Giu 112020
 

Riceviamo e pubblichiamo

All’inizio il colloquio ha tenuto duro. Certo, con delle limitazioni, ma in un momento emergenziale del tutto accettabili e giustificabili.

Colloqui vietati ai bambini sotto i 12 anni, un solo familiare ammesso ogni persona detenuta, obbligo dell’utilizzo della mascherina da parte del familiare, controllo della temperatura all’ingresso.

Il primo colloquio in tempo di coronavirus ha avuto una partenza a singhiozzo, prima confermato, pareva, in un secondo tempo, essere stato annullato.

Ma la speranza è sempre l’ultima a morire, così la mattina prevista mi reco lo stesso a colloquio. L’accesso agli uffici è sbarrato da un paravento e da una porta a vetro con un foro all’altezza della fronte. L’accesso si sarebbe effettuato previa compilazione di un’autodichiarazione in merito alla non residenza nella zona rossa e al controllo della temperatura. Fortunatamente il nuovo confine ha lasciato il libero accesso ai bagni (senza sapone!) e alle macchinette distributrici di viveri e bevande. La giornata è calda e soleggiata, così che si sta volentieri fuori, al sole. Siamo solo in 5.

La mascherina è il vero lasciapassare, l’uomo che non ce l’ha si dispera; arriva da lontano, è sveglio dalle 3 di mattina, non può rinunciare al colloquio per via della mascherina. Le guardie non ne hanno: “sapevate che il colloquio si poteva fare solo con mascherina”. Quel “sapevate” è tutto da capire, visto che le notizie ciascuno se le è reperite da solo sui vari social o con il passaparola. Fortunatamente una signora estrae dalla borsa le introvabili mascherine e gliene offre una, in questi casi la solidarietà è forte.

Nell’attesa un po’ si legge, un po’ si fuma, un po’ si chiacchiera. Un ragazzo chiede come mai non ha visto posti di blocco lungo le strade: pensava di trovarsi nella zona rossa! In questo scenario, già in parte surreale, iniziano le operazioni di controllo.

Al di là del vetro ci sono un’agente donna e una persona con il camice verde che brandisce lo strumento della selezione: un termometro ad infrarossi.

Il primo ad appoggiare la fronte supera la prova. Al secondo, invece, l’accesso viene negato: temperatura 37°.

Anche alla seconda possibilità concessa dal potere il verdetto è negativo. L’incontro con il suo caro è rimandato. Da oggi le relazioni affettive in carcere hanno un nemico in più, la temperatura oltre i 37°.

Anche per una seconda persona il termometro dice 37,4 e un altro familiare viene mandato via, la sola concessione è di far entrare il pacco.

Io, al secondo diniego, mi spavento, sono rimasta un’ora al sole come una lucertola, prendo tempo e vado in bagno, polsi e fronte sotto l’acqua gelata. Obiettivo raggiunto. Entro e, per oggi, la mia relazione affettiva è blindata, da lì non si torna più indietro. Consegnati i pacchi e depositati gli effetti personali negli armadietti i controlli oggi sono quasi informali.

L’agente donna ci chiama: “donnine venite qui che vi controllo”.

Eccezionalmente viene concesso di portare all’interno la regina Amuchina.

La distanza di sicurezza (droplet per i precisi) per noi parenti è facile da rispettare, siamo rimasti solo in tre. Fino a qui tutti indossiamo la mascherina, parenti e agenti. Nell’area colloqui, invece, le guardie non portano la mascherina.

Visto che siamo in pochi ognuno è destinato ad una sala diversa, dunque, pericolo contagio per assembramento uguale a zero.

Pochi attimi e arriva il mio compagno, spalle curve, volto provato, sguardo preoccupato, ed è senza mascherina.

Baci e abbracci; tempo 15 secondi irrompono nella stanza due guardie minacciose: “signora, se non rimette la mascherina sospendiamo il colloquio”.

Mi dicono che il pericolo “viene da fuori” (appunto, anche loro, come me, vengono da fuori, ma in questo luogo, dove sembra di starci solo per gentile concessione e non per diritto, meglio evitare polemiche).

