Giovedì 20 maggio si terrà, in una delle aule del Tribunale di Roma, un processo contro cinque compagni e compagne per il reato di manifestazione non autorizzata. Il “gravissimo atto illecito” è stato compiuto il 13 maggio 2016 davanti alla sede del DAP (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria) e ha fatto parte di una serie di iniziative proposte dalla campagna “Pagine contro la tortura”.
Intenzione di quella iniziativa era lasciare dei libri ai responsabili del trattamento delle persone detenute e della gestione delle carceri. Un gesto simbolico, quindi, accompagnato da interventi al microfono in cui veniva manifestato tutto il nostro disprezzo per chi, comodamente seduto dietro lucide scrivanie, assume decisioni che incidono pesantemente sulla vita ( e sempre più spesso ne possono provocare anche la fine) di chi è dentro le galere.
La campagna “Pagine contro la tortura” si aprì nel 2015 a seguito della notizia, divenuta pubblica per altro con notevole ritardo, che già dal 2011 chi è ristretto nelle sezioni di 41bis non può più ricevere tramite corrispondenza e colloqui con parenti e/o avvocati libri, riviste né qualsiasi altra stampa. Unica possibilità: acquistarli previa autorizzazione del direttore del carcere in cui si trovano ristretti.
Per chi conosce il carcere, anche indirettamente attraverso la detenzione di un proprio caro, sa bene quanto importante sia l’accesso alla lettura e allo studio. Per chi è detenuto in 41bis, poi, può diventare l’unica possibilità di “”evasione” da una crudele quotidianità.
Ricordiamo in cosa consiste quella quotidianità:
– L’assegnazione della persona presso un carcere lontanissimo dal luogo di residenza dei familiari.
– Isolamento per 22 ore al giorno (soltanto nelle due ore d’aria è possibile incontrare altri/e prigionieri/e e comunque in gruppi di massimo 4 persone e solo con questi è possibile parlare);
– Il colloquio (un’ora al mese) è autorizzato esclusivamente con i soli familiari diretti ed impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto;
– Una telefonata al mese di soli 10 minuti e solo se non si effettua il colloquio. Il familiare, autorizzato al colloquio telefonico, riceverà la telefonata presso un un istituto penitenziario prossimo alla propria abitazione;
– All’interno delle sezioni è di servizio il Gruppo Operativo Mobile (GOM), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;
– Il “processo in videoconferenza”: l’imputato detenuto non può accedere in aula ma deve seguire il processo da una cella del carcere in cui è rinchiuso e tecnologicamente attrezzata per il collegamento audio e video gestito a discrezione da giudici. Una pesantissima limitazione del diritto di difesa ;
– La censura-riduzione nella consegna di posta;
– L’impossibilità di avere accesso ai benefici di legge salvo che non decida di collaborare con l’autorità giudiziaria.
Intenzione di chi partecipa alla campagna è non solo quella di sensibilizzare alla partecipazione ad una lotta contro la decisione di attuare quel drastico limite di accesso alla lettura, ennesima vessazione dello Stato nei confronti dei suoi ostaggi detenuti nelle galere, ma anche quella di aprire uno squarcio visibile sulle condizioni di vera tortura quotidiana che le persone in 41bis e i loro familiari (non dimentichiamolo) sono costretti a vivere.
Tra le analisi prodotte dalla campagna c’è sempre stata quella per cui le leggi e le norme di natura emergenziale (quali quelle che hanno visto la realizzazione del regime di “carcere duro”) col passare del tempo, si estendono: ogni restrizione adottata nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle sezioni di Alta Sicurezza e in quelle “comuni”.
E non c’è nessuna soddisfazione nel verificare la giustezza di quella profetica riflessione. L’attuale gestione delle carceri, da marzo dello scorso anno, ne è la più evidente dimostrazione. Pensiamo al plexiglass di separazione durante i colloqui e alla riduzione se non cancellazione degli stessi, alle telefonate in loro sostituzione, al rafforzamento dell’autonomia delle singole direzioni nelle decisioni assunte, all’estensione dei processi in video conferenza. Per non parlare poi, tornando strettamente alla questione che ha determinato la realizzazione della manifestazione per cui oggi i compagni sono a processo, dell’estensione ad altre sezioni della riduzione del numero di libri che è possibile tenere in cella oltre che all’autorizzazione discrezionale del direttore alla loro lettura, fatta sulla base dell’argomento trattato. A questo aggiungiamo quanto la chiusura totale all’ingresso di persone, diverse da chi all’interno vi lavora, abbia potenziato la già precedentemente scarsa mancanza di notizie dall’interno e l’opacità di quelle mura.
E infine, ma certamente non per importanza, dobbiamo ricordare che l’anno scorso c’è stato un avvicendamento ai vertici del DAP che oggi vede la presenza di due rappresentanti di spicco della direzione antimafia e antiterrorismo. Quindi persone la cui carriera si è costruita sulla base della cosiddetta “guerra alla criminalità organizzata”, a colpi di operazioni ed arresti. Persone formate nella prospettiva del “carcere duro” e del “buttare la chiave” e che, oggi, si ritrovano ad esercitare uno tra i massimi poteri dello Stato: la gestione delle carceri, cioè la sua logistica e il trattamento delle persone detenute.
Dire tutto questo non significa, così come spesso gli organi di informazione scrivono, essere “complici dei mafiosi”.
Siamo contro lo Stato e contro tutte le manifestazioni del suo tentacolare potere. Non siamo certo noi a sostenere comportamenti sopraffattori, arrivisti, sprezzanti della dignità e avidi di profitti.
Ed è per questo che siamo contro il carcere che è nient’altro che l’emblema di tutto questo.
E davvero ci domandiamo se, a fronte della mostruosità che il carcere ed in particolare il 41bis rappresentano, possa essere una manifestazione non autorizzata davanti al DAP a significare un problema per la società e non piuttosto il fastidio che ha arrecato agli zelanti impiegati di quegli uffici.
Solidali con le compagne e i compagni sotto processo e una certezza: non ci ridurrete al silenzio né vi permetteremo di nascondere le vostre infamie dentro armadi blindati.