ed in carcere a Bologna: il 26 novembre 1944, alle ore 17,30 uscivo dal carcere insieme a Canova, Palmieri e Bigiordi. Attraversammo il piazzale diretti alla stazione ferroviaria per raggiungere Torino, lasciandoci alle spalle il Penitenziario e alla nostra sinistra il Carcere Giudiziario.


V
Il viaggio di ritorno si presentava come una incognita. Canova ed io dovevamo e volevamo raggiungere Bologna; Alcibiade Palmieri doveva raggiungere Alassio, in provincia di Savona, dove abitava sua moglie, pure lei bolognese, sorella del compagno socialista Umberto Trebbi, che nel 1933 ebbi occasione di incontrare durante l'attività clandestina (egli era allora molto conosciuto nell'officina «Minganti», dove lavorava pure il compagno Armando De Maria, del mio stesso processo. Il compagno Bigiordi dal canto suo, doveva raggiungere Biella, se non gli capitava prima di incontrare una formazione partigiana. Molto si parlava in Piemonte delle formazioni e delle azioni partigiane in quei giorni.
Dalla stazione di Saluzzo arrivammo la sera stessa del sabato alla stazione centrale di Torino. La confusione ed il buio, per via dei bombardamenti, mi impressionarono. Cominciavo a stupirmi del lungo distacco e della rottura durata ben dieci anni con la vita civile.
Al primo contatto con la nuova realtà, con la ritrovata libertà, ci si rende conto come, inconsapevolmente, al di fuori di ogni possibilità di valutazione dei danni e delle pene subite, la vita carceraria abbia operato come una lima sottile e sorda, spegnendo o attenuando ricordi e cognizioni della vita normale di un uomo. Non basta scarcerare un «politico» per restituirlo integro alla società. Malgrado ogni volontà, questo non può avvenire che un po' alla volta, gradualmente.
Le coincidenze dei treni per Milano e, poi, per Bologna, furono relativamente sbrigative, tant'è che la domenica mattina del 27 novembre eravamo già in vista della riva sinistra del Po, presso Piacenza. E fu qui che iniziarono i guai. Sul ponte ferroviario i treni non transitavano più. Attraversammo il grande fiume in traghetto, avvolti nella coperta, infreddoliti; la gente ci guardava con un certo sospetto. Arrivati a Piacenza iniziammo la camminata che durò una intera settimana prima di giungere a Bologna. Via via, lungo il cammino ci sbarazzammo dei libri e delle valigie. Le nostre poche energie fisiche scemavano con l'aumento delle difficoltà a trovare da dormire e da mangiare lungo la via Emilia.
Non mancarono momenti scabrosi. Specialmente quando, arrivati a Piacenza, i repubblichini ci fermarono ed esaminati i nostri fogli di via sembravano decisi a non lasciarci proseguire il viaggio verso casa. Alla fine, dopo avere ascoltato Canova che dichiarò di essere stato condannato per «bancarotta fraudolenta» ed il sottoscritto (che mi ostinavo a dire di essere stato condannato per un «delitto innominabile», cioè un reato che non intendevo menzionare), ci fu concesso di proseguire il nostro cammino. Tirammo un sospiro di sollievo. Finalmente, in un modo o nell'altro, la sera di sabato 3 dicembre, arrivammo alla stazione secondaria di Modena, per prendere, l'indomani mattina, il treno Modena-Vignola e Vignola-Bologna. Ancora una volta facemmo i conti senza l'oste. La partenza da Modena fu regolare, ma dopo Spilamberto, circa all'altezza di Bazzano, il treno si fermò. Non si poteva proseguire oltre, i passeggeri furono scaricati. A piedi Marcello ed io raggiungemmo Bazzano verso mezzogiorno e ci trovammo dinnanzi ad una cittadina con le strade deserte, sebbene fosse domenica, e per di più attorno a mezzogiorno. Non credevamo ai nostri occhi. Guardavamo smarriti. Bussammo ad una porta. Da una finestra semi-aperta una donna ci chiese: «Cosa volete? Non lo sapete che tedeschi e repubblichini hanno fatto un rastrellamento ed hanno portato via tante persone?» Poi ci disse che la ferrovia Vignola-Bologna non era in funzione.
Confidammo allora, ancora una volta, nel nostro foglio di via e giù a piedi lungo la Bazzanese, dove però, giunti a Zola Predosa, fummo fermati, ed interrogati dai tedeschi, ma poi rilasciati. Finalmente a Casalecchio di Reno salimmo in tram sino al centro di Bologna. Era già sera e alle ore 20 scattava il coprifuoco.
Affamati e stanchi morti, Marcello coi piedi gonfi che faticava a reggersi. Eravamo due «campagnoli», lontani da dieci anni da Bologna, non conoscevamo in città famiglie cui rivolgerci. Potevamo andare in Questura, presentando il foglio di via. Decidemmo di no. Potevamo fermarci sotto un portico, su dei gradini, nell'antro di un portone, ma non era prudente. Canova convenne con me che non ci rimaneva altro da fare che incamminarci lungo via Zamboni, infilare San Donato e puntare su Quarto Inferiore, verso la casa dei miei genitori. Occorreva un ultimo sforzo, ancora sette chilometri, e consumare le ultime energie. Per fortuna nei pressi della chiesa di San Donnino, a cinque chilometri da casa mia, ma ormai allo scoccare del coprifuoco, fummo sorpassati da un uomo in bicicletta, che rallentò per scrutare se eravamo dei civili, oppure dei tedeschi o dei repubblichini. Decisi di rivolgergli la parola, di chiedergli aiuto e di caricare uno di noi sulla sua bicicletta. E fummo fortunati. Quell'uomo si chiamava Villani, era di Granarolo Emilia, commerciante in granaglie. Ci riconoscemmo: con lui avevo fatto le scuole elementari. Fu molto gentile: Marcello salì in bicicletta. Eravamo pure protetti di fronte all'infrazione del coprifuoco, giacché il Villani disse di essere ben conosciuto al comando tedesco. E così, verso le 21, giungemmo a casa dei miei genitori. Li chiamai e li svegliai alla vecchia maniera, gettando sassolini contro la finestra della loro stanza da letto.
