IL ROS E' NUDO
Come si fabbrica un'inchiesta giudiziaria
Sommario
A te, lettore, che hai fatto lo sforzo di procurarti questa
pubblicazione e di aprirne le pagine, cercheremo di appagare l'interesse e la
curiosità. Ciò che stai per leggere molto probabilmente non ti lascerà per
diverso tempo. Verrà a turbare i tuoi sonni, come ha già fatto con quelli di
molte altre persone. Sappi che la magistratura romana ha proibito la
divulgazione del "rapporto di servizio" qui pubblicato. 1 suoi autori - i
carabinieri - ne hanno sconfessato la paternità. Ma la loro responsabilità è
talmente evidente, e la rabbia per essere stati smascherati così forte, che
hanno deciso di prendersela con chi ha avuto il coraggio di parlarne per
primo. Il Re si è adirato col bambino che ne ha additato le vergognose nudità.
Il bambino in questione è Radio Black Out, una "radio libera" di Torino che il
10 luglio scorso si è vista recapitare questo "rapporto di servizio" del Ros
(Raggruppamento Operativo Speciale) di Roma. In esso vengono spiegati per filo
e per segno il come e il perché di una inchiesta giudiziaria contro decine e
decine di anarchici, avviata grazie all'utilizzo di una collaboratrice di
giustizia. Inchiesta effettivamente in corso e che proprio nei giorni in cui è
venuto alla luce quel fascicolo era giunta alle udienze preliminari davanti al
gip. Ma non si tratta di un resoconto fatto a posteriori, come si potrebbe
pensare. Si tratta della programmazione di un'inchiesta giudiziaria, essendo
questo documento datato dicembre 1994. In poche parole, questa incursione
contro gli anarchici è stata decisa, studiata e programmata a tavolino dai
carabinieri del Ros di Roma tre anni or sono. I fogli che riproduciamo
fedelmente (in scala ridotta) ne sono la dimostrazione, e costituiscono una
clamorosa conferma a posteriori di ciò che gli anarchici avevano paventato e
denunciato a più riprese per mezzo di manifesti, volantini, giornali, e nelle
iniziative pubbliche organizzate nel corso degli ultimi due anni.
Constatata l'importanza di quel fascicolo, i redattori della radio
torinese lo hanno reso pubblico, naturalmente dopo averne consegnato una copia
in Questura come richiesto dalla legge. E lo hanno consegnato anche agli
avvocati degli anarchici, impegnati in quei giorni nelle udienze preliminari
il procedimento vero e proprio. Appena presentato in aula, questo documento è
esploso come una bomba. Un imbarazzatissimo giudice per le indagini
preliminari, dopo essersi chiuso in camera di consiglio con un pubblico
ministero sostituto del titolare dell'inchiesta, ha deciso di non prenderlo in
considerazione, ipotizzando che si trattasse di un "maldestro" tentativo di
far rinviare il processo. Gli avvocati difensori hanno convocato presso il
Tribunale di Roma una conferenza stampa dove hanno avuto il coraggio di
presentarsi soltanto due giornalisti. Altri giornalisti interpellati, benché
consapevoli della gravità dell'episodio, hanno risposto di non essere
interessati alla questione giacché gli anarchici "non fanno notizia", non
aiutano a vendere! Nei giorni successivi gli stessi carabinieri del Ros hanno
perquisito per ben due volte la sede della radio torinese "in cerca" di prove
che potessero convalidare la tesi di un falso - unica strada di salvezza per i
carabinieri e per la Procura romana. Pochi giorni dopo mani molto esperte
hanno tranciato con un seghetto il cavo del trasmettitore della radio.
Ma
la tesi che questo documento sia un "falso" non regge e non convince nessuno.
Valutiamo assieme i fatti. Il pubblico ministero presente in aula il giorno in
cui gli avvocati della difesa hanno presentato il documento del Ros, dopo
averne presa visione ha per prima cosa ipotizzato il reato di "violazione di
segreto d'ufficio". Ciò significa, in poche parole, riconoscere esplicitamente
l'autenticità del fascicolo riservato. Un abbaglio? Passiamo oltre.
Questa
relazione contiene numerosi dati e riferimenti a vecchi rapporti di polizia
che si sono rivelati esatti. Così come i nomi dei militari che l'hanno
realizzata corrispondono a persone effettivamente esistenti. Ma a
corrispondere sono soprattutto i gradi ricoperti nel mese di dicembre 1994 da
questi carabinieri, che da allora ad oggi sono cambiati (avendo nel frattempo
ottenuto un meritato avanzamento di carriera sulla pelle degli anarchici
inquisiti). Il linguaggio usato è quello tipico di questi signori, e la
lunghezza del testo è tale da rendere ardua una imitazione. Indicativa è poi
la reazione del giudice delle indagini preliminari e del pubblico ministero di
fronte all'improvvisa comparsa di questo documento. Anziché dare immediato
ordine di sequestrare tutti gli incartamenti del Ros relativi a questa vicenda
- cosa che non poteva intimorire nessuno se davvero i carabinieri fossero
stati estranei alla stesura del fascicolo - il gip ha preferito prendere tempo
per poi decidere di affidare le indagini del caso a imprecisati organi di
polizia giudiziaria. Le successive perquisizioni nella sede della radio
torinese ad opera degli stessi Ros, oltre al misterioso sabotaggio che ha
messo fuori uso la stessa radio per circa tre settimane, dimostrano fino a che
punto il gioco venga condotto ormai a carte scoperte. La magistratura romana
ha incaricato di indagare sul conto di questo documento i suoi stessi autori
Ancora più incredibile, a comandare le due perquisizioni era ad dirittura uno
dei curatori della relazione "riservata".
Ma l'elemento a nostro avviso più
importante per giudicare la veridicità di questo documento è un altro, cioè la
data della sua spedizione. Vediamo perché.
La "nota informativa" sugli
anarchici è stata recapitata a Radio Black Out il 10 luglio scorso.