Fare il colloquio da soli nella stanza è molto bello. Non è necessario parlare a bassa voce per non aumentare il frastuono, ma anche per non far sentire agli altri i propri discorsi. La preoccupazione sono i tempi, il mio compagno, veterano del carcere, sa che ritornare alla normalità dentro richiede sempre molto più tempo, rispetto a fuori. Ci salutiamo con la promessa di rivederci la settimana prossima.

La lontananza pesa molto e la voglia di rivederlo il prima possibile mi fa anticipare il secondo colloquio. Per non rischiare la bocciatura, mezz’ora prima del fatidico controllo temperatura prendo una tachipirina, male non fa.

Questa volta siamo in sei, tutte donne, tutte munite di mascherina e tutte in salute. A provare la temperatura non c’è più il “camice verde”, ma solo un’agente in divisa blu. Anche questa volta la perquisizione avviene “di gruppo”, tanto siamo tutte donne.

Nella sala d’attesa sono comparse due nuove disposizioni. È fatto divieto per le persone detenute portare bevande e generi alimentari nella sala colloqui. Si deve sapere che, subito dopo i saluti, la prima cosa che tutti fanno è apparecchiare il tavolo, vale a dire mettere una tovaglia e poi riempirla con bibite, patatine, merendine…da consumare insieme. Una scarna riproduzione di un ambiente familiare, ma che in qualche modo rende felici e appaga il bisogno di intimità. Da oggi la tavola imbandita è fuori legge.

L’altra disposizione riguarda i colloqui non consumati; per ogni colloquio annullato vi è la possibilità di sostituirlo con una telefonata da 10 minuti.

La situazione appare sempre più grave e allarmante.

Tuttavia, si va incontro al proprio caro con il sorriso, si cerca di pensare al futuro. Questa volta tanti abbracci ma niente baci, anche se la stanza è ancora una volta tutta per noi. Parlare con la mascherina modifica un po’ la voce e per chi non è abituato dopo un po’ diventa una tortura, eppure si fa finta di niente, l’importante è mantenere in vita la relazione, anche in regime di coronavirus.

Io vorrei tornare un’altra volta a colloquio, nella stessa settimana, ma il rischio è di rimanere 15 giorni senza vedersi e dentro è tutto ancora più complicato. Le giornate trascorrono lente, senza fare niente, senza vedere nessuno, senza sapere.

All’uscita dalla sala colloqui la guardia ci dice: “toglietevi pure un po’ la mascherina”. Distribuzione di umanità gratuita o tanto le mascherine non servono a nulla?

Quando esci pensi al tuo compagno che ritorna nella stanza, sdraiato sulla branda ad aspettare che il tempo passi. L’unica immagine che ti consola è il pacco che a breve gli verrà consegnato con le cose cucinate, l’odore di casa che riempie la cella.

Io devo decidere se anticipare il prossimo colloquio, che nel dubbio ho già prenotato, ma il decreto 2 marzo 2020 n°9 decide per me.

[…] a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui sono svolti a distanza […].

Chiamato l’ufficio colloqui mi conferma quanto sopra, ma vista la prenotazione già effettuata posso consegnare il “pacco”. Magra consolazione, ma per non soccombere ci si appella a qualsiasi brandello di normalità.

Così, come ogni settimana, ho portato il pacco in carcere, solo che questa volta il pacco arriverà prima di me, anzi io non arriverò proprio. Tutto è rinviato al 31 marzo.

Nonostante le misure di precauzione adottate anche i colloqui sono stati spenti.

Tra tutte le restrizioni di questi giorni questa è l’unica ad avere già una data così lontana. È già stabilito che per un mese non si faranno colloqui, comunque vadano le cose. Come a dire: “una volta deciso non ci si pensa più”.

Questo decreto ha reciso l’ultimo contatto vivo con l’esterno visto che tutto il resto era già stato soppresso nei giorni scorsi.

I nostri cari sono soli, isolati. Si sta infliggendo a tutti, persone detenute e loro familiari, un regime di carcere duro, senza colpe.

Ora, io che non ho il numero fisso autorizzato a ricevere le chiamate, posso solo aspettare che mi venga recapitata una lettera, forse tra una o due settimane.

4 Marzo 2020