Nel suo "criticismo" Kant lascia incriticato proprio il pensiero.
L'allotropo empirico-trascendentale kantiano (come lo chiama Foucault) duplica il già pensato, costituendo l'immagine del pensiero: il senso comune.
Ma propriamente il senso comune è ciò che rimane fuori dal pensare.
Il senso comune è immagine del pensiero in quanto "riconoscimento": riconosciamo le cose per come le abbiamo già pensate. "Riconoscere" non è affatto pensare, poiché è banalità e tautologia, è automatismo che non può spiegare il pensiero in quanto tale.
L'immagine del pensiero si svolge a partire dal pregiudizio cartesiano per cui noi non possiamo non pensare: se di una cosa siamo certi è che pensiamo, dunque esistiamo (cogito ergo sum). Ma il "dubbio" di cui parla Cartesio (che forse rientrerebbe di diritto nel "pensare" in quanto tale) ed il generico "cogito" non sono a rigore la stessa cosa, soprattutto se per cogito intendiamo il tautologico "riconoscere" la "corrispondenza fra parola e cosa" (per Kant l'intuizione è solo sensibile -contro la platonica intuizione intellettuale-, mentre il pensiero è sempre mediazione/deduzione, l'intelletto unifica e non intuisce, il pensiero è sempre "pensiero verbalizzante": per questo motivo la deduzione metafisica delle categorie o concetti puri dell'intelletto può aver luogo da un sistematico catalogo dei giudizi. Dunque i concetti puri dell'intelletto sarebbero vuoti senza l'intuizione sensibile, come questa sarebbe cieca senza l'universalità intellettuale).
E nel "riconoscimento" il pensare è addirittura paradossalmente lasciato fuori, escluso e rimosso.
Quindi non è accettabile sostenere che "siamo soliti" pensare, ossia che pensare è nostra "abitudine". Semmai il pensare è un evento raro. Infatti è propriamente uno spingersi oltre il già pensato, cioè oltre il senso comune e l'abitudine, oltre il riconoscimento dell'identità. Mentre l'abitudine, l'habitus del vivere, è ciò da cui derivano (seguono!) il soggetto e le credenze del senso comune (a ragione Hume e l'empirismo inglese sorridono quando sentono parlare del "je" come di un principio)
Spiegare il pensiero in questo senso è il compito di un "empirismo trascendentale", contro l'ipotesi dell'immagine del pensiero (tesi kantiana del riconoscimento e quella platonica della reminiscenza), del principio di identità e del soggetto.
Quindi anzitutto il pensiero è piuttosto riconducibile ad un'affezione, ad una violenza fatta sul senso comune, è proveniente da fuori. Anzi, è il fuori, così come "io è un altro", cioè come il soggetto (io attivo-pratico) è in quanto tale un'affezione.
A rigore possiamo affermare che il pensiero non dipende dalla nostra-volontà e che -evento raro- accade contro le nostre aspettative.
Per questo la sintesi non è "unificante" (di un "Ego cogito" che giudica) senza essere "disgiuntiva" ("enunciazione", "discorso indiretto libero").
Marx ha cercato di rovesciare Hegel ampliando e potenziando il concetto di esperienza (praxis), che, come sosterrà Dewey, non può essere fatto equivalere a "coscienza" o a "conoscenza". In particolare per Kant l'esperienza è scientifica-galileiana.
Ma non sarebbe stato necessario "rovesciare" Hegel (fallendo, poiché si è rimasti prigionieri dell'immagine del pensiero della dialettica) se si fosse rovesciato per tempo Kant (come dice Deleuze in Nietzsche e la filosofia) portando a compimento la critica, cioè non lasciando incriticato il pensiero.
Resta infatti da valutare la stessa legittimità del pensare (il valore dei valori), prima ancora del modo del pensiero come dato.