Esattamente due giorni prima su tutti i quotidiani campeggiava la notizia di
uno scandalo che coinvolgeva il "Reparto Operazioni Sporche" di Genova. Un
pentito aveva vuotato il sacco facendo arrestare il tenente colonnello Michele
Riccio che guidava il Ros di quella città più altri sottufficiali accusati di
aver falsificato prove, inventato inchieste, indottrinato pentiti. Chi è
Michele Riccio? E' l'ex capo della Dia genovese medaglia d'argento al valor
militare per meriti "antiterrorismo (fu lui a comandare la squadra che
crivellò i brigatisti di via Fracchia), ma soprattutto ex braccio destro del
generale Dalla Chiesa in quella "mitica" squadra che, ora lo dicono tutti
senza giri di parole, non andava certo per il sottile pur di ottenere qualche
risultato.
Nel corso dell'inchiesta sul Ros di Genova, da un dossier spunta
fuori una lettera inviata il 21 marzo scorso da un anonimo carabiniere al
Consiglio Superiore della Magistratura, alla Procura d Genova, al comando
generale dei CC, eccetera, col risultato di venire occultata. Il carabiniere
senza nome ha rivelato i metodi usati dai sottufficiali del Ros genovese,
risaputi dai vertici dell'Arma che hanno sempre taciuto e anche da alcuni
magistrati, e ha aggiunto che si tratta di metodi ancora in vigore presso
diverse sezioni dei carabinieri. Ma, essendo stata questa lettera di denuncia
accuratamente insabbiata, lo scandalo è esploso solo in seguito alle
dichiarazioni di un pentito. C'è da stupirsi che l'anonimo mittente del testo
che qui pubblichiamo abbia deciso di inviarlo a una "radio libera"? E non
possiamo fare a meno di chiederci a quanti altri destinatari l'avrà inviato.
Interpellati da un giornalista sul caso Riccio, alcuni ufficiali dei
carabinieri del Ros di Roma si esprimevano con queste illuminanti parole: "A
volte esiste nel giudice, soprattutto nella polizia giudiziaria, una forzatura
delle regole perché si vuole incastrare qualcuno che rompe le scatole. Ma non
si ha la pazienza di attendere, di ottenere le prove che confermano i
sospetti". Ebbene, adesso appare chiaramente quali siano i metodi adottati dal
Ros nella gestione disinvolta dei "pentiti", nella falsificazione dei verbali
di deposito dei corpi di reato e nelle relazioni di servizio, nella
costruzione delle prove necessarie per incastrare qualcuno che, appunto,
"rompe le scatole". Adesso nessuno potrà fingere di ignorare come si
costruiscono testimoni e pentiti ad hoc per fabbricare inchieste giudiziarie.
Ma, come qualcuno ha giustamente fatto notare, non si può scaricare tutto il
marcio su un singolo funzionario. t sbagliato parlare di "metodo Riccio",
perché ora sappiamo che si tratta del metodo Ros, Dia, Eccetera Eccetera. I
disperati tentativi di circoscrivere la vicenda alla sola città di Genova,
fatti dal colonnello Mario Mori, capo del Ros dei carabinieri, secondo cui i
metodi investigativi utilizzati dal suo sottoposto ligure "non appartengono
comunque al Ros", vengono vanificati anche dal documento che qui presentiamo.
Torniamo alla questione del "falso" Ebbene, è plausibile pensare che
qualcuno fra gli avvocati, i giornalisti "compiacenti", gli imputati, o i loro
amici, approfittando del clamore sollevato dallo scandalo Riccio, abbia potuto
confezionare nel giro di pochissime ore, un paio di giorni al massimo, un
documento simile? Che qualcuno si sia cioè procurato tutte le informazioni
necessarie, reperibili solo da un'attenta lettura delle oltre 80.000 pagine
che compongono i fascicoli dell'inchiesta, e le abbia rielaborate con una tale
precisione, rapidità, tempestività? La risposta non può essere che negativa. E
ci sembra di poter tranquillamente affermare che nemmeno un carabiniere dei
Ros, con tutte le facilitazioni garantite dal suo ruolo, avrebbe potuto
realizzare una simile impresa da solo.
Rimane un'unica possibilità, seria
e concreta: la nota riservata dei Ros è autentica. Qualche carabiniere,
proprio in seguito allo scandalo scoppiato a Genova ma le cui ripercussioni
sono arrivate immediatamente a Roma, ha spedito questo documento a radio Black
Out di Torino, come probabilmente ad altri mezzi di informazione. Ignoriamo
quali siano stati i motivi che l'hanno spinto a compiere un simile gesto.
Ignoriamo se l'abbia fatto per scatenare una faida interna ai Ros, o per
smentire il colonnello Mori, o perché convinto che anche gli organi repressivi
dello Stato debbano seguire le regole democratiche.
Francamente, non ci
interessa nemmeno saperlo.
Ciò che ci interessa è fare in modo che nessuno
possa fingere di non sapere come e perché decine e decine di anarchici sono
finiti sotto processo in Italia, alcuni dei quali continuano a rimanere chiusi
in galera in stato di "custodia cautelare". Una storia da tutti trascurata e
che vogliamo ricordare.
Martedì 17 settembre 1996
Sono le prime luci dell'alba. Centinaia di carabinieri appartenenti
ai R.O.S. fanno irruzione armati di tutto punto, e anche di più, nelle case di
una settantina di anarchici in tutta Italia. t lo spettacolare punto di
partenza della seconda fase di una operazione giudiziaria cominciata
ufficialmente il 16 novembre 1995 con l'apertura di una inchiesta contro 68
persone. Su richiesta di due! procuratori di Roma, Antonio Marini e Franco
Ionta, il giudice istruttore Claudio D'Angelo firma i mandati di "custodia
cautelare" nei confronti di 29 anarchici accusati di "partecipazione a banda
armata, associazione sovversiva, detenzione di armi e esplosivi". Alcune ore
più tardi, il magistrato Marini tiene una conferenza stampa per illustrare gli
esiti dell'operazione. La "banda armata" si chiama "O.R.A.I." (Organizzazione
rivoluzionaria anarchica insurrezionalista), nome esotico di cui nessuno ha
mai sentito parlare, organizzazione fantasma giacché non ha mai rivendicato
alcunché. Questa "banda" si sarebbe autofinanziata con i proventi di rapine e
di sequestri organizzati in collaborazione con "criminali di diritto comune".