Erano trascorsi dieci anni meno dieci giorni dal mio arresto. Riabbracciai il babbo, portai quasi di peso la mamma nella camera da letto. Parlammo: quella lunghissima notte nessuno di noi dormì, malgrado la stanchezza.
Il giorno dopo, lunedì 9 dicembre, Canova venne trasportato in bicicletta a Minerbio presso la famiglia di suo fratello Italo, dal mezzadro Alfredo Bassini di Quarto Inferiore, mentre mio padre (il babbo era un vecchio leghista socialista, ora comunista) si recò in comune a Granarolo a presentare il mio foglio di via al Reggente del fascio repubblicano, Ferdinando Brighenti, il quale non ebbe la pretesa che io mi presentassi personalmente.
Anche il Brighenti era stato un mio compagno di scuola alle elementari e conosceva bene la mia famiglia ed i compagni del luogo.
Con l'interessamento del compagno Ugo Tassinari, dirigente dell'organizzazione clandestina di Partito e del Comitato di Liberazione di Granarolo - subito informato del mio ritorno - nel corso di pochi giorni venni fornito di una carta di identità e di un «Arbeiter» del comando tedesco, e ciò proprio per interessamento del Reggente Brighenti.
Compresi subito, anche attraverso questo atto, come non vi fosse solo ferocia in certi «repubblichini», ma anche, in alcuni di loro, la ricerca di crearsi degli alibi per il domani. Per quello che so, infatti, i comunisti ed i «repubblichini» di Granarolo non si scannarono a vicenda, anche se, pure Granarolo ebbe un numero piuttosto alto di partigiani caduti. Spietata fu invece la lotta contro l'invasore tedesco.
Con mia sorpresa, soltanto due giorni dopo il mio arrivo a casa, i compagni mi invitarono a recarmi a Bologna. Era troppo pericoloso rimanere a Quarto poiché s'andava diffondendo la notizia del mio ritorno. Rientravo a tutti gli effetti nella clandestinità.
Dopo avere trascorso due notti e due giorni con i miei parenti, ripartiti per la città. Alla fine di dicembre fui nominato Commissario politico delle Brigate S.A.P. della Provincia di Bologna, il cui comandante ed il vice-comandante erano rispettivamente i compagni «Giacomino» (Giacomo Masi) ed il giovanissimo Aroldo Tolomelli (Fangèn).
Intanto, in quei 15-20 giorni, «Giacomino» mi aveva dato molte informazioni, documenti politici e stampa da leggere sul lavoro del partito e sul movimento partigiano. Tra quei documenti ricordo i discorsi di Togliatti sulla svolta di Salerno e quello sul «Partito nuovo».
Seppi che «Cristallo» (Giuseppe Alberganti), «Dario» (Ilio Barontini), Giuseppe Dozza e Fernando Zarri (il giovane segretario della Federazione comunista bolognese, pure lui già condannato dal Tribunale Speciale fascista), avevano salutato con viva soddisfazione la nostra scarcerazione da Saluzzo e mi avevano proposto ad assumere quella responsabilità.
Ero commosso ed orgoglioso. Il mio pensiero riconoscente andava ai compagni con i quali, nei lunghi anni di carcere, avevamo studiato ed eravamo cresciuti nella formazione politica, rinsaldando il nostro ideale di militanti comunisti. In quei mesi del terribile inverso 1944 e 1945 della lotta partigiana, spesso pensai ai compagni rimasti a Saluzzo. Mi chiedevo se sarebbero stati liberati dai partigiani, o quale sarebbe stata la loro sorte. Soltanto dopo la liberazione appresi, a pezzi e bocconi, della tragica fine di alcuni di loro. Un giorno del marzo 1945 tutti furono liberati dal Penitenziario dai partigiani e condotti su verso le colline circostanti. Giunta la sera, i compagni più provati dalla stanchezza e dalla cattiva salute, sostarono presso un cascinale, scortati da alcuni partigiani, mentre i più resistenti furono avviati verso una formazione partigiana. Per questi ultimi fu la salvezza. Mentre per gli altri fu la fine, insieme ai partigiani che li scortavano. Fu un delatore a condurre alla cascina i tedeschi durante la notte. I compagni furono assaliti, su di loro i tedeschi aprirono il fuoco. I morti ed i feriti - fu raccontato - vennero bruciati su cataste di legna. Insieme a questi «vecchi» compagni del gruppo di Pianosa ed a giovani partigiani, subirono la stessa fine i tre detenuti condannati per spionaggio.
Questi nostri compagni martiri del collettivo di Pianosa, si chiamavano: Cesare Manetti, operaio tornitore, per lunghi anni emigrato in Francia, diventato poi funzionario di Partito e collaboratore del compagno Togliatti, arrestato nel settembre del 1936 a Bergamo e condannato a 18 anni di carcere dal famigerato Tribunale Speciale fascista, di lui dice la sentenza: «elemento molto pericoloso, che anche in udienza fa decise affermazioni di fede comunista»; di lui ricordo le lezioni di economia politica e sul materialismo storico. Ercole Bazzoni, operaio meccanico della «Breda» di Milano, arrestato nel febbraio 1939, condannato a 15 anni di carcere, coraggioso e generoso compagno, col pensiero sempre rivolto ai compagni di lavoro, alla sua Milano, a sua moglie e alle sue due figlie. Aldo Falchetti di Roma, elettricista presso la «Scalera Film», condannato per la seconda volta nel 1942 a 5 anni di carcere dal Tribunale Speciale fascista perché: «Comunista irriducibile, anche in istruttoria proclamava la necessità di abbattere il regime borghese (fascista)». Silvio Barbagelata, di Genova, figlio di un industriale-armatore, generoso, disciplinato ed ardente combattente.
Anche di questi compagni, che, trattenuti in carcere dopo l'8 settembre 1943, furono trucidati nel marzo del '45, rimane viva in noi la memoria della vita trascorsa nel collettivo di Pianosa e di Portolongone.