Il denaro sarebbe servito alla pubblicazione di alcuni giornali anarchici
(Anarchismo, ProvocAzione, Gas, Canenero). Per fugare in anticipo ogni
probabile dubbio, Marini ci tiene a precisare che non si tratta di un attacco
alle idee: "In una vera democrazia, chiunque può esprimere le opinioni che
vuole, comprese quelle più critiche. Anche gli anarchici, se fanno politica
onestamente, possono apportare il loro contributo a un potere rispettoso dei
diritti individuali". Del resto, molti anarchici in Italia e nel mondo intero
sono persone oneste - ma non questi. Questi non sono altro che pericolosi
criminali, con una inspiegabile tendenza alla sovversione dell'ordine
democratico. Come ogni "banda" che si rispetti, anche questa deve avere un
capo: si tratterebbe di Alfredo Bonanno, anarchico molto noto. La stampa di
ogni colore rispolvera i titoli degli anni '70 per far risorgere lo spettro
del "terrorismo".
Il come e il perché di una inchiesta giudiziaria
Ci sono molte ragioni che giustificano l'operato della magistratura
romana, e chi volesse conoscerle non ha che da leggere le pagine che seguono.
Tuttavia queste ragioni, pur arrovellando da molti anni il cervello di alcuni
magistrati nostrani, avevano comunque bisogno per venire allo scoperto di un
fatto concreto che servisse da pretesto. Cominciamo da questo.
Il 19
settembre 1994 cinque anarchici vengono arrestati a Serravalle di Trento, in
seguito a una rapina in una banca. Una di loro viene assolta in primo grado.
Ma dopo nove mesi la Corte d'appello di Trento condanna tutti gli imputati a 3
anni e 4 mesi e a 4 anni di detenzione. Fin dal primo momento, una grande
solidarietà nei confronti dei detenuti si manifesta in tutta Italia attraverso
le più disparate iniziative.
Ma, seguendo una usanza assai comune fra i
magistrati, fin dall'aprile del 1995 il giudice Carlo Ancona cerca di
addebitare ai quattro detenuti altre due rapine a mano armata commesse nella
stessa zona e rimaste senza colpevoli. Il processo per questi nuovi fatti
viene fissato per il 13 ottobre successivo a Trento. Il giudizio viene
rinviato in modo incomprensibile fino al giorno in cui una ondata di
perquisizioni effettuate in tutta Italia mette alla luce l'inchiesta Marini.
Quando il 9 gennaio 1996 si riapre il processo a Trento, il pubblico ministero
Bruno Giardina annuncia che Mojdeh Namsetchi, ex ragazza di uno degli
anarchici arrestati, sta collaborando da qualche mese con le Procure di Roma e
di Trento. Durante l'udienza del 16 gennaio 1996, la ragazza - che anarchica
non è mai stata e che non ha mai preso parte alle iniziative dei movimento -
dichiara di aver commesso le rapine con gli imputati e con altri tre
anarchici. Tuttavia l'amnesia di cui è preda nel descrivere i fatti è
rivelatrice delle sue menzogne. Questa ragazza infatti non ricorda proprio
nulla di quanto accadde quel giorno all'interno e all'esterno della banca: non
ricorda i vestiti indossati dai rapinatori, non ricorda il nome della banca,
non ricorda se le sia caduta la pistola o se le sia partito un colpo, non
ricorda quando e dove è scesa dal treno. La sola cosa che ricorda bene sono i
nomi dei partecipanti alla rapina e vagamente il mezzo di fuga, cioè un'auto
su cui sarebbero saliti in sei. Tanto basta al tribunale di Trento per
condannare gli anarchici imputati. Dopo questo verdetto Mojdeh Namsetchi
diventa a tutti gli effetti una collaboratrice di giustizia credibile, mentre
la Procura di Roma riceve il via libera per la sua inchiesta.
Adesso
sappiamo che Mojdeh Namsetchi ha cominciato a collaborare con i magistrati già
parecchi mesi prima dell'inizio del processo. Ma come mai le sue dichiarazioni
sono state usate quasi un anno dopo? Per il semplice fatto che i magistrati
avevano bisogno di tempo per costruire il loro teorema accusatorio. Messa alla
prova, alquanto maldestramente, sul piccolo palcoscenico di Trento, la falsa
pentita è ora pronta per il grande spettacolo romano. Così, anche se nessun
fatto nuovo è sopraggiunto, gli arresti sono stati resi possibili grazie alle
sue "rivelazioni". E che rivelazioni! Sequestri di persona organizzati in
luoghi dove tutti andavano e venivano, omicidi commentati durante riunioni
pubbliche con i nomi di chi li avrebbe commessi - cose che sconfinano nel
delirio. Attraverso la credibilità accordatale dal tribunale di Trento, si
passa naturalmente alla creazione di una organizzazione, cui Mojdeh Namsetchi
avrebbe partecipato. In effetti, quale migliore modo per avallare la tesi di
una "banda armata" che non esiste, che quello di dotarsi di un personaggio che
giura di averne fatto parte? Nel frattempo la corte di Cassazione ha già
annullato per intero il verdetto di un processo (quello sul sequestro di
Mirella Silocchi, dove erano stati condannati anche alcuni anarchici) e in
parte quello del processo di Trento, almeno per quanto riguarda un'imputata.
Ma per i giudici la collaboratrice Namsetchi conserva ancora la sua
credibilità.
Per quali ragioni
Ciò che spaventa di più il potere è, da un lato, l'esistenza di
donne e uomini che di fronte alla glaciazione sociale e alla fine apparente di
ogni critica allo Stato e al capitale, continuano a parlare di insurrezione
come possibile inizio di una rivoluzione che metta fine alla tirannia
dell'autorità e della merce; e dall'altro, tutti gli anonimi che hanno
compiuto migliaia e migliaia di azioni di attacco contro le strutture del
dominio e dello sfruttamento.
Il problema è evidente. Lo Stato non riesce a
individuare i responsabili materiali delle azioni di attacco avvenute in
passato, così come non riesce a individuare i responsabili materiali
dell'attentato del 25 aprile contro palazzo Marino a Milano, così come non gli
sarà facile individuare i responsabili materiali delle azioni di attacco che
subirà in futuro. Viceversa gli è estremamente facile conoscere chi le
sostiene apertamente. Nell'impossibilità di fermare l'Azione, allo Stato non
rimane che provare a immobilizzare l'Idea nella vana speranza che in tal modo
anche la prima si esaurisca. Ma l'ideologia democratica, la musica d'ambiente
che culla i sonni dei sudditi, si fonda sulla promessa che si è liberi di
esprimere qualsiasi idea, foss'anche la più estremista. La democrazia si fa un
vanto di proclamare che non si può reprimere un'Idea. Come fare per aggirare
l'ostacolo senza mettere in mostra la menzogna di cui si nutre l'ideologia
democratica? t presto detto. Le autorità dello Stato inventano l'esistenza di
una organizzazione militare strutturata su due livelli - uno pubblico e legale
cui apparterrebbero numerosi anarchici conosciuti per le loro attività,
l'altro occulto e illegale cui apparterrebbero tutti gli anarchici già
detenuti per altri motivi - a cui poter attribuire quei gesti di rivolta che,
per la semplicità dei mezzi usati, possono essere stati commessi da chiunque.
In questo modo si colpiscono una seconda volta gli anarchici detenuti,
ritenuti rei di aver commesso l'Azione, e allo stesso tempo si può reprimere
anche chi diffonde apertamente l'Idea. Ecco spiegata la premura del pubblico
ministero Marini nello specificare che non si tratta di un processo alle idee,
laddove è proprio di questo che si tratta. La sola cosa condivisa dagli
anarchici imputati in questa inchiesta è l'Idea anarchica, non certo la
militanza in una organizzazione armata specifica per altro mai esistita. Anche
se oggi non esistono espressioni sovversive capaci di scuotere autenticamente
l'ordine stabilito, il potere teme comunque che tutti i piccoli segni di
insoddisfazione, di cui non si può negare l'esistenza, possano riconoscersi in
un progetto insurrezionale (e viceversa). Cosa c'è di più semplice ed efficace
che inventarsi una "banda armata"?
Così facendo ottiene
contemporaneamente:
- la possibilità di mettere a tacere per anni, anche in
assenza di accuse specifiche, un buon numero di anarchici. Cosa che non poteva
ottenere solo con i pur numerosi processi per apologia di reato, istigazione a
delinquere, occupazione, eccetera;
- la criminalizzazione di chi
solidarizza con i compagni detenuti, di chi non ha un lavoro fisso, di chi
frequenta gli spazi occupati che rifiutano di legalizzarsi... in breve, di chi
non fa dell'obbedienza virtù;
- la dimostrazione che anche i nemici
dell'autorità si organizzano in maniera autoritaria, il che equivale a dire
che non si può sfuggire ai rapporti di controllo e di sottomissione;
-
l'occasione di rinnovare l'illusione che, al di fuori della sopravvivenza e
dell'attendismo, della rassegnazione e della delega al potere, non esiste che
l'organizzazione armata - prolungamento politico della politica con altri
mezzi. Una volta consumato miseramente lo spettacolo dei partiti combattenti,
ogni discorso insurrezionale viene squalificato;
- la conferma che coloro
che si ribellano sono gli ultimi fantasmi di un'ideologia rivoluzionaria;
- l'intimidazione verso tutti coloro che hanno pruriti sovversivi, che
vengono messi in guardia preventivamente su quanto potrebbe loro accadere se
continuassero a criticare il potere.
Ecco perché il dominio si presenta
come eterno. La democrazia è la libertà. Una rivolta contro la libertà è
inconcepibile, dunque non esiste. Tutti devono credere che, contro il presente
democratico, nulla accade. Nulla può accadere. Ciò che accade è opera di
"terroristi", quindi è come se fosse nulla. Agli sfruttati che non intendono
arruolarsi nelle truppe di una organizzazione armata specifica, o contemplare
le sue gesta, non rimane che la protesta legale - ecco cosa suggerisce il
potere. 0 riformismo, o barbarie. La conclusione di questa logica totalitaria,
è che nessun cambiamento è possibile.
La chiusura del cerchio
Il 20 ottobre 1997 è fissata a Roma, nell'aula bunker del carcere di Rebibbia, la prima udienza del processo contro una sessantina di persone accusate di "banda armata" e di "associazione sovversiva". Molti degli imputati sono anarchici, nemici dichiarati di ogni autorità. A questa vicenda, che come detto si protrae da qualche anno, i mass media nazionali hanno concesso pochissimo spazio, e solo quando sono stati "invitati" a farlo (a modo loro, s'intende) dagli inquirenti. Strano, verrebbe da pensare. Fino a qualche anno fa processi del genere occupavano regolarmente le prime pagine dei giornali. Erano però altri tempi, ricchi di fermenti sociali. Lo Stato godeva di poco consenso e la tanto sbandierata "lotta contro il terrorismo" gli serviva per riguadagnare un po' del prestigio perduto. Ben presto il "terrorismo" avrebbe lasciato posto alla "droga", poi alla "mafia". Tanti draghi immaginari, creati appositamente per permettere ai cavalieri dello Stato di vincerli e di ottenere così il favore popolare. Oggi, il consenso attorno allo Stato è solido. Nulla sembra scalfirlo. Le mani di chi ci governa non saranno forse pulite, ma sono libere di amministrare l'esistente a loro piacimento. Ecco perché non è più il caso di far sapere in giro che, alle soglie dell'anno duemila, esiste ancora qualche scriteriato che non ha smesso di desiderare la distruzione di ogni potere. Una ventina di anni fa il modo migliore per esorcizzare l'ipotesi di una rivoluzione sociale era quello di parlarne continuamente, annegarne l'idea in un mare di chiacchiere. Oggi si segue il procedimento inverso. Nessuno deve fare quel nome, nessuno se ne deve interessare. E se c'è ancora qualcuno persuaso della necessità e della possibilità di una trasformazione sociale globale, meglio sbatterlo in prigione. Ma, per carità, con discrezione. Siamo pur sempre in democrazia.
RIBALTE E PALUDI
(Note su un documento
rivoluzionario)
Quello che precede è un documento rivoluzionario. Pur tenuto conto
dei modesti mezzi culturali di cui dispongono i suoi estensori, esso
appartiene alla schiera dei grandi testi politici sulla reale natura del
potere. Rivoluzionario, ovviamente, in un senso particolare.
Nel corso
delle epoche è accaduto talvolta che la loro personale intelligenza, unita
alle particolari circostanze storiche, abbia spinto alcuni potenti o difensori
dei potenti a parlar troppo. Nell'arte di governare si parla troppo quando le
menzogne di una strategia di dominio vengono descritte in modo non menzognero,
quando l'ideologia viene spiegata in modo non ideologico. Il tiranno Crizia
parlava troppo quando diceva che gli dèi non esistono e che la religione è un
instrumentum regni. In quanto uomo di Stato egli aveva bisogno della religione
come tecnica politica (realtà) e di un discorso religioso sulla religione
(menzogna). Dicendo che i padroni hanno bisogno di Dio, il padrone Crizia
faceva gli interessi dei propri servi. In questo senso le sue tesi sulla
religione erano rivoluzionarie. Ma non solo in questo senso. La
giustificazione morale del potere non è soltanto un'arma contro i sudditi, ma
è anche una necessità per così dire esistenziale degli stessi potenti. Uno
sguardo lucido sul mondo, quando si sfruttano e si dominano gli uomini per il
proprio profitto, è un peso non facile da sopportare. Ecco allora che i
padroni hanno bisogno di crearsi un sistema di sante cause per giustificare a
se stessi quello che fanno. La religione ha sempre soddisfatto questa
esigenza. La sua difesa del lavoro come mezzo di riscatto per l'uomo, ad
esempio, è indirizzata sia agli sfruttati sia agli sfruttatori. Il
privilegiato riceve i propri valori da una tradizione consolidata, esattamente
come l'escluso. L'ideologia cerca poi di unire in un'unica morale ciò che
nella vita è opposto.
Un'istituzione di potere formata solo di Crizia è
impensabile.
Allo stesso modo, però, è impensabile un dominio di soli
Socrate (disposti a portare la difesa etica della legge fino al sacrificio e
alla cicuta). I potenti devono saper distinguere la realtà dalle menzogne che
raccontano per nasconderla. Quando finiscono per credere all'ideologia che
hanno creato per i dominati, nessuna strategia di dominio è possibile. Se si
finisce per credere che le leggi servono al bene dell'umanità, non si può
certo durare a lungo come uomini di Stato e d'affari. Quando la confusione si
fa eccessiva, spesso succede che qualcuno - per chiarire qual è la realtà e
qual è l'ideologia, o semplicemente per personale tornaconto - parli troppo.
Gorgia parlava troppo quando diceva che la retorica, "che il discorso falso fa
diventar vero", è la base della politica. Tito Livio parlava troppo quando
diceva - spiegando con un anticipo di secoli il gioco dell'opposizione
parlamentare - che l'istituzione del tribunato della plebe doveva servire a
controbilanciare lo sforzo bellico con l'illusione della partecipazione
politica popolare. Machiavelli parlava troppo quando diceva, mettendo da parte
ogni spirito socratico, che per governare "gli uomini si debbano o vezzeggiare
o spegnere". Hobbes parlava troppo quando diceva che le leggi, senza spada,
non sono che vuoti nomi; che l'obbedienza dei sudditi si ottiene e con le
garanzie di sicurezza e con la paura. Bacone parlava troppo quando, per
controllare i cittadini, proponeva di riempire le strade di spie governative
opportunamente mimetizzate. Baltasar Gracián parlava troppo quando,
inaugurando la grande scuola gesuitica degli allevatori di tiranni,
consigliava ai regnanti l'arte di prudenza e di simulazione. Hanno parlato
troppo Mazzarino e Clausewitz, Tocqueville (a modo suo) e De Maistre. Quello
di Hegel è stato, a un orecchio attento, un lungo parlar troppo. Ha parlato
troppo Spengler, che voleva togliere alla borghesia ogni idea di progresso e
di ipocrita pacifismo. E così Giuseppe Rensi, che si spingeva, in piena
sbornia di universalismo neo-idealista, fino a dire che il potere andava
difeso sostenendo la sua assoluta arbitrarietà. In che misura tutti costoro
abbiano servito i loro padroni, oppure, indirettamente, gli sfruttati, è
dipeso da molti fattori, non ultimo la pubblicità delle loro idee. Accanto a
questa strada minoritaria, si è sviluppata quella dei Socrate (per fare
qualche nome: Platone, Aristotele, Kant, Rousseau), sempre all'opera per
nascondere, in ossequio a ragioni morali, la vera natura del potere. Non che
anche in questi ultimi non si possano trovare idee spaventosamente repressive
(anzi, la difesa virtuosa dell'autorità raggiunge talvolta vette inarrivabili
per qualsiasi machiavellismo). Ma la loro preoccupazione è di camuffare dietro
i valori etici la reale tecnologia del potere. Malauguratamente, la cultura di
sinistra, che di valori se ne intende, ha bollato con le proprie scomuniche
tutta la linea dei Gorgia (salvo là dove è potuta intervenire con le proprie
interpretazioni falsificanti - come con Machiavelli, il quale, in nome della
"duplicità" dei Principe, sarebbe un autore ironico!). Le anime belle,
infatti, si scandalizzano meno per l'oppressione, che per la parola che la
chiama per nome. Gli esempi storici che si potrebbero fare sono fin troppo
numerosi. Si prenda la difesa che quella canaglia di Bernstein fece
dell'opportunismo socialdemocratico. In realtà, abbandonando ogni idea
rivoluzionaria in quanto "antiscientifica"; difendendo la sola strategia
parlamentare come strumento di emancipazione; auspicando la progressiva
conquista del potere attraverso il controllo completo dei sindacati; Bernstein
non faceva che portare nella sfera del concetto la pratica reale del partito
socialdemocratico, la netta collaborazione dei suoi dirigenti con la
borghesia. Ma Lenin e Rosa Luxembourg non attaccarono la realtà della
socialdemocrazia, bensì il "revisionismo anti-marxista" di Bernstein, che ne
era espressione. Preferivano, cioè, che la fraseologia rivoluzionaria
continuasse a coprire il concreto e affaristico riformismo del partito. Il
dibattito dell'epoca spiega in anticipo la menzogna bolscevica, la versione
estremista del riformismo socialdemocratico. Il movimento rivoluzionario
continuò purtroppo a non capire che Bernstein andava attaccato proprio perché
aveva ragione - e il risultato fu il nazismo.