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Con questo Quaderno riprende la serie delle pubblicazioni, iniziata alcuni anni fa, a cura del Centro di Documentazione "Krupskaja" di Bologna.
Più che sui motivi di questa lunga pausa (qualcuno non ricorderà forse nemmeno le precedenti pubblicazioni…), vorremmo spendere due parole sulle ragioni che ci hanno spinto a riprendere il lavoro.
In questi anni, nel nostro dibattito abbiamo sempre cercato da una parte di analizzare ed interpretare le trasformazioni che avvenivano negli apparati e nelle strutture del comando capitalista a livello nazionale ed internazionale, e dall'altra di individuare quale fosse il contributo più utile da mettere in campo, ovviamente in ragione delle nostre forze, ma sempre in un chiara direzione: lo sviluppo di processi di ricomposizione politica e di classe.
E in questo senso, sosteneree stimolare la circolazione di materiali e contributi, passati o attuali, che evidenziano elementi di identità e di solidarietà di classe, oggi ci sembra più che mai utile al nostro scopo.
La forma del "Quaderno", così come la vedete, ci è sembrato ancora il mezzo più semplice per produrre (e far riprodurre) i testi che di volta in volta verranno pubblicati.

I compagni e le compagne del C. di Doc. "Krupskaja"


Suggerimenti e contributi vanno inviati a:

Centro di Documentazione "Krupskaja"
via del Verrocchio, 12/N - 40138 Bologna
E-mail: krupskaja17@yahoo.it

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"Quaderni" già disponibili:

N. 1 - Quelli di Pianosa - Storie di Comunisti imprigionati.

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