Gracián o Spengler vanno
studiati perché difendono chiaramente il Principe, da cui pretendono uno
sguardo lucido e un polso fermo. Invece le anime pie hanno un modo del tutto
particolare di servire il popolo: passargli informazioni false. Socrate non
capiva che a dire la verità sul potere nell'assemblea cittadina era Gorgia,
non lui. Il guaio dei Socrate è che finiscono per credere alla moralità del
manganello. La sinistra al potere non è meno imbecille. Lo stalinismo è un
perfetto esempio di ideologia che entra in cortocircuito.
La capacità di
distinguere tra realtà e ideologia è fornita dalla cultura. Per assolvere
questa funzione la cultura si espone però al rischio di essere usata dai
nemici, cioè dagli sfruttati. Certo, la divisione tra lavoro intellettuale e
lavoro manuale si occupa di ripartire la conoscenza in modo socialmente
adeguato, cioè gerarchico. Però le trasformazioni economiche e sociali, e la
conseguente democratizzazione delle strutture di potere, hanno fatto sì che
non si possano ridurre all'infinito gli strumenti culturali degli sfruttati,
senza ridurre allo stesso tempo la cultura nella sua globalità. Le conoscenze
tecnologiche specializzate su cui si basa la nuova separazione di classe non
sono sufficienti a formare una cultura, e quindi - come si è detto - una
strategia di dominio. L'ignoranza storica, ad esempio, è fatale nell'uso della
repressione: anche il sacrificio, il controllo e il recupero hanno bisogno di
coerenza. Ma una società lanciata a kamikaze verso il Niente, può occuparsi
del passato?
Tutto questo per dire che il potere non è mai stato così
potente e allo stesso tempo così stupido. Non essendo preparati alla menzogna
strategica, e non volendo allo stesso tempo essere colti in flagrante delitto
di ignoranza, sempre più spesso i padroni raccontano qualsiasi idiozia.
Fortunatamente per loro, possono ancora contare sull'obbedienza di un popolo
di stoici.
Questo dei Ros è un documento teorico rivoluzionario. Certo,
gli estensori non sono particolarmente dotati. Chissà cosa vorrà mai dire, ad
esempio, "concorso psichico" in un attentato (p. 12). Ciò di cui non mancano,
però, è uno sbirresco realismo. Le persone da trasformare in "pentiti", ci
dicono fra l'altro, devono essere psichicamente duttili (p. 12), proprio come
i metalli, che si lavorano a piacimento e soprattutto senza lasciar traccia.
Insomma, per quanto nelle loro possibilità, i signori Pagliccia, Costantini,
Finotti, Brizzi, Miserendino, Sorrenti e Guida (curioso, costui si chiama come
uno dei poliziotti che ammazzarono Pinelli) hanno fornito al Principe il loro
contributo - parlando chiaramente.
Rivoluzionario, si diceva. Prima di
tutto perché conferma esattamente quello che stiamo dicendo da mesi ' a
proposito dell'inchiesta giudiziaria fabbricata dal giudice Marini. Leggendo
le pagine che precedono si capisce chi sono i veri teorici della "banda
armata" che gli inquirenti stanno mettendo sul dosso di decine di anarchici. I
carabinieri spiegano a chiare lettere che ogni metodo è lecito per sbarazzarsi
di individui scomodi e per impedire ogni diffusione delle idee sovversive. Si
vede così come le montature vengono costruite a tavolino, come la realtà viene
opportunamente falsificata, come si individuano e si addestrano le persone a
cui far recitare la parte dei "pentiti" quando le prove fabbricate non
bastano. Cose da voltastomaco, degne di funzionari tanto servili quanto privi
di dignità. Certo, per gli anarchici non è cosa nuova né sbalorditiva. La
Giustizia è uno dei fondamenti dello Stato, della società del denaro e delle
classi. Le leggi servono all'autorità e ai padroni per imporre e difendere il
loro potere. Quando queste sono insufficienti, se ne sbarazzano bellamente. Il
codice penale, a differenza di un listino dei prezzi, non può essere
aggiornato continuamente. La vita mai definitivamente doma degli sfruttati non
può essere imprigionata, una volta per tutte, nei divieti e nelle permissioni
legali. Le stesse norme disciplinari della società oltrepassano il quadro
delle leggi. Così come ci sono attività economiche illegali totalmente
normalizzate e necessarie al mercato (traffico di droga, ricettazione, riciclo
del denaro detto sporco, eccetera), ugualmente lo Stato fa di mille illegalità
politiche una norma. Anche la repressione si comporta allo stesso modo. Tutto
questo sorprenderà le anime pie che credono allo spettacolo di giudici
incorrotti che ci difendono da potenti e lestofanti, non di certo coloro che
vogliono sbarazzarsi di ogni uniforme e toga. Con tutto ciò, fa un certo
effetto vedere come gli estensori della nota informativa "si permettono di
suggerire", per usare il loro linguaggio, le più farabutte falsificazioni.
Ecco l'inchiesta Marini riassunta in poche righe: "Come previsto, la NAMSETCHI
[la "pentita"] ha palesato non avere alcuna propensione per le ideologie
anarchiche ed ha ammesso di attraversare un periodo difficile, dichiarandosi
disponibile a fornire qualsivoglia contributo alle acquisizioni dell'A. C. Si
apre a questo punto la possibilità di cristallizzare infine tutte le indagini
condotte sul conto dell'eversione anarchica negli ultimi dieci/quindici anni,
che fino ad oggi non avevano dato risultati soddisfacenti in sede penale [ ...
]. In particolare si delinea la probabilità di agevolmente operare pressioni
sulla Namsetchi, riconosciuta elemento vulnerabile e psichicamente duttile [
... ]. Se la testimonianza a carico non dovesse assumere sufficiente carattere
probatorio, si può ipotizzare una chiamata di correità [ ... ]. Si permette di
suggerire l'ambientazione di attività criminali come rapine nella zona di
Trento [ ... ]. Il successivo riconoscimento del tribunale giudicante la
legittimità della NAMSETCHI permetterebbe di ipotizzare il reato di banda
armata o anche solo di associazione sovversiva per tutti gli anarchici [ ... ]
portando come elementi a carico determinanti le dichiarazioni rese dalla
NAMSETCHI" (pp. 11-12). Le conferme, contenute in questi passi, di tutto
quello che abbiamo detto nei giornali, nei volantini, nei manifesti, nei
dossier, nelle conferenze, negli interventi in piazza, sono talmente
inconfutabili; le menzogne dell'inchiesta sono talmente vere - che si potrebbe
quasi dubitare dell'autenticità del testo. Invece è autentico, come dimostrano
anche i ripetuti tentativi dei carabinieri di farlo sparire (rimarchevole il
fatto che delle indagini sulla sua autenticità siano stati incaricati gli
stessi Ros!). Le anime belle, ancora una volta, saranno più scandalizzate
dallo scandalo della "nota", che dalla reale natura del potere che questa
disvela. I Socrate vedono tutto, tranne l'evidenza.
I carabinieri parlano
troppo, quindi rendono un servizio agli anarchici. Ovviamente parlano troppo,
in questo caso, perché noi non avremmo mai dovuto leggere la loro "nota
informativa". Ma la Fortuna (sotto forma di qualche rivalità e bega di Corte)
ancora una volta viene in aiuto ai ribelli. Trattandosi di carabinieri, i Ros
riescono a mentire persino nelle loro informazioni riservate. Ad esempio,
quando dicono che le pubblicazioni anarchiche sono "a circolazione interna"
(p. 8), mentre si sa benissimo che sono diffuse ovunque possibile. Ma per lo
più si tratta di ignoranza e di ottusità. Nel complesso il documento è
sufficientemente lucido e assolutamente veridico. Del tutto particolare,
quindi, il valore rivoluzionario delle parole dei birri.
Ma non solo
perché dimostrano che Marini mente. Il loro interesse risiede soprattutto nel
fatto che rivelano, in negativo, quello che il potere teme. Cos'è che "non può
assolutamente venir ulteriormente tollerato" secondo i Ros? La pubblica
diffusione delle idee insurrezionaliste, contro la quale il codice democratico
non fornisce adeguate misure repressive; le centinaia di azioni di attacco,
per lo più prive di rivendicazione, realizzate contro le strutture del dominio
negli ultimi dieci anni; un insieme di rapporti e di lotte sociali non
direttamente criminalizzabili; la solidarietà fra anarchici.
Il quadro
delineato dai carabinieri chiarisce meglio il discorso su insurrezione, sigle
e organizzazione anarchica specifica, di quanto non abbia fatto il dibattito
fra compagni. Gli estensori del documento dicono chiaro e tondo che hanno
bisogno di un'organizzazione armata a cui attribuire tutti quegli atti di
rivolta che non riescono a reprimere, perché "collocati nella palude
dell'anonimità" (p. 5). La questione oltrepassa il campo penale, e coinvolge
la capacità stessa dello Stato di comprendere la progettualità rivoluzionaria.
Ciò che il dominio teme è la rivolta diffusa, impossibile da ricondurre sul
terreno politico o militare. L'esistenza di strutture organizzative non legate
alla temporaneità delle lotte e che rivendicano con le proprie sigle le azioni
di attacco offre maggiori elementi di "decodificazione", e di separazione
degli anarchici dalle reali pratiche sovversive degli sfruttati.
Il
rivoluzionario a volte cerca di superare la distanza che lo separa dai
conflitti sociali attraverso la magia delle parole. Se scrive un libro, dirà
che le sue tesi sono già nella testa di tutti 91 sfruttati; se passa
all'attacco di qualche struttura dello Stato e del capitale, dirà di
partecipare al "processo generale d autorganizzazione sovversiva
insurrezionale che i proletarizzati in rivolta si danno". Ma dov'è questo
processo? Se ne accorge davvero, il nostro rivoluzionario, quando qualcosa si
muove?
Quando la rivolta sociale non sembra dietro l'angolo (ma magari
solo un po' più in là, come dimostrano fatti recenti), si dovrebbe attendere,
oppure limitarsi a diffondere, non si sa bene come, le idee? Chi scrive pensa
di no. L'attacco è sempre un fatto positivo e costituisce esso stesso un
contributo teorico e metodologico. Ma se si agisce da soli o assieme ai
compagni che ci sono affini, non c'è alcun bisogno di considerarsi gli ultimi
mohicani della rivolta, né di nascondere l'isolamento con l'illusione di
essere già dentro una pratica insurrezionale diffusa. Per agire non occorre
pretendere di essere né un'avanguardia né l'oltrepassamento reale dei limiti
delle lotte sociali. t sufficiente considerarsi sfruttati accanto agli
sfruttati; sfruttati che vogliono farla finita con il potere e lo
sfruttamento. La rivolta non ha bisogno di altre giustificazioni. Così il
discorso di classe diventa tutt'uno, nei suoi limiti e nelle sue prospettive,
con i propri individuali progetti sovversivi. Niente di più, niente di meno.
Sempre che, ben inteso, non si pensi che gli anarchici possono distruggere lo
Stato e il capitale da soli.
Chissà perché, invece, quando
un'organizzazione rivendica delle azioni distruttive del tutto simili ad altre
mai uscite dalla "palude dell'anonimità", oppure mai uscite con un programma
organizzativo, subito, come per magia, gli attacchi diventano dei salti di
qualità nella "lotta armata", l'incontro già avvenuto con le "lotte
proletarie". Perché? Potere delle sigle?
A un certo punto della nota
informativa (p. 9), si parla di "una organizzazione rivoluzionaria anarchica
oltranzista-insurrezionalista che, per quanto attenuata dall'iniziativa
lasciata ai singoli, si pone tuttavia in una inevitabile posizione di
contrasto con la dottrina anarchica classica". Certo, per chi pensa che tutti
gli individui debbano per forza organizzarsi come i carabinieri, la libera
iniziativa non può che essere lasciata ai singoli, col rischio inevitabile di
"attenuare" ogni efficacia organizzativa. Ma per gli anarchici, che fedeli nei
secoli non sono, la libera iniziativa dei singoli è la base di ogni rapporto.
La stupidità autoritaria in questo caso è rivelatrice. Il potere democratico
ha capito, persino attraverso i funzionari dell'Arma, che alla repressione
serve tutto, anche le idee anarchiche. I Ros scomodano addirittura la
"dottrina anarchica classica" per squalificare ogni ipotesi insurrezionalista.
Chi è per l'insurrezione, deve per forza essere per l'organizzazione
autoritaria, per le gerarchie "almeno di fatto" (p. 1). Ancora una volta, il
problema dei repressori non è solo quello di inventarsi una bella "banda
armata" per comodità giudiziarie (anni e anni di galera senza accuse
specifiche - potere dei reati associativi), ma quello, teorico e strategico,
di portare i sovversivi sul terreno che lo Stato conosce e sul quale ha già
vinto. La pratica dei sovversivi e le rivolte degli sfruttati in collera, il
potere vuole vederle. Come Dante e i teologi medievali temevano la selva
(luogo di perdizione, immagine di passioni e di strane corrispondenze,
groviglio in cui la Ragione si muove a fatica), così lo Stato teme le paludi:
non si sa mai cosa può uscirne. Le possibilità insurrezionali lo Stato vuole
conoscerle prima che si realizzino. Ha bisogno di un'organizzazione
insurrezionalista che sia un riferimento quantitativo e formale. In assenza di
ciò, le lotte diffuse (occupazione degli spazi, iniziative scandalose,
dibattiti, manifestazioni di solidarietà, eccetera) sono un "coacervo" (p. 7),
un'immensa palude. Le idee possono diventare azioni, e viceversa, in uno
scambio continuo e inesauribile. Come arrestare tutti quanti?
Si è fatta,
soprattutto nell'ultimo periodo, non poca confusione sul concetto di
organizzazione. Senza voler affrontare il problema in tutta la sua portata,
ciò che importa qui è distinguere tra l'organizzazione come fatto e
l'organizzazione come struttura specifica, e ancora tra l'organizzazione
"insurrezionale" e l'organizzazione "insurrezionalista".
Quando, pur
sostenendo la necessità dell'insurrezione, si critica l' "organizzazione
armata", non si critica l'organizzazione del fatto armato nel corso dello
scontro insurrezionale, e nemmeno l'uso delle armi nei periodi non
insurrezionali. Ciò che si critica è l'esistenza di una struttura specifica
che, all'infuori delle temporanee esigenze di una lotta, rivendica se stessa
in quanto struttura.
Ci si risponderà che l'organizzazione è una necessità
permanente della pratica sovversiva. Giustissimo. Ma perché caricare di una
sigla, cioè in fondo formalizzare, un fatto? Perché trasformare un'occasione
di discussione e di contatti - quale può essere un'organizzazione informale
insurrezionalista - in una struttura decisionale?
Per "organizzazione
insurrezionale" si può intendere sia la risoluzione pratica generale dei
problemi posti dall'insurrezione (scontro armato, approvvigionamento,
comunicazione, eccetera); sia le strutture organizzative, formate da
rivoluzionari e sfruttati, che nascono nel corso delle lotte, "secondo la
situazione" (p. 3). Ma in entrambi i casi, si parla di qualcosa di legato a un
tentativo materiale di insurrezione. Al di fuori di ciò, che farsene di
un'organizzazione armata specifica? Molto meglio, ce lo dicono i carabinieri,
la palude della rivolta diffusa.
Questa "nota informativa" è un testo
prezioso, da diffondere il più possibile. Giudici e carabinieri vi troveranno
lo scandaloso smascheramento delle loro pratiche terroriste - e cercheranno
quindi di proibirne la lettura. Le donne e gli uomini di cuore e di coraggio
vi troveranno elementi sufficienti per pretendere, assieme a noi, la
liberazione di tutti gli anarchici sequestrati dal mentitore Marini; inoltre,
potranno trovarvi - ciò che più importa - l'occasione per riflettere sulla
reale natura delle leggi, della Giustizia, del potere. I compagni vi
troveranno utili informazioni per affilare armi e desideri, e continuare nella
lotta. Senza "il ben che minimo accenno al dialogo con le Istituzioni" (p. 